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Incontri ravvicinati del terzo settore
 

I BUONI INVADONO LA TERRA
PER VECCHIETTE, TOSSICI, ZINGARI, IMMIGRATI, 
BAMBINI MALTRATTATI, INDIGENTI IN GENERE,
E' ARRIVATO IL TEMPO DEL RISCATTO. 
"SPERIAMO CHE NON SIA TROPPO COSTOSO" 
HA DICHIARATO UN'ANZIANA SIGNORA IN FILA ALLA POSTA, 
"CON QUELLO CHE CI PASSANO DI PENSIONE SOCIALE". 

di NANDO SIGONA

  Il volontariato si è fatto grande e grosso, e anche un po’ rincoglionito. 
Dello spontaneismo di un tempo non rimane che un vago ricordo, il classico mito dell'infanzia felice. Organizzazioni che impiegano migliaia di persone con gerarchie, organigrammi e manovalanza sfruttata navigano allegramente sul grande transatlantico politico tra un mare di progetti e progettini. 
Comuni, Provincie, Regioni, Governo, Ue, Onu ecc. ecc. elargiscono finanziamenti a chiunque sappia mettere sulla carta il proprio nome, ma chi non sapesse farlo non si preoccupi, ci sono organizzazioni preposte a questo. Ce n'è proprio per tutti.
Dovunque c'è una situazione di disagio sociale, dovunque c'è un bambino che piange, che ride e che fa la pipì, ci sono loro, che asciugano il nasino, che fanno i clown, che cambiano il pannolino.

   Mondo complesso quello dei buoni per mestiere, sviluppatosi come reazione all'Italia del rampantismo anni'80, si ritrova nell'Italia d'oggi a lottare per ritagliarsi uno fetta di potere. 

   La necessità di sopravvivenza dell'associazione, cooperativa, fondazione o quel che sia, prescinde dalla ragione sociale del gruppo stesso, e spinge i gruppi ad associarsi formando cartelli sempre più grandi pronti a coprire l'intero campionario della miseria umana. Il numero molto grande di iscritti ed assistiti è infatti la maggiore garanzia per entrare nelle grazie del sistema politico. Voto e consenso quindi, la sempre verde regola dello scambio. Peccato che a pagarne le conseguenze siano i destinatari degli interventi. A chi conviene che si superino realmente le condizioni di emarginazione e miseria delle persone?
Un intervento efficace finirebbe, paradossalmente, per essere controproducente per gli operatori e i loro capi.

    Anche il volontariato è attratto verso il grande Centro, e così facendo perde ogni spinta altra e alta, ogni sostanza ideale, ogni diversità morale, radicale e profonda. La famosa critica dal basso, da chi conosceva i problemi perché ci stava dentro, è stata quasi neutralizzata. Il ricatto dei finanziamenti e la delega a fare la politica sociale da parte delle istituzioni impedisce, salvo tendenze fortemente masochistiche, ogni accusa che non sia finalizzata ad un aumento dei finanziamenti o ad indebolire il cartello avversario.

   Nell'Italia della natalità a tasso zero, nascono ogni giorno centinaia di associazioni per i più diversi fini. Sportive, assistenziali, culturali, ricreative, politiche, con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Le conseguenze di anni di ingegneria (genetico) istituzionale hanno prodotto insieme ai cloni di Diccy, la balena bianca, tanti piccoli mostri destinati a dipendere dalle cure (e dai finanziamenti) del governo di turno. Per farsi un'idea dell'entità della crescita di questa realtà negli ultimi anni basta dare un'occhiata ai rilevamenti statistici dell'ISTAT o andare in un qualsiasi Ufficio relazioni col pubblico del proprio comune e chiedere un elenco delle associazioni e enti morali operanti sul territorio. Molto spesso si tratta di organizzazioni sorte da poco tempo, spesso in seno ad altre organizzazioni già esistenti che fungono da garanti per le nuove nate che, da parte loro, possono contare su una maggiore agilità e capacità di adattarsi al bando del momento. 

   Uno degli aspetti più preoccupanti di questa situazione è l'assenza di controllo democratico sull'operato di queste organizzazioni e l'assunzione del compito di rappresentare le esigenze e i bisogni dei gruppi disagiati senza una reale investitura da parte di questi. 

   I piccoli gruppi radicati territorialmente sono via via assorbiti dai grandi cartelli e consorzi, quello che fine a cinque anni fa era chiamato arcipelago associativo, per l'eterogeneità dei gruppi, degli intenti, delle modalità di intervento si sta trasformando sempre più in una realtà  di sistema e che fa sistema, che negozia, concerta, discute, consiglia, decide.
   C'è aria di cambiamento epocale, di bisogno di ricreare e mantenere la coesione sociale in un tessuto frammentato e lacerato dal mercato. Ed è nel mercato, nelle sue regole, nei suoi codici, nelle sue strategie, che oggi sono spinti ad inserirsi i terzosettoriani. I tanti corsi di formazione per manager del sociale, le agenzie di servizio, i progettisti, gli esperti in finanziamenti, i gestori delle risorse umane sono tutte figure mutuate dal mondo aziendale e che rendono bene il senso della trasformazione in atto. 

   C'è bisogno di occupazione e così capita sempre più spesso di sentire che i vecchi, gli zingari, i tossici, i senzacasa sono una risorsa da valorizzare. Diventano infatti le materie prime di tante imprese sociali. I soldi che circolano sono tanti, mancano i controlli sull'efficacia degli interventi, anche perché interessa ben poco la qualità dei servizi erogati. I dati che servono a dimostrare l'impegno nel sociale delle amministrazioni, a tutti i livelli, sono infatti le percentuali spese sul bilancio, non l'efficacia degli interventi.
   Un controllo serio di come vengono impiegati i soldi dati ai gruppi finirebbe invece per indebolire la rete connettiva che le istituzioni hanno creato con la "società civile" e che hanno tutto l'interesse a mantenere.

    Finanziare dei progetti diventa, in alcune realtà soprattutto meridionali, un vero e proprio ammortizzatore sociale, in cui la categoria svantaggiata da proteggere ed aiutare finisce con essere proprio quella degli operatori, di solito giovani e disoccupati; il che di per sé non è un male, se poi a pagare le conseguenze di interventi approssimativi, discontinui e a volte anche pericolosi non fossero proprio quelli che già stanno peggio. 



 
 
o Il terzo settore sta sfuggendo di mano ai suoi protagonisti?
Con una serie di articoli cercheremo di indagare questo interrogativo e di mettere a nudo alcuni aspetti di una settore che presenta non poche aree grige, senza per questo naturalmente mettere in croce tutte le realtà che 
ancora riescono 
a mantenere 
lo spirito e l'autonomia 
dello slancio volontaristico e solidaristico che sta all'origine di quello che, per altri versi, si è ormai trasformato in una significativa realtà economica.

Il paese al mondo con il settore non profit di maggiori dimensioni, sia 
in senso assoluto 
che relativo, sono gli Stati Uniti 
dove l'occupazione raggiunge quasi
il 7% del totale.
In Italia, secondo l'indagine condotta da Barbetta
nel 1996, l'occupazione 
del non profit era
di 416 mila persone nel 1990 che costituivano l'1,8% del totale e il 2,% dell'occupazione nei servizi (probabilmente
il trend di forte crescita rende questi dati
superati 
per difetto).

Un altro problema
è la definizione 
del "volontariato". 
Per quanto riguarda l'Italia, le donazioni mediamente non superano 5% dei finanziamenti: le fonti principali sono il potere d'acquisto privato, il che vuol dire che la
vendita di servizi rappresenta oltre
la metà delle fonti 
di finanziamento.
Su questi aspetti è in preparazione per aprile un articolo 
di Pietro Frigato.

(21 febbraio  2001)

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