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Scegli
il tuo nemico
Ipotesi sul “movimento”,
la globalizzazione, la politica...
di VITTORIO GIACOPINI
"Seattle”
è stata l’unica grande novità politica e morale degli ultimi
anni. Non staremmo tanto a discuterne se non fosse vero. Anche al
di là delle intenzioni, della consapevolezza dei suoi protagonisti,
Seattle ha rappresentato una cesura. Un fatto nuovo nel mondo. È
vero che certe immagini diventano subito slogan, finiscono per cristallizzarsi
in stereotipi. Il movimento contro la globalizzazione. Il popolo di seattle.
La riscoperta della piazza e della politica. Sono formule di comodo ma
non possono annullare completamente il dato reale. La politica, l’ideologia,
le tattiche e le strategie non sono così importanti. La diffidenza
nei confronti dei grandi poteri transnazionali e delle “corporations”.
L’ansia per il futuro della biosfera, la preoccupazione per l’ambiente.
Il rifiuto di un mondo unificato nel segno della diseguaglianza,
dentro uno schema gerarchico. La voglia di protestare e di ribellarsi.
Prima di politica e ideologia, l’elemento che conta davvero è questo
manifestarsi di una “nuova sensibilità”.
È un quadro in chiaroscuro, un quadro ambiguo. Per molti, per troppi, il “movimento” (già il termine suona vecchio e scontato) sta diventando l’occasione di recuperare idee già morte e vecchie ricette che non portano più da nessuna parte. Ma capita sempre. È naturale. La nuova sensibilità espressa da questa immagine simbolo – “Seattle” – va al di là di questa tentazione di richiudersi in un antagonismo di maniera. È qualcosa che avverti nell’aria. Al di là di troppe cadute nella retorica della rivoluzione, di troppe concessioni a un’idea di sinistra invecchiata e caricaturale, da Seattle in poi si è aggiunta nel mondo anche un’altra voce. Il desiderio di ribellarsi alle cose come stanno, alla storia come va. L’ispirazione libertaria. L’energia liberata nelle manifestazioni di piazza. Nei dibattiti. Nel tentativo di capire e studiare. Non staremmo tanto a parlarne se non fosse vero. La novità - scrivono gli apologeti della globalizzazione - è la grande connessione mondiale sotto il segno del “mercato” e dei soldi. Del potere. Sappiamo che è vero solo in parte. L’altra novità è il desiderio della rivolta. Una nuova sensibilità. 2 – Il “movimento” sta sbagliando tutto, quasi tutto. Difficile non accorgersene. Appuntamenti, scadenze fisse, grandi occasioni per rendersi visibili e farsi sentire. È abbastanza evidente che la protesta tende a girare a vuoto. Diventa una cerimonia e un rituale. Il motivo è sotto gli occhi di tutti. Si manifesta in una dinamica pigra, ripetitiva. Seattle e Davos, Nizza, Napoli, Quebec City, Genova. Questa ossessione continua di prepararsi per il prossimo evento è sconcertante. Tra un megasummit e l’altro non succede niente. Scadenze e appuntamenti continuano monotonamente a deciderli loro. I potenti del mondo, i governi e le istituzioni internazionali, i banchieri e le “multinazionali”. Le forze e i soggetti chiave del sistema. Il movimento si limita a rilanciare. Atti di presenza. Testimonianze. Controvertici e controsummit. Un’estenuante partita di pingpong. Non sarebbe onesto far finta di niente. Il calendario del movimento lo decidono gli altri. È, e resta, saldamente in mano all’avversario. Manifestare, presidiare le piazze, provare a fare ostruzione. Fare casino. È tutto troppo scontato e rituale. Nel frattempo, succede poco o niente. Il movimento si ritira nei centri sociali. Si parla addosso in rete o nelle sue “fanzine”. Aspetta. 3 –
I mezzi, i fini, lo “stile” e il linguaggio della protesta, le scelte di
fondo. Nella ritualità di un calendario obbligato si perdono di
vista le questioni reali (un’idea diversa di società, il rifiuto
di un modello violentemente, ottusamente, obbligato di sviluppo) per restare
paralizzati sulla punta di spillo di una discussione metodologica che lascia
il tempo che trova e non serve a niente. In fondo tutto sembra ridursi
a questo: come scendere in piazza, quali azioni innescare, come regolarsi
sui temi francamente poco esaltanti della “violenza” o della “nonviolenza”.
D’accordo: le strumentalizzazione del potere, le lagne dei filistei le
conosciamo bene. E sono ipocrite e inaccettabili. Sono false. Può
non essere esaltante ma resta innegabile. Senza gli scontri di piazza,
le vetrine sfasciate, senza la stessa coazione a ripetere che porta ai
soliti attacchi ai MacDonald, senza la contromitologia dell’hamburger,
il “popolo di Seattle” non sarebbe nato. Nessuno lo avrebbe notato. Nessuno
ne avrebbe parlato.
Sfasciare le vetrine di Macdonald (o le statue di Budda) lascia il tempo
che trova. Non è una tragedia ma un sotterfugio. Durante il ’68,
a Parigi, Julio Cortazar aveva elogiato l’immaginazione sociologica degli
studenti. La creatività politica, l’intelligenza della provocazione.
Gli studenti inventavano sotto i suoi occhi una grammatica della rivolta
che non c’era mai stata. “Nessuno -scriveva – ha insegnato loro a
fare ciò che stanno facendo…Qualcosa di simile a una sorgente di
vita, un immenso amore pieno di rabbia si è levato al di sopra dei
non conformismi a metà, della torre di controllo della tecnocrazia…Non
è il momento di spiegare o definire questa rivolta contro tutti
gli schemi stabiliti; la sua sola esistenza, la forma incontenibile in
cui si manifesta bastano e avanzano a dimostrarne validità e verità”.
Oggi ci trastulliamo con le immagini imbalsamate di figure irrigidite nel mito, sterilizzate e mistificate: ancora il “Che”, la figura messianica e equivoca di Marcos, le guasconate di José Bové. Gli “schemi stabiliti” oggi sono anche quelli di una rivolta che si spaccia per la rivoluzione. Senza nemmeno accorgersi che l’immaginazione e il pensiero critico, l’irriverenza di maniera, l’anticonformismo sono improvvisamente slittati dall’altra parte. Nessuno usa tanto la parola “rivoluzione” come i creativi della pubblicità, i santoni della new economy, gli spericolati avventurieri del Nasdaq. Ci sono “due” Seattle. Quella del “popolo” e quella di Bill Gates. Nel contrappunto ossessivo che intreccia le litanie del potere alla voce ancora incerta dei contropoteri non è detto che innovazione e fantasia, capacità di civettare con il codice della protesta e della sovversione siano appannaggio di una parte sola. Il quadro resta ambiguo e sfumato. Ricco di zone d’ombra e chiaroscuri. 4 –
Il movimento non dovrebbe esistere. Se il nemico è un certo modello
di globalizzazione, non dovrebbe esistere. Esagero ma solo per spiegarmi
meglio. Lo so che i grandi eventi, le grandi manifestazioni, le prove di
forza sono indispensabili. O almeno, lo sono state. Come inizio. Come precedente.
Ma se il nemico è quello, essere presenti come un grande, immaginario,
soggetto mondiale, rischia di essere una stupida beffa e un paradosso controproducente.
Contro tutto questo, nessun movimento “globale” ha alcuna chance di fare
qualcosa. La globalizzazione (intesa in questi termini) viene a cercarti
fuori dalla porta di casa. Anzi, ti entra in casa. È quello che
mangi. È come ti vesti. Sono le macchine e il traffico che inquinano
il tuo quartiere. E sono i tuoi bambini rincretiniti dalla televisione.
Barricati in un appartamento perché fuori non c’è spazio
per loro. Non ci sono campi da gioco o strade sicure. Lo sai: quello che
conta davvero non sono i grandi appuntamenti. Le prove di forza sotto gli
occhi del mondo e delle telecamere. La cosa importante è la vita
quotidiana. Tutta la vita. Ogni giorno e in qualsiasi dettaglio. Con il
suo ritmo assonnato. Con le sue lunghe pause.
Prevalgono invece vecchi schemi. Nostalgie ideologiche. Un internazionalismo
di maniera. Un’idea della storia ancora troppo deterministica e schematica.
Il miraggio del “grande balzo in avanti”. La fata morgana della rivoluzione,
il “turismo” della rivoluzione. E già riaffiora l’intolleranza stalinista
per chi coltiva il dubbio e avanza problemi e critiche o riserve. Già
si vedono leader e leaderini pronti a trasformarsi in patetici professionisti
di una rivoluzione che non ci sarà. E si continuano a sentire le
voci troppo ispirate di quelli che sanno sempre tutto, non sbagliano mai,
cavalcano tutti i movimenti e tutte le proteste: i camaleonti furbetti
del “manifesto”, i leziosi professoroni de “Le Monde diplomatique”, i duri
e puri dei centri sociali o di rifondazione. Gli zapatisti virtuali. I
“campesinos” immaginari. Alla fine conviene ammetterlo. Il movimento coltiva
ancora il sogno francamente poco serio della presa di un “palazzo d’inverno”che
molto probabilmente non esiste. Rimpiange, senza saperlo confessare, il
vecchio schema rivoluzionario dell’avanguardia che segna la strada e definisce
la linea per tutti. In attesa di una sollevazione “globale” e di una grande
risposta generale. In attesa di un governo mondiale che oltre a essere
probabilmente impossibile è anche un sogno autoritario e sciocco,
reazionario.
Davanti a tutto questo, la nuova sensibilità nata a Seattle o espressa
a Seattle, può o dovrebbe forse soltanto opporre una parola d’ordine
di cui sarebbe il caso di recuperare la carica sovversiva, la natura irrequieta
e ribelle. La democrazia in senso radicale. L’idea libertaria che
sia necessario darsi sempre da fare per ridurre il coefficiente di potere
e di gerarchia presente in qualsiasi circostanza e in ogni società.
Probabilmente per uscire dalla ritualità e dall’estremismo consolatorio bisogna ripensare molto chiaramente chi siamo e contro chi stiamo protestando e in nome di che cosa protestiamo. Non si tratta di costruire un “contropotere globale” delle società civili parallello a quello di governi nazionali e banche d’affari, maghi della finanza, prestigiatori delle multinazionali. Commentando il summit di Porto Alegre dei mesi scorsi Naomi Klein ha scritto su “The Nation” che forse è proprio il movimento a dover cambiare, almeno se vuole contare qualcosa, fare qualcosa. Ma questo richiede una percezione diversa, un’altra visione della politica e un altro stile: l’unico modo per uscire dalla paralisi “forse sta nel trasformare il movimento contro multinazionali e poteri forti, contro la globalizzazione, in un movimento pro-democratico che difende i diritti delle comunità locali a pianificare e gestire le loro scuole, le loro acque, il loro ambiente… non un movimento per un singolo governo globale ma la visione di una rete sempre più connessa su scala internazionale di iniziative locali, tutte costruite su tentativi di democrazia diretta”. 5 -
Cosa accade nei tempi morti? Nelle lunghe fasi di pausa tra un vertice
e l’altro, tra una riunione e l’altra della “Spectre” del capitalismo globale,
del Sistema? Fuori dalla retorica è giusto dire che non accade niente.
Forse in questo sta la differenza radicale che rende speciale ma preoccupante
il caso italiano. Praticamente, non succede niente. Prevalgono la stasi,
l’abulia, una grande passività. E un estremismo molto caricaturale
e velleitario. Un terzomondismo di maniera.
Prendiamo due esempi a caso. L’ambiente e quell’autentica fabbrica del consenso e dell’ottundimento sociale che ancora continua ad essere la scuola. A Cesano, quando un gruppo di cittadini manifestava per la sua salute contro le antenne di radio Erode (al secolo Radio Vaticana) e i tralicci dell’Enel, del movimento non è vista traccia. Il risultato, grottesco, è stato che a fare la figura del rivoluzionario ha finito per ritrovarsi Willer Bordon. Nel “silenzio assordante” (sono parole sue) della sinistra ufficiale e … del movimento. Lo stesso vale naturalmente, con tutte le aggravanti del caso, per la scuola. Per un riflesso condizionato qualcosa e qualcuno è riuscito a muoversi tempo fa soltanto quando è stata agitata la parola tabù, la grande bestemmia: scuola privata; privatizzazione. “Privato” non si può dire. Non è lecito. Nel codice genetico della sinistra resta quest’improbabile idolatria del “pubblico”, questa fiducia abbastanza indecente nello Stato. Si è trattato comunque soltanto di una reazione passeggera. Di un episodio. Dell’ennesimo rito da celebrare velocemente per mettersi la coscienza a posto. Per dimostrare di esserci. Per il resto: niente di niente. Meno di niente. A furia di denunciare come una spauracchio e un mostro la globalizzazione stiamo finendo per perdere di vista troppe cose. L’immedesimazione con gli oppressi del terzo mondo o il turismo della rivoluzione, le scampagnate militanti sulle montagne del Chiapas o nel NordEst del Brasile, possono diventare anche una scusa e una caricatura. Siamo quello che siamo. E stiamo dove stiamo. Senza retorica bisognerebbe ammetterlo. Privilegiati e ricchi, occidentali, dannatamente ben nutriti dovremmo riconoscere che anche se la globalizzazione è una minaccia pure per noi, non si tratta davvero della stessa minaccia che colpisce i contadini del Messico, i bambini africani, i disperati delle favelas o delle bidonville. La globalizzazione “cattiva” (perché ce n’è anche una buona, ma questo è tutto un altro discorso e un’altra storia) ci riguarda sul terreno ambivalente e ambiguo dei consumi, sul piano delle convenzioni sociali e degli stili di vita, soprattutto nell’ambito di tutti quei fenomeni che (dall’influenza dei media sino dentro alle aule di scuola) coincidono con il consenso e con l’educazione. La scuola, il modo in cui crescono i bambini, l’aria che respiriamo, il rapporto che abbiamo con la natura e con l’ambiente. Di “movimento” forse sarà il caso di ritornare a parlare solo quando vedremo la stessa energia, la stessa voglia di ribellione, la stessa intensità critica e politica anche in questi ambiti “normali” della quotidianità, in questi momenti ordinari della nostra vita. 6 – Alla fine resta soltanto una domanda capitale. E troppo tardi? Ci sono le forze per combattere la piega degli eventi, per contrastare il rapporto suicida che un modello perverso e ossessivo di sviluppo ha finito per instaurare con le risorse naturali e l’ambiente, i modelli di vita, lo stesso livello suicida dei consumi? Vale la pena di opporsi in qualche modo, da qualche parte, a un meccanismo che sembra puntare dritto al disastro globale e alla catastrofe? Gli indizi non sono rassicuranti, si capisce. Ogni giorno che passa i termini del pericolo tendono a farsi più netti e inquietanti. Dal fallimento del summit dell’Aja sull’“effetto serra”, alle manovre spregiudicate del “grande inquinatore” Bush jr (il voltafaccia sul protocollo di Kyoto, le nuove trivellazioni in Alaska, la zelante promessa di distruggere qualche altro ettaro di foreste in Usa o in Sudamerica) tutto lascia pensare che il futuro non ci riservi altro che cattive sorprese e brutte notizie. Fuori dagli estremismi e dagli schematismi a Seattle si è intuito che bisognava fare qualcosa. E farlo subito.
Niente e nessuno tuttavia ci assicura che serva a qualcosa. Che si possa
fare qualcosa. E che qualcosa possa cambiare sul serio. Può essere
la solita lotta contro i mulini a vento. Una battaglia persa in partenza.
Un viaggio inutile.
Come ha scritto una volta Philip Dick: “una storia catastrofica non offre
mai una soluzione ai problemi, continua semplicemente a riproporli all’infinito.
Anche ammessa l’esistenza del problema forse un lavoro più concreto
o almeno più utile potrebbe essere quello di cercare, nelle nostre
storie di fantascienza, soluzioni parziali alla minaccia. Come sopravviveremo?
Cosa sarà il mondo dopo che solo pochi (o anche molti) di noi saranno
sopravvissuti? Oppure invece di scrivere storie sulla catastrofe imminente,
forse dovremmo dare la catastrofe per avvenuta e partire da lì:
dichiariamolo dal primo paragrafo… e mettiamo al centro del racconto i
tentativi compiuti dai personaggi per risolvere il problema della sopravvivenza”.
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o | (4
maggio 20001)
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Dopo
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