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I
fatti e le idee nella rete globale
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Giancarlo Salmini: dove va il movimento? Idee ripensando al '68 e dintorni |
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Zenone Sovilla___________________________________
Come fu il primo impatto con il movimento studentesco a sociologia di Trento, nel '68? Era il 5 novembre del '68, il Movimento studentesco qui era nato molto prima. L'anno più importante per la sua formazione e crescita è stato proprio il 1967 con una lunga serie di iniziative, assemblee, corsi, seminari di approfondimento sui temi dell'internazionalismo, della riforma universitaria e con incontri con rappresentanti politici e sindacali di altre realtà. Il 1968 era iniziato con una lunga occupazione, da gennaio a marzo, (in corrispondenza con l'offensiva vietcong del <Tet>), con discussioni interne, corsi, assemblee, interventi dei membri delle Black Panthers americane o con i tedeschi dell'Sds. Al mio arrivo, dunque, dopo questa prima fase, diciamo, internazionalista, il movimento aveva cominciato a mettere radici nel territorio, a Trento ma anche nella vicina Rovereto con un'azione puntuale e continua in fabbrica e davanti alle scuole. Che tipo di azione? Si puntava soprattutto sui temi della nocività del lavoro (nella fabbriche chimiche tipo Sloi e Prada, o alle Ferriere di via Brennero ma anche nella stessa Michelin di via Sanseverino), della tutela della salute degli operai, dell'orario di lavoro, del lavoro notturno, dei trasporti, della casa e così via. Non mancavano certo riferimenti alla situazione nazionale e internazionale, sempre presenti in ogni circostanza come <legante> per ogni intervento. Dopo i primi momenti di sconcerto e sorpresa, gli operai mostravano interesse per le cose che venivano dette sui volantini. Non tutti, ovviamente, la diffidenza era ancora molto diffusa, la cautela d'obbligo. Anche il sindacato - che legittimamente poteva sentirsi in qualche modo scavalcato - non mostrò ostracismo ma seppe far tesoro di quegli stimoli per rilanciare l'iniziativa in fabbrica su temi particolari e scottanti. Facciamo un passo indietro: al punto di partenza del movimento...
L'elemento scatenante la cosiddetta <contestazione> fu la condizione
di studente in quel particolare periodo storico con tutto quello che ne
conseguiva: corsi, materie di studio, metodi di studio, corpo docente,
sbocchi professionali. In poche parole l'antagonismo nei riguardi della
struttura accademica come tale. Trento, tra l'altro, non era ancora libera
università bensì un istituto che ancora doveva essere parificato
a livello statale (questo avvenne in seguito).
Dunque, rapidamente la lotta si espande dall'università alla fabbrica. Alla fine del '68 si cominciava già a ragionare in termini di intervento locale per far crescere la sensibilità e la coscienza operaia e contadina in una provincia che vedeva un partito, la Democrazia cristiana, che sfiorava il 60 per cento nelle campagne e poco meno in città e nei centri maggiori. Una provincia in cui si sentiva la presenza soffocante (anche se, a ben vedere, con imprevedibili ampie aperture al nuovo e ai messaggi conciliari) di una apparato cattolico fortemente radicato. Per il Movimento studentesco la fabbrica era vista come la prima tappa di questo percorso che ci portava fuori dall'università e verso il tessuto sociale. Quando arrivammo, all'inizio di novembre, c'era appena stata l'adunata degli alpini con scontri in cui erano stati malmenato degli studenti (uno di questi aveva in tasca il tesserino da tenente degli alpini ma non lo estrasse per orgoglio!).
Come fu l'accoglienza che riceveste dal movimento al vostro arrivo
in
Fummo accolti da una specie di "comitato di ricevimento", cioè da
alcuni studenti "anziani" che praticamente ci presero "in consegna" (dopo
le formalità di rito: da dove venite, perchè avete scelto
Trento, come vi chiamate, ecc.) e che ci accompagnarono in mensa. E lì
c'erano tutti, da Rostagno, Curcio, Padova, Berio, Di Pietra, Mulinaris,
Chiais, Camuffo e tanti altri. E così entrammo subito nel movimento,
senza neanche una minima mediazione, quasi una predestinazione, un percorso
naturale, congeniale; già il giorno dopo
Questo lavoro reticolare, rispecchiava ciò che succedeva anche altrove in Italia? Sì, più o meno sì anche se a Trento la peculiarità era particolamente accentuata sia per il tipo di facoltà che per la natura della popolazione studentesca. Gli studi più o meno erano gli stessi in più c'erano approfondimenti sulla realtà locale.
L'idea di andare fuori nel territorio c'era un po' dappertutto, era
stato
No, è stata una specificità locale. E' successo - in parte
e in misura limitata, almeno all'inizio e temporalmente più tardi
- anche da altre parti, ma
Perché era un bisogno molto forte rispetto alla situazione ambientale qui: molta Dc, molto clero…
Sì. La Dc con una facoltà di sociologia che aveva creato
con le sue mani per perpetuare il potere, per creare quadri da distribuire
nelle valli, per prendere in mano la situazione, si è trovata invece
con un'università completamente fuori controllo e spostata sulle
posizioni di un antagonismo radicale. In quella fase infatti si passò
- come ripeto - dall'attenzione ai temi strettamente accademici e scolastici
ad un orizzone universale di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione,
un'utopia concreta che allora appariva tale.
Ed esisteva un progetto, un'idea alternativa a quello che si tentava di smantellare? Nel '68 ancora no. Era ancora tutto nella fase della crescita individuale e soprattutto collettiva (attraverso prassi e teoria, lavoro politico e studio teorico) su certi temi. Non c'era ancora l'idea di un partito, del ruolo guida di una organizzazione. Era il momento di far crescere la coscienza collettiva del loro sfruttamento in fabbrica, dell'oppressione a scuola, della difficoltà di vivere in quartieri dormitorio, di pagare l'affitto. Tutto il campo sociale era investito dalla "propaganda", dall'azione politica, dall'intervento minuzioso e continuo dei "quadri" studenteschi, affiancati in quest'opera dalle prime "leve" formate da studenti medi, impiegati pubblici, operai di grandi e piccole fabbriche, apprendisti e financo dai cosiddetti "Lumpenproletari", emarginati in cerca di riscatto sociale. Il progetto era l'approdo ad una società più giusta, all'uomo liberato dallo sfruttamento, e diciamolo, al comunismo, visto come momento di sintesi di tante liberazioni individuali avvenute nella lotta per i propri diritti. L'alternativa doveva crescere via via nelle prime forme di autoorganizzazione in ogni segmento della società, dalla fabbrica al quartiere. Un percorso ancora per certi versi fumoso che si intravedeva solo. Poi c'è stata una fase successiva in cui c'era invece più forte la presenza di un progetto alternativo di società? Sì, con il passaggio di una parte dei movimenti studenteschi (a Trento buona parte del movimento studentesco), a far parte di gruppi della sinistra extraparlamentare che nel frattempo si erano andati formando nel resto del Paese sull'esempio di analoghe esperienze in Francia, Germania, Usa. Con il lento ma insesorabile processo di "ideologizzazione" si vennero gettando le basi per, da una parte, identificare nel comunismo o socialismo la meta finale, dall'altra per venire inesorabilmente risucchiati da diatribe intraspecifiche sul primato di questa piuttosto che di quella parola d'ordine a seconda dei riferimenti teorici cui le varie organizzazioni (Manifesto, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio) facevano capo (marxismo-leninismo, leninismo "illuminato", trotskismo, anarchismo ecc.). Il progetto alternativo di società dipendeva quindi da quanto marxismo o spontaneismo affiorava nelle varie organizzazioni, in perenne polemica tra loro. L'inizio della fine. Solo Lotta Continua - a mio parere ma non solo - seppe, più a lungo di altre organizzazioni, mantenere un tasso molto alto di spontaneismo e di eresia marxista cercando il radicamento nella popolazione proletaria partendo dai problemi reali e limitando la contaminazione troppo ideologica. La via per la rivoluzione era ancora troppo lunga per preconizzare già una società alternativa. E tu in questo ambito sei andato subito a far parte di Lotta Continua?
Sì. E' stato, il mio, un passaggio lineare, graduale, quasi
automatico. Tutti quelli che più o meno avevano fatto interventi
all'esterno dell'università, con l'inizio delle prime strutture
organizzative a livello nazionale cui fare riferimento (Lotta Continua
era in embrione) si spostarono all'esterno delle mura accademiche. Mentre
molti altri che avevano continuato a sostenere la priorità
Quindi la maggior parte confluì in Lotta continua? La maggior parte proseguì su questa strada. Il Movimento studentesco si sgonfia piano piano, gli studenti abbandonano il lavoro politico per proseguire sulla propria strada mentre molti altri approdano ad altri movimenti: il Manifesto, Avanguardia operaia, Potere Operaio (quest'ultimo non attecchì a Trento nonostante qualche cronista abbia continuato per anni ad annoverarlo negli spezzoni della manifestazioni, tratto verosimilmente in inganno dalla parola d'ordine, - lo slogan "Potere Operaioooo" - gridato nei cortei). Gli altri gruppi non sono in continuità con il movimento studentesco, nascono in modo più rapsodico rispetto al percorso del movimento? Lotta continua in alcune sedi nacque in continuità con il Movimento studentesco, in altre fu creata da quadri studenteschi, ma si formò con altre modalità, questo avvenne a Torino, Milano, Roma, Napoli: nelle grandi città c'è stato questo passaggio. In altre zone e città minori, furono gli stessi studenti impegnati nelle grandi facoltà delle città maggiori, a tornare al paese e a costruire le premesse per una sede di organizzazione. E gruppi tipo Potere Operaio?
Potere Operaio era un gruppo extraparlamentare con una caratterizzazione
teorica molto accentuata, presente in poche sedi, con quadri
E l'attività di Lotta continua è rimasta quella che sostanzialmente parte del movimento già faceva all'esterno? In gran parte sì. Alcune sedi continuavano a mantenere contatti con l'università, perché funzionava come una sorta di serbatoio di militanti a tempo pieno. Visti i numeri, serviva gente che tenesse in piedi tutte le strutture che si stavano allargando. In università si manteneva un filo d'interlocuzione con uno o due responsabili che si interessavano di tutto quello che succedeva e intervenivano in caso di mobilitazioni di massa. Quindi il grosso dell'attività di quel che rimaneva del movimento studentesco agli inizi degli anni '70 era sulle spalle di Lotta continua?
Dal punto di vista quantitativo era sicuramente l'organizzazione più
numerosa con un radicamento territoriale diffuso in tutto il Paese. Il
Manifesto si era ritirato a fare il giornale e non faceva grandi interventi.
Avanguardia Operaia aveva alcune sedi abbastanza numerose, forti, ma complessivamente
era Lotta Continua che aveva il maggior numero di sedi, di membri
aderenti e con una larga fascia di simpatizzanti.
E tutto questo si rispecchiava in un progetto di alternativa più o meno individuato anche nel lungo periodo o era ancora una fase di costruzione? Nel '69 ancora c'erano grosse lotte in piedi. Non dimentichiamoci l'autunno caldo con tutto quello che ne poteva conseguire. Quindi, fino ad un certo punto, l'intervento politico rimaneva un momento di crescita collettiva, di formazione, controinformazione, preparazione dei quadri operai per sviluppare la lotta di fabbrica. A questa si affiancava, in altre città, l'occupazione delle case sfitte, l'autoriduzione degli affitti, per nuovi spazi sociali, per l'allargamento delle organizzazioni spontanee di base. Non ci si poneva ancora il problema di una struttura organizzativa rigida, di un partito. Ma l'orizzonte, il progetto, l'obiettivo strategico?
Si trattava di far crescere in modo esponenziale la mobilitazione di massa
che coinvolgesse sempre un maggior numero di persone e di settori sociali.
Ad un certo punto - si pensava - lo Stato avrebbe dovuto fare i conti
con questa crescita collettiva, anche organizzata, di proletari e non,
che si univano in un grande fronte comune per… sì, per
quella che si chiamava, un po' romanticamente, la Rivoluzione. Ma la si
vedeva talmente lontana (lo slogan "padroni, borghesi ancora pochi mesi"
era solo tale, appunto) che era inutile porsi il problema di come ci si
sarebbe arrivati, il problema era organizzare, crescere, poi gli strumenti
si sarebbero trovati lungo il cammino.
Quindi anche la struttura di Lotta continua si è irrigidita? Ovviamente si irrigidì, inizialmente, ma meno di tante altre organizzazioni, meno per esempio di Potere Operaio che diede vita - più tardi - ad un'altra formazione, Autonomia Operaia. Lc pensò dunque di darsi una struttura più "partitica" per contrapporsi meglio allo Stato che veniva a questo punto percepito così potente e cinico?
Certo, per contrapporsi in modo più forte, ovviamente senza tentazioni
terroristiche: la lotta armata era condannata. C'era, in ogni caso, la
consapevolezza di doversi dotare di strumenti di tutela di fronte alla
violenza dello Stato: se tu vai in piazza con un corteo e le prendi ogni
volta, oltre al fatto che ti dovevi in qualche modo difendere in modo organizzato,
c'era il problema che potevi contare venti "latitanti" ogni volta, allora
che fai? Dove li sistemi?
Non c'erano dubbi rispetto alla prospettiva che in questo modo si apriva al movimento?
Non c'erano dubbi - nei primi anni '70 - sul fatto che si stava andando
verso lo scontro duro, lo chiamavamo "scontro generale". Uno scontro non
di avanguardia ma di massa.
Si passò in un certo senso da una visione del potere e dei suo elementi costitutivi di tipo reticolare a una di tipo monolitico e da qui il farsi avanguardia per colpire il presunto punto nevralgico del potere abbandonando il lavoro nelle varie maglie della rete che insieme supportano il sistema di dominio? Fu una discussione che durò molti mesi. Fu una reazione all'intervento repressivo nelle piazze e alle bombe: si alzò il livello dello scontro e il movimento cercò di rispondere a questo nuovo scenario con nuovi strumenti. Non è che questo fosse proprio l'obiettivo dei gestori del sistema di dominio: lo scontro frontale (contro una corazzata) per evitare un lavoro che poteva realmente minare le fondamenta di quel potere?
Il fatto è che quando sei travolto dagli avvenimenti... Ai primi
segnali d'allarme, tuttavia, dopo uno sbandamento relativo durato circa
un anno, tra il '72 e il '73, la reazione - giusta - fu di intensificare
gli sforzi per ramificarsi ancora di più nella società (i
proletari in divisa, gli interventi nei quartieri, sulle case sfitte, per
la riduzione delle bollette, eccetera). Tutto in funzione della crescita
di una forza popolare più radicata, per spazi autonomi di autogestione
e di libertà.
E come si arrivo, in questo quadro, all'esaurimento dell'esperienza di Lotta continua?
Alla fine degli anni '70 Lc, grazie anche allo strumento del quotidiano
nazionale, raggiunse il massimo della sua estensione quantitativa e qualitativa
ma la fine si approssimava. Da un lato, il terrorismo che inquinò
le idee iniziali di una sinistra extraparlamentare che piano piano si avviasse
a diventare una sinistra in grado di coinvolgere anche il partito comunista
e i partiti socialisti, una vasta area della società. Il terrorismo
stroncò definitivamente questo tentativo.
Una trasformazione epocale del capitalismo che aveva aperto le porta a ciò che poi accadde nei decenni successivi...
Sì, poi i cicli capitalistici hanno cominciato a susseguirsi con
una velocità assolutamente impensata. Oggi si passa da uno stadio
all'altro senza neanche avere il tempo di accorgersene e tanto meno di
intervenire.
Se confronti i dieci anni del movimento '68-'77 con ciò che accade oggi, che cosa ti viene in mente? Immaginare oggi un movimento che ripercorra le fasi di quel decennio è assolutamente antistorico. Non vedo all'orizzonte un movimento in grado di ripercorrere certe strade. Quello che sta nascendo - mi riferisco ai cosiddetti "antiglobal" - credo, è qualcosa che al momento non possiamo immaginare. Ora c'è un grande contenitore con dentro tutto e il contrario di tutto. Non ti pare, però, che questo movimento del cosiddetto "popolo di Seattle" stia correndo il rischio di ricadere negli schemi vecchi che hanno già mostrato i loro limiti. Penso a riflessi condizionati come quelli che portano alla perdita di una visione lucida degli elementi costitutivi del sistema di dominio (la rete sociale e non un Palazzo) o alcostituirsi in avanguardia alla ricerca di improbabili scorciatoie (ricreando già al proprio interno un ordinamento gerarchico-narcisistico con capi capetti e leader carismatici, pur amando una rappresentazione reticolare/orizzontale di se stessi come movimento)?
Non saprei, siamo in una fase di transizione molto intensa. Un capitalismo
sempre più dedito al solo profitto e in continua crescita e diversificazione.
Un capitale finanziario invadente e omnicomprensivo. La mancanza di organismi
super partes tra le nazioni in grado di dettare alcune regole. L'immigrazione
e il futuro dei nuovi lavori. Le difficoltà sindacali. Le evidenti
contraddizioni del sistema maggioritario italiano. La deriva di destra
dell'intero Paese. Tutto accade talmente in fretta che è difficile
Però, mi pare che su questo piano un parallelismo con l'oggi esista: gli Stati Uniti, il Chiapas, le multinazionali, il Brasile...
Sì, ma esiste una sorta di blackout di percezione, nonostante oggi
gli strumenti di comunicazione disponibili siano enormemente più
forti con l'avvento di Internet e dintorni. Di fronte a una globalizzazione
che ormai ha chiuso il cerchio inchiodandoci evidentemente tutti sulla
stessa barca, ci sarebbe la possibilità di una presa di coscienza
collettiva totale in un mondo non più diviso in due grandi sfere
d'interesse (Usa-Urss) ma unificato. Ormai è a nudo l'esistenza
dello stato imperialista globale delle multinazionali (formula usata dalle
Br da prendere turandosi il naso): il capitale finanziario si è
sostituito agli investimenti tradizionali e ingloba tutto e tutti. Questo
processo ha ridotto ognuno a un atomo parcellizzato che è impossibile
anche partire dal proprio particulare. Sono talmente segmentati i vari
ambiti di lavoro, di difesa dei propri interessi che c'è quasi una
impossibilità di unificazione. Da una parte c'è un sindacato
che nelle fabbriche ha visto ridursi enormemente la sua capacità
di mobilitazione; dall'altra, scuole e università in cui la gente
studia (e fa bene, per carità) ma credo che per lo più non
pensi ad altro; altrove, non ci sono quasi più i quartieri "ghetto"
che una volta si ribellavano contro il caro degli affitti, per spazi sociali
eccettera, ora ognuno si arrangia da solo come può...
E che cosa c'è? Un movimento tutto diviso in organizzazioni del tutto diverse fra loro, in grado forse di far crescere una coscienza collettiva circa il fatto che il pianeta va nella direzione sbagliata e che affogheremo tutti; però, manca un progetto unificante, un'idea di alternativa, un programma di massima e di minima, degli obiettivi intermedi, il tentativo di un rapporto serio con le istituzioni per "stanarle" e costringerle a ragionare socialmente.
E sui metodi di questo movimento che pensi? Come vedi, per esempio,
questa sorta di ritualità dei controvertici?
Mah... Dal punto di vista organizzativo non so proprio che cosa si potrebbe
fare. Noi su alcuni temi attuavamo un intervento asfissiante, martellante
per cui la gente all'inizio buttava via il volantino una volta e poi un'altra
volta ancora e poi lo raccoglieva e poi lo leggeva e non era d'accordo
e poi piano piano cambiava idea.
C'è un rischio che oggi la prassi dell'attacco ai vertici di Grandi del mondo o dei Padroni del pianeta invece di creare condivisione sociale finisca col creare distanza? Si rischia che il risultato di tutta questa mobilitazione sia proprio ciò che i gestori del dominio desiderano: fossilizzare la rassegnazione delle masse all'ineluttabilità di un sistema contestato da un movimento che alla fine si vede veramente solo in piazza caricato dalla polizia?
Credo che la gente, anche se non lo mostra, sia più cosciente di
quello che dà a vedere. Ma è divisa, non sa come muoversi.
Ma immagini una prassi migliore di quella che si è data questa minoranza antagonista con tutte le sue anime variopinte?
Ora il tema all'attenzione generale è il G8 inteso soprattutto come
violenza, scontri, vetrine rotte eccetera. Il Potere ha la capacità
sia di metabolizzare sia di spettacolarizzare, quindi attraverso i mass
media riesce a far passare anche il movimento per una cosa buona in parte,
in realtà la vuole combattere ma trasformandola, controllandola,
anche concendendo qualche cosa. E alla fine il movimento si spaccherà
fra chi riterrà buone le concessioni e chi le rifiuterà,
fra chi accetterà il dialogo con il Potere e chi lavorerà
per costruire una qualche forma di rivolta profonda.
Se davvero si sta mettendo il culo nelle pedate non è forse anche perché c'è dietro un vuoto di elaborazione, di riflessione sulle prassima in fondo anche sui contenuti: che cosa realmente si vuole, fino a dove si vuole arrivare nella contestazione del sistema che genera i mali che si denunciano? Al momento si ha la sensazione di un calderone che contiene di tutto e probabilmente alcuni equivoci di fondo andrebbero chiariti in fretta... Una volta c'erano ideologie precise che si traducevano in strategie, atti concreti, utopie, percorsi condivisi. Oggi questi percorsi sono finiti, sono stati fagocitati... Prendiamo il G8 di Genova e il confronto sulle zone colorate da conquistare. Il movimento, se ha l'obiettivo di accrescere la consapevolezza sociale su una serie di questioni emergenti, dovrebbe pensare di più al rischio di essere percepito, invece, come fenomeno marginale e di essere frainteso profondamente? E' un pericolo che c'è sempre stato. In ogni manifestazione del passato lo sbocco era a rischio, se finiva con i tafferugli, il giorno dopo la gente parlava di quelli. La gente non sa - ad esempio - che ognuno di noi ha sulla testa otto chili di plutonio che è presente in giro per il mondo (quindi una minaccia globale potenzialmente distruttiva del genere umano) però se ti tirano un sasso alla finestra parli di questo. Il problema è trasformare questi otto chili di plutonio - si fa per dire dei grandi problemi del mondo globalizzato - in consapevolezza uguale a quella per il sasso che ti tirano sulla finestra o per il ladruncolo che ti forza la porta di casa. Prima la strada era lineare, perché c'era l'ideologia che indacava una serie di punti intermedi e finali. Ora questa strada è interrotta. Come fare ora a raggiungere una consapevolezza diffusa senza l'ausilio dell'ideologia? Questa secondo me è la grande sfida dei nostri giorni e per ora non vedo risposte. Rispetto alla prassi della contestazione dei vertici intravedi qualche possilità alternativa? Bisogna lavorare di fantasia. Secondo me, la vera spinta antiglobalizzatrice è nell'associazionismo e nel volontariato, quelli veri, che coinvolgono milioni di persone. Trasformare questo associazionismo solidale in consapevolezza collettiva contro le scelte del G8 e dei suoi alleati è la scommessa, però bisogna trovare il filo ancora esile che porta alla presa di coscienza di un disastro collettivo, la globalizzazione neoliberista. Il movimento dovrebbe accelerare la costruzione di una rete con questo mondo dell'associazionismo; dovrebbe sforzarsi di usare ogni forma di comunicazione per coinvolgere, per esempio in Italia, questi otto milioni di volontari silenziosi affinché diventino altrettanti volontari "sediziosi". C'è nel movimento, o meglio in alcuni suo teorici, una tendenza a enfatizzare la forza del mondo antagonista col rischio di creare aspettative esagerate o di mandare la gente in piazza allo sbaraglio a farsi picchiare dalla polizia? Credo che quelli che vanno in piazza per confrontarsi "guerrescamente" siano gli ultimi mohicani della vecchia guardia anche se nei giovanissimi ideologicamente più preparati la tentazione è sempre presente. Poi altri possono trovarsi coinvolti e reagire di conseguenza. Il rischio degli intellettuali che indicano delle vie che poi altri percorrono a proprio rischio e pericolo c'è sempre stato. Uno scrive: siamo contro e poi qualcuno interpreta quel "contro" in modo più radicale e ne trae le conseguenze: questo è sempre accaduto e sempre accadrà. La ricerca dello scontro è un aspetto per ora non rilevante del movimento ma è certamente un aspetto dannoso sempre in agguato che potrebbe essere superato, se la strada sarà quella di una contestazione diffusa e non d'avanguardia. Prendiamo Genova e il G8: se pensiamo agli effetti, alla percerzione sociale della contestazione, non è immaginabile che a questo punto a Genova sarebbe stato meglio non esserci e giocare proprio su questo punto forte della nostra assenza come comunicazione affiancata da una presenza forte altrove? Mah... Ci avevo pensato anch'io, che alla fine magari valeva la pena di lasciarli con un palmo di naso e trovarsi da un'altra parte per presentare il proprio manifesto di lotta, spiegando bene perché non si va a Genova e alle sue zone rosse gialle e verdi. Un manifesto, però, che dica non solo ciò che non vogliamo più ma anche come si può fare a costruire quel mondo nuovo. Non vogliamo più la mucca pazza; come si può arrivare a non avere più la mucca pazza? La gente, quando viene toccata nelle cose concrete, quotidiane, sa capire e reagire. Bisogna toccare anche il locale, ciò che ci è vicino, nel quartiere, i dati sociali, le pensioni, la salute; altrimenti diventa una cosa ideologica, sovrastrutturale che la gente fatica a cogliere. Bisogna partire dalle piccole cose, non c'è niente da fare... |
Abbiamo
chiesto a Giancarlo Salmini (foto), sociologo e giornalista, di raccontarci
la sua esperienza nel movimento studentesco
- LA STORIA Ho
chiesto a Giancarlo, "Carlos", che è un amico e anche un collega
di scrivania, di raccontare il percorso che lo ha portato dalla sua cittadina
natale in Piemonte a Trento e alla facoltà di sociologia.
(z.s.)
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20-7-2001 | ||||
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