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Contro il sistema: appunti
sulla “nuova” critica sociale e gli anni '60
Oggi come ieri la cosa più importante
è scegliere se stare “dentro” o “fuori”...
di VITTORIO GIACOPINI Seattle, Davos, la “globalizzazione” e il rifiuto, la contestazione. Tra mille ambiguità e infinite reazioni stereotipate e ideologiche, apriorismi settari, pure e semplici idiozie, nel movimento contro la globalizzazione riaffiora dopo trent’anni di silenzio un’ipotesi di critica sociale radicale. Un “linguaggio della protesta” fuori dagli schematismi della teoria politica, irriverente e beffardo, attento ai grandi temi planetari come al sottile processo di omologazione della vita quotidiana, alla colonizzazione delle coscienze e dei “cinque sensi”. Una rivolta “dopo” la politica, quindi, una scommessa aperta, tutta da verificare. C’è molto nell’atmosfera di questi primi anni del secolo che ci riporta indietro agli anni Sessanta. In bene e in male, naturalmente. È il caso di provare a iniziare fare il punto. Per capire meglio il presente. Quello che ci succede adesso. Girlfriend in coma Venticinque,
quasi trent’anni, di coma profondo e di silenzio. Dalla metà degli
anni Settanta alla fine del secolo. Per il “linguaggio della protesta”,
per la rivolta, per la politica e la contestazione, una lunga stagione
di immobilismo e di stasi.
Forse sono categorie
troppo neutrali e schematiche. Troppo fredde. Magari la metafora più
giusta è davvero l’immagine - estrema e catatonica - del coma.
La vita sospesa. Rimandata. Un percorso interrotto. Come nel romanzo
di Douglas Coupland: "Fidanzata in coma". Karen (la “fidanzata”) perde
improvvisamente coscienza a metà degli anni Settanta. Agli altri
– agli amici e ai compagni di scuola, alla famiglia - resta da trascinare
un’esistenza che perde spessore. Il mondo cambia. Tutto diventa diverso.
Ma è un processo automatico. Nessuno sembra capace o cosciente di
incidere sugli eventi. La storia si fa da sola. La ribellione di un tempo
scade in angoscia privata. Diventa insoddisfazione inespressa, disadattamento.
Quando Karen si risveglia incrocia un panorama irriconoscibile. Un mondo
di “zombie”. Il calore dei rapporti, l’intensità dei rapporti. La
speranza. Di quell’energia del passato non c’è più niente.
Nei suoi amici riconosce le tracce di un’adolescenza perenne e la
ferita di una nostalgia impotente. I segni di una maturità vissuta
come rassegnazione obbligata, pura perdita. Quasi tutti hanno fatto soltanto
un lungo, oscillante, giro a vuoto attorno a se stessi per ritrovarsi paralizzati,
smarriti nell’ostinazione comica di chi cerca nei sogni falliti dell’infanzia
il riscatto dal mesto fallimento del presente.
Ma quello che Karen trova quando inciampa per caso nel presente non è niente. L’aspetto più spiazzante sono le cose che mancano all’appello. Quello che abbiamo perso. E non c’è bisogno di entrare e uscire da un coma profondo per scoprirlo. Dopo quasi trent’anni se ci guardiano indietro possiamo solo stilare un bilancio in perdita. Impulsi che hanno finito per spegnersi, per trasformarsi in ricordi inerti. La speranza di cambiare la vita, la convinzione di riuscire a modificare la grammatica dell’esistenza comune, la tirannia del buon senso borghese e il conformismo. L’indipendenza mentale e la capacità di rivolta. La politica. L’irriverenza della contestazione. L’ambiguità dell’estremismo. L’immaginazione sociologica. E un intero “linguaggio della protesta” che nessuno sembra più avere la voglia o la capacità di inventare e mettere in atto. Girlfriend in coma si conclude con un finale “New Age”. L’ultimo atto è un sacrificio umano che prelude a un miracolo di rigenerazione. Karen ricade nel coma per scongiurare la fine del mondo e lasciare ai sopravvissuti la forza e la voglia di reagire. L’energia e la rabbia sepolte nel passato. La capacità di farsi domande. L’indipendenza mentale e il coraggio di “essere diversi”. Un altro atteggiamento mentale: “fuori dal Planet Hollywood, fuori dal Palazzo della Borsa, fuori dalla boutique Gap… inventate codici a barre che simboleggino favole e non prezzi di prodotti… qualsiasi cosa che vada contro i sistemi di pensiero vecchi e inutili”. Il congedo di Karen è un invito molto anni Sessanta alla riscoperta della politica della mente, all’attivismo e alla ribellione cosciente, alla protesta: Incidete le vostre domande
sui ripiani di vetro delle fotocopiatrici.
Seattle 1 & 2. Il “ritorno” degli anni Sessanta Fine novembre
1999. Seattle. Nel regno di Bill Gates si tiene il “Milleniun Round” della
World Trade Organization.
Seattle lascia
il segno, comunque, diventa un modello. Per la prima volta da decenni bisogna
ricominciare a leggere la storia con un codice strabico, guardando contemporaneamente
da due lati diversi. I meeting, gli incontri al vertice, la politica ufficiale,
l’economia delle grandi “corporazioni”, l’unificazione del mondo, la realtà
(e la retorica) di una globalizzazione inevitabile.
La prossima volta il fuoco. Imprevedibilmente. Inaspettatamente. La ribellione e la rabbia, la contestazione. Uno stile di azione anni ’60 in “a web based world”. Il ritorno improvviso del rimosso. L’anacronismo di forme politiche arcaiche dislocate nel paesaggio accelerato di una modernità immateriale e postmoderna. Qualcosa che stride. Un graffio sul gesso. Una dissonanza. Ma in realtà il “linguaggio della protesta” degli anni Sessanta non è emigrato soltanto nelle piazze ribelli di Seattle o di Praga, tra le fila del movimento, sulle barricate erette lungo le strade contro il codice della globalizzazione e le corporations. Nel rifiuto di MacDonald's o dalla New Economy. Il ritorno al passato presenta un tratto più ambivalente e paradossale. Anche il capitalismo parla il linguaggio della controcultura e dell’irriverenza, gioca a spiazzare, confonde le carte. Non bisogna lasciarsi ingabbiare dagli schemi consunti del passato. Gli eroi del Nasdaq, gli avventurieri della New Economy non sono dei metodici funzionari al soldo di un meccanismo impersonale e ottuso, senza fantasia. La vecchia immagine dell’”uomo dell’organizzazione” non spiega il presente e non lo esaurisce. Chi ha guardato in faccia senza ideologismi la realtà questo l’ha capito. I consumi e il “brand” come forme di identità e differenziazione, il riciclaggio continuo dei modelli controculturali degli anni Sessanta da parte delle forme espressive del marketing e della pubblicità, la retorica liberatoria del “populismo di mercato” e dell’individualismo definiscono la situazione degli anni Novanta (e del primo decennio del 2000) molto meglio dell’antiquata figura del travet sbiadito, del capitalista rampante o dello stesso yuppie anni Ottanta. Seattle così
è anche il simbolo di un altro aspetto della realtà in cui
il passato tende a tornare perfettamente invertito, capovolto. Gli eroi
di “ieri” erano gli spostati e i ribelli, i rivoluzionari, quelli che insistevano
a cantare fuori dal coro, a rompere le righe. Militanti e artisti, hypsters,
avventurieri della pop art, hippyes, capelloni e sbandati, marginali. Un
certo tipo di critica sociale, la “nuova sinistra”. Oggi la forza dell’innovazione
sembra traslocata dall’altro lato della barricata. L’energia e la capacità
di immaginare il futuro, l’irriverenza e l’indifferenza alle gerarchie
della tradizione, l’entusiasmo. I nuovi, informali, protagonisti del presente
non sono i ribelli di una volta ma i cow boys della Silicon Valley, gli
esploratori delle frontiere estreme del mercato e del ciberspazio, i creativi
del marketing, i pubblicitari. Se ci sono vecchie mura da abbattere o antiche
barriere da scavalcare ci pensano da soli, senza bisogno di ideologie di
sostegno, senza il bagaglio ingombrante dell’impegno. Negli anni Novanta
sono loro che hanno occupato la scena lasciata vuota da un rivolta esaurita
o intasata di impresentabili, spompate reliquie del passato.
La pubblicità prende in giro se stessa. I “marchi” puntano su meccanismi di identificazione diretti, civettano con il messaggio ambientalista o con la retorica della solidarietà, con l’individualismo libertario, col gusto sfacciato della provocazione, dello scandalo. La parola “rivoluzione” sembra appannaggio esclusivo dei capitalisti. E anche il mercato viene esaltato come unica zona di democrazia, sola residua forza d’urto contro le ingiustizie accumulate nel tempo e le vecchie ricchezze immotivate, grande – egualitaria – occasione di affermazione individuale e di riscatto (5). Persino la stessa
“critica sociale” sembra emigrata sull’altra sponda. Una volta era la sinistra
(vecchia e nuova) a corrodere il presente con gli acidi dell’analisi e
della teoria, con la forza eversiva dell’anticonformismo. A proporre un’idea
di futuro da provare a inventare o da inseguire. Oggi la sinistra difende
per lo più una sua vecchia immagine che non corrisponde più
a niente o fa collezione di estremismi retorici, ideali sbiaditi o cause
perse. È diventata conservatrice e consolatoria. La “critica sociale”
(quel che ne resta) oggi è il prolungamento di una parte – la più
fantasiosa e indiscreta – del nuovo capitalismo: vive nel mondo-web, non
ha più bisogno di steccati ideologici, della teoria politica, della
filosofia o dell’antropologia, della semantica o dello strutturalismo o
del post-marxismo.
Nella battaglia
per la conquista delle coscienze e dell’immaginario vince chi sa disporre
meglio le sue pedine sulla scacchiera del presente. E non c’è dubbio
che oggi a vincere per il momento almeno siano loro. Gli innovatori spericolati,
i capitalisti incoscienti, i guru della pubblicità-progresso, gli
uomini della pubbliche relazioni e dei nuovi media. Se nessuno si trastulla
più con i tomi ingialliti dei Grundrisse ci sarà un motivo.
Quando tratteggia l’atmosfera degli anni Novanta, Douglas Coupland non
canta la rivoluzione ma non descrive neppure una controriforma, la reazione:
‘marginali’ o ‘devianti’ sono divenute dominanti nel dibattito quotidiano; la medierà è scomparsa; i diritti acquisiti si sono volatilizzati; l’ironia è ascesa al potere; un flusso ininterrotto di macchinari sempre nuovi ha generato rivolgimenti sociali sconfinati (7) Il “sistema”, ancora una volta Il “linguaggio
della protesta, la critica sociale degli anni Sessanta si scagliavano contro
un nemico definitivo e insuperabile. Lo stile di vita borghese eretto a
“totalità”, trasformato in Sistema. La rabbia, la provocazione,
l’anticonformismo prendevano di mira un’intera forma di vita che a prima
vista non lasciava scampo. L’invadenza, l’onnipresenza del Sistema. La
contestazione non si esauriva nella denuncia del capitalismo come “modo
di produzione” o più semplicemente come assetto ideologico, forma
consacrata e ufficiale di potere. Il campo di battaglia decisivo era il
terreno della vita quotidiana.
Nei suoi momenti migliori, più ispirati, il “Movimento” colpiva prima o fuori dalla politica, cercava un “altro” modo di vivere, un altro stile. Del Sistema rifiutava la pretesa prevaricante di determinare i dettagli, i particolari di tutta un’esistenza sociale. I suoi imperativi, il codice solo formalmente banale dei consumi, le abitudini esistenziali, le tappe obbligate di un modello di biografia scontato e assoluto, predeterminato (l’istruzione, la maturità, il lavoro e il successo, la famiglia, la cultura di massa, il benessere e i figli, la carriera). La politica “ridefinita” sognata (e non trovata) dal Movimento insisteva su un’unica alternativa radicale. Davanti al Sistema non era possibile rifugiarsi nella tattica delle mezze misure o nel gradualismo e nessun compromesso era possibile. L’unica cosa da fare era tracciare la linea. Decidere se collocarsi “fuori” o “dentro il sistema. Optare tra il rifiuto integrale e la capitolazione definitiva, la resa totale. Il paradosso – dopo trent’anni di silenzio o di cauti “distinguo” tattici e teorici – è che siamo tornati a percepire il mondo negli stessi termini definitivi e assoluti del passato. Comunque uno decida di schierarsi (ammesso che sia ancora il caso di schierarsi) i parametri di riferimento si stagliano di nuovo con la nettezza impressionante di un’alternativa obbligata e unilaterale. La mondializzazione, la “globalizzazione”. La prevalenza praticamente senza resistenze del mercato. Qualsiasi giudizio sul presente passa per questi temi chiave, per un’ “immagine totale” della società”. Il mondo è unificato nel segno del mercato, delle quotazioni di borsa, degli investimenti globali, di uno stile di vita liberamente ma inevitabilmente imperniato sui consumi. Supporter e nemici della globalizzazione possono scontrarsi sul terreno delle conseguenze impreviste, degli effetti (le nuove povertà e lo sfruttamento della manodopera povera del terzo mondo, l’ambiente, la violazione dei diritti umani, l’unificazione forzata degli stili di vita, dei comportamenti) ma il giudizio di fondo resta simile. Il nodo è l’unità del mondo, la globalizzazione, la natura totale del “Sistema”. Anche gli apologeti più acritici e accesi della globalizzazione non si nascondono dietro il velo delle sottigliezze tattiche e teoriche, o in discutibili disquisizioni sulle virtù del liberalismo o della “società aperta”. Il vecchio slogan dei contestatori degli anni Sessanta – il Sistema – ha finito per diventare un dato oggettivo e inevitabile. Era un’arma polemica e una metafora. Oggi è un dato di fatto evidente, conclamato. Per Thomas L. Friedman, per esempio, bisogna soltanto decidere da che parte stare, ma il contesto è evidente. La “novità è il sistema”. Il resto sono chiacchiere, pettegolezzi: se si vuole capire la
nuova realtà scaturita dalla fine
Oggi come ieri. Naturalmente con tutte le differenze del caso, dopo un’eternità di esitazioni e passaggi a vuoto. Ma oggi – come ieri – il tema del “Sistema” è tornato a definire il riferimento essenziale per la politica e la società, per la cultura diffusa, per gli stili di vita. Negli anni Sessanta – come adesso – era fondamentale quest’intreccio tra la storia con la S maiuscola e l’esistenza privata, la “liberazione” della vita quotidiana, la ricerca di modello diverso nei rapporti umani (nell’amicizia e nel sesso, nell’amore, a scuola, nei consumi e nei vestiti, in politica e in arte: ovunque). Lo stesso intreccio,
oggi, si ripresenta come insofferenza e rabbia nei confronti di un modello
di globalizzazione che si impone come una divisa ufficiale, genera l’omologazione
dei gesti e dei consumi, pretende la sconfitta delle particolarità
culturali e delle differenze. Non è un caso. La rabbia scatta contro
i simboli più evidenti e immediati, superficiali. La sensazione
che la vita sia omologata nei dettagli, nei particolari, è più
sconvolgente di qualsiasi discorso teorico-politico sulla new-economy,
sulla fine dei blocchi o sul ritrovato ruolo degli Stati Uniti come ultima
e unica potenza planetaria. Si vive, si guarda e si ama, si consuma. Ogni
momento dell’esistenza quotidiana sembra determinato da forza occulte e
neutrali che ci condizionano.
L’estremismo è passato nel mondo, si è trasferito direttamente nelle cose. I “globalizzatori” e il “popolo di Seattle” vivono la stessa situazione di radicale adesione e scontro rispetto un modello esistenziale e politico che sembra procedere autonomamente, e impone un aspetto terribilmente conforme a l’esistenza di tutti (e in tutto il mondo). I punti critici, le circostanze e i temi su cui si gioca il futuro, i fronti aperti di conflitto sono dimensioni potenzialmente diffuse, a cui non scampa nessuno, presto o tardi. Le biotecnologie, l’alimentazione, gli stili di vita, la cultura di massa e i suoi sottoprodotti immediati, il rapporto con la natura e l’ambiente, la biografia. Come negli anni Sessanta, la “critica sociale” deve manifestarsi necessariamente anche come critica radicale della vita quotidiana. Resta il dubbio su chi sia capace di formularla, questa critica, di farne un tema profondo della rivolta e della contestazione, del rifiuto. Ma oggi, come ieri, il linguaggio della protesta e la politica (quel che ne resta) si misurano nuovamente con una scelta estrema, non possono sfuggire all’imperativo preliminare della denuncia dell’omologazione e al dilemma di un’opzione obbligata, strutturale. Destra e sinistra
hanno finito per diventare slogan invecchiati, formule di comodo. “La novità
è il sistema”. E nel contesto della globalizzazione, la cosa più
importante è scegliere se stare “dentro” o “fuori” il sistema. Accettazione
o rifiuto integrale. Non sembra esserci una via di mezzo.
_______________ NOTE
AL TESTO
(2)
Douglas Coupland, Fidanzata in coma, Feltrinelli 200, p. 152.
(3) Douglas Coupland, Fidanzata in coma, cit., p. 265. (4) L’espressione di T. L Friedmann, cfr. Le radici del futuro, Mondatori 2000 (5) Cfr. Thomas Frank, One market Under God, Doubleday 1999. (6) “Noi – ha dichiarato Renzo Rosso dei Jeans Diesel – non vendiamo un prodotto ma uno stile di vita. Penso che abbiamo creato un movimento… Il concetto Diesel riguarda tutto. È un modo di vivere e di vestire, di fare le cose”. (7) Douglas Coupland, Memoria Polaroid, Tropea 1997, p. 8. (8) T .L. Friedman, Le radici del futuro, cit., p. 13.
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