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Specchi: concezioni della globalizzazione, immagini di noi stessi
L'impotenza della politica e l'enorme dubbio sul cambiamento possibile
 

di VITTORIO GIACOPINI

   1. Uno spettro si aggira sul pianeta. È lo spettro della globalizzazione. Già la parola stessa sembra chiudere gli spiragli del dubbio, restringere le perplessità creative dell’interpretazione. La seduzione del “pensiero unico” esemplifica un paesaggio mentale disastrato. Questa categoria che comprende ogni cosa e spiega tutto. Basta evocarla sbrigativamente. Nominarla. Vediamo subito solo immagini estreme e oscure figure totalizzanti.L’abbraccio mortale di un macro-processo monodimensionale. Un concetto monstre. Un miracolo oppure una minaccia. La globalizzazione è stato il tema ricorrente di tutte le prese di posizione sulla “battaglia di Seattle”; è il sottofondo implicito e scontato della critica di sinistra o delle promesse ambigue della destra. Sembra resistere solo un’alternativa binaria molto secca. Prendere o lasciare. Al pensiero politico e sociale resta – parrebbe - soltanto l’opportunità di schierarsi, di collocarsi agli estremi di uno spettro concettuale rigido e polarizzato. La globalizzazione come incubo definitivo, slogan polemico, réclame.
Forse è il caso di provare a complicare un quadro troppo unilaterale, di mischiare le carte. Abiure, apologie, esorcismi lasciano sempre il tempo che trovano. L’apoditticità di questa parola-totalitariaindica l’urgenza del problema ma non garantisce un punto di vista equilibrato, blocca il pensiero e non spiega niente. Anche alle spalle delle evidenze apparentipiù conclamate c’è sempre una “storia”, un diagramma di possibilità da verificare e sperimentare senza chiusure e pregiudizi, l’enigma di un geroglifico sociale, politico e semantico ancora da decifrare compiutamente. Non si tratta di immaginare un’improbabile “terza via “ tra chi considera la globalizzazione l’ultima incarnazione della filosofia della storia e del destino – un futuro obbligato, inevitabile – e chi si illude che sia una congiura politica da combattere politicamente. La realtà è più complessa:dimensioni esistenziali che si intrecciano, entrano in cortocircuito, si smentiscono reciprocamente. Visioni generali che rimandano a immagini dell’individualità da ripensare da capo un’altra volta. Il peso schiacciante della necessità; possibili spazi di indipendenza, immaginazione creatrice, libertà. Altre suggestioni che non è giusto sacrificare al proteiforme Moloch di una concezione totalizzante: l’ideologia dello sviluppo (e il suo esaurimento), la possibilità di un’altra politica, la soglia critica di un progresso suicida che sembra realizzabile solo a patto di sacrificare la “biosfera”, le esigenze del presente e l’importanza non dilazionabile di immaginare schemi temporali più ampi e parametri etici diversi; l’imperativo di tener conto delle “generazioni” future; la questione che si apre di nuovo del capitalismo. 

   2. Già una prima ricognizione delle forze in campo dovrebbe sfumare queste immagini imbalsamate in statue di sale. Il pensiero politico e la teoria sociale hanno sempre questa nostalgia di incasellare la realtà dentro categorie rigide e troppo ampie. La fine delle “grandi narrazioni” che caratterizza il postmoderno suscita il desiderio suicida di nuove formule ancora più estese: la globalizzazione, lo scontro delle civiltà, il pensiero unico. Ma la realtà sfugge, non si lascia incapsulare in schemi tanto impegnativi. Un primo dato, intanto, sembra inconfutabile. Se la fine della guerra fredda ha segnato il crollo dei blocchi e l’avvento di un mondo “senza muri”, l’esaurimento del vecchio assetto bipolare non ha generato un “nuovo ordine mondiale”. Clifford Geertz ha messo giustamente in luce la contraddizione decisiva di questa specie di schizofrenia strutturale. È come una fuga a canone inverso: viviamo tra due tendenze che tirano in direzione opposta. Non si può fissare lo sguardo da una parte sola. “Mondo globale, mondi locali”: una realtà quantomeno doppia, sovrapposta. Alla globalizzazione risponde la rinascita molecolare dei conflitti locali, dell’odio etnico, dei nazionalismi; la chiusura nel gergo “dell’identità”. Al di là di allarmi, denunce e paure è già un motivo per considerare le cose con maggior cautela, o forse semplicemente in modo più attento e più concreto. Il punto di vista dell’antropologo non è assillato dalla fretta totalizzante del pensiero politico e sociale. Dove quest’ultimo scorge l’abbraccio mortale della globalizzazione, il primo coglie un mosaico di differenze, un disegno complesso e quasi un’enigma: “l’evoluzione che forse più di ogni altra produrrà rilevanti conseguenze è la trasformazione del mondo in un patchwork onnipresente… Lo sgretolamento di contesti più grandi, o di ciò che sembrava un contesto, in contesti più piccoli tenuti insieme da legami disinvolti”[2]. Lo stesso universo che per alcuni è soltanto il mesto teatro delle gesta di un Pensiero Unico si rivela un patchwork, un “mondo in frammenti”.

   La cura dei particolari, quindi, l’attenzione ai dettagli e alle circostanze. “In un mondo in frammenti come il nostro – aggiunge Geertz – è proprio a questi frammenti che dobbiamo prestare attenzione”. La teoria dovrebbe rinunciare alla sua ostinata propensione “a riassumere” per praticare un tenace lavoro di scomposizione, di interpretazione di culture. Indagini ipotetiche tra mitologie sociali, forme di vita, strutture e riflessi dell’individualità: quando non esiste un unico filo per tenere insieme tutti questi percorsi che si intrecciano bisogna fare uno sforzo sistematico per “collegare i paesaggi locali… alle topografie complesse”,esentare la teoria dal sogno della totalizzazione, “cercare di capire nel più preciso dei modi come è fatto il terreno”[3]. Va da sé che simili precisazioni di ordine teorico e metodologico non rappresentano un’alternativa alla globalizzazione. Sono soltanto un modo diverso, e più adeguato, di descrivere lo stesso fenomeno, tenendone presenti tensioni, sbavature, pieghe, ambivalenze. La globalizzazione non è l’avanguardia della modernità che convive con un’archeologia di frammenti locali e col passato: è un modo di comporre i frammenti, uno schema di organizzazione del presente e un sistema aperto. 

   3. I simboli che fanno presa più velocemente, i testimonial della globalizzazione, sono simboli e icone postmoderne. Le insegne luminose di un “Macdonad’s”, i pupazzi di Disney, la Coca-cola. Non c’è motivo di disprezzare le apparenze, di rinviare a realtà e tendenze più sottili. Già i simboli più semplici alludono al gioco segreto di uno schema profondo e inarrestabile. È un dato di fatto: la critica della globalizzazione si esprime in prima istanza sul terreno sgargiante dei consumi. Il nemico è quest’immagine di un mondo semplificato, colonizzato in modo capillare da una cultura di massa e da beni e forme di consumo occidentali o, per essere piùprecisi, americani. L’invasione delle tradizioni locali, l’annullamento delle identità, il diluirsidella diversità culturali, biologiche, sociali e politiche in un unico stinto modello uniformante si colgono bene anche senza perdersi nei meandri della sociologia (o dell’antropologia) comparativa.Piùo meno ovunque si mangiano hamburger, si ascolta Rock, si beve Coca-cola. Gli indizi sembrano sufficienti per istruire un processo sommario al “mondo-Mac”, alla dittatura dei consumi, all’ovattata tirannia di merci, gadget, litanie e lustrini vari di un presente appiattito, senza rifugi, uscite di sicurezza, vie di fuga. Come ha detto con la consueta franchezza José Bové - il leader dei paysannes francesi, l’indiscussa superstar del “controvertice” di Seattle: “non mi piace un mondo in cui si mangiano ketchup e patatine a Marsiglia come a Singapore”[4].

   Ketchup, patatine, Coca-cola. Il futuro è adesso. Gli incubi di 1984 hanno lasciato spazio a paure e spaventi più discreti. Il “mondo Mac” come versione soft di “Pista Prima”; la faccia corrucciata del Grande Fratello che riposa all’ombra di un colossale hamburger planetario. Al di là della correttezza sociologica, della precisione di questo quadro forse un po’ caricaturale e enfatizzato, resta sempre da chiedersi in nome e per conto di chi ci si opponga a questa globalizzazione dei gusti, alla colonizzazione dei palati. Cosa ci sia di meglio da offrire in cambio, da rivendicare. La prosa minuziosa e pacata della realtà segnala già un primo elemento di riflessione. Qualcosa non torna. A volte la lotta tra i “globalizzatori” e i partigiani delle identità cela interessi molto specifici, rappresaglie, calcoli precisi. L’abbiamo visto a Seattle; troppi episodi continuano a ribadirlo limpidamente. Spesso la guerra sulla globalizzazione comporta soltanto una sequenza di micro-battaglie protezionistiche, la difesa di interessi particolari, la promozione di imprese, industrie, marchi tipici e prodotti locali. Lo stesso Bové, in fin dei conti, si è conquistato i gradi di “subcomandante” in capo della grande lotta alla globalizzazione radendo al suolo il Macdonald di Millau per contestare il sabotaggio americano del Roquefort, vanto e fiore all’occhiello dei formaggi francesi, simbolo rustico di una realtà contadina genuina. Ma roquefort, Cointreau o mortadella a parte,in questa guerra di simboli e consumi, in questa specie di grande tenzone planetaria tra un mondo tutto di plastica e i sapori, gli aromi e le fragranze di una realtà locale genuina, c’è anche un briciolo di malafede, una punta di ipocrisia e di autoinganno. Non si esaurisce tutto nel ”protezionismo”, nel revanscismo nazionalistico. La critica dell’omologazione globalizzante tende a far scivolare in secondo pianoun dato molto più certo e verificabile.Almeno per quanto riguarda l’Occidente e le sue propaggini, i paesi ricchi e industrializzati, l’omologazione è una realtà certa e inconfutabile, già più che consolidata sul piano interno. 

Stili di vita, consumi, modelli sociali: il conformismo è un destino già in atto almeno da una trentina d’anni a questa parte. Ogni società ha avuto (o avrebbe dovuto avere) il suo Pasolini o il suo Henrich Boll. L’immagine composita di una pluralità di forme di vita, di abitudini, di comportamenti di “classe”, la favola di un’inesauribile ricchezza di scelte e di valori si rivela un mito, un’illusione. Gli stessi ruspanti “contadini” di Bové, gli operai idealizzati dalla sinistra antagonista, i fieri padani della Lega non sono in fin dei conti antropologicamente poi così diversi dalle loro controparti di Parigi o di Roma “ladrona”. Lo stesso modello piccolo-borghese tende a coprire come un velo di Maia tutte le differenze e a ricondurre eventuali conflitti e contrapposizioni entro i confini di un gioco di società che si ripete sempre. La posta in gioco resta invariata: la conquista del centro, un’egemonia tattica, una diversa collocazione posizionale nel quadro di una società dei due terzi o dei quattro quinti. Lo spettro della globalizzazione planetaria funziona qui un po’ da alibi, da grande scusa. Diventa il pretesto troppo facile per non guardare in faccia una realtà che ci riguarda molto più da vicino e ci coinvolge tutti senza scampo. Del resto Jean-Luc Godard ce l’aveva già anticipato negli anni Sessanta: siamo tutti figli di Marx e della Coca-cola. Anche senza Macdonald, ketchup, patatine fritte siamo già “omologati” a sufficienza; nessuno ha le carte in regola per criticare l’incubo di una colonizzazione secondaria; nessuno può far appello ad una verginità ideale, immaginaria. Scaricare sulla globalizzazione gli effetti di processi già in atto e una situazionecomune - edevastante -è una manovra dilatoria e una strategia di breve respiro, disonesta.In un certo senso dovremmo addirittura provare a leggere il fenomeno della globalizzazione alla rovescia, come l’effetto (uno degli effetti) e non la causa di questo sottile processo di omologazione interna, di segreta santificazione di un modello piccolo-borghese che ha investito in modo irreversibile le stesse realtà locali, le nazioni, le regioni, la vita delle nostre città e delle campagne. 

   4. E’ l’ansia che diventa globale, una sotterranea corrente di apprensione, l’inquietudine. Quello che non riusciamo a dire. La paura. Le macerie del Macdonald in costruzione di Billau, le vetrine infrante di Seattle, l’eco mondiale di quella “battaglia” esprimono in forma subliminale e mascherata l’intuizione di un incubo che neanche i più agguerriti avversari della “globalizzazione” riescono ad ammettere o persino a vedere. La morte della natura, la consapevolezza ancora confusa e indistinta di aver raggiunto un punto di non ritorno definitivo, la fine del mondo. L’emotività con cui sono stati seguiti i fatti di Seattle non ha a che fare (soltanto) col sensazionalismo dei media, o con la fretta di universalizzare che ha trasformato subito i contestatori in avamposti della “società civile mondiale”, in avanguardie della rivoluzione. Nonostante la retorica della protesta o della reazione, al di là dello specialismo indecifrabile che sembra ammantare certi temi “tecnici” – il contenzioso sui cibi transgenici, la definizione dei parametri dell’inquinamento dei suoli o delle acque, le valutazioni di impatto ambientale – Seattle ha colto, anche senza vederlo, il nodo più autentico e spaventoso del nostro presente: la virtuale impossibilità di un futuro vitale tollerabile, il potenziale di autodistruzione celato in un modello di sviluppo e in un’dea di progresso catastrofiche. I codici linguistici del potere e della sovversione, gli algoritmi dell’economia, le prese di posizione delle scienze sociali, della filosofia, della teoria politica (e dell’ecologia) magari non hanno le parole giuste per dirlo, probabilmente non sanno neppure indovinarlo. Forse avremmo bisogno del linguaggio della fantascienza, dell’immaginazione ultima di Philp Dick, di Ballard o di Vonnegut (“Tutto sta diventando fantascienza”, dice Ballard[5]). Mentre il lamento contro gli effetti omologanti della globalizzazione degli stili di vita e dei consumi sembra segnare una fase di stallo e un passaggio a vuoto, affiora l’intuizione di un rischio davvero globale che non lascia scampo. Inquinamento, effetto serra, mari e coste violentati da ondate di petrolio, la contaminazione radioattiva, la prospettiva concreta di un esaurimento delle risorse idriche e di una guerra mondiale per l’acqua, il pianeta che lentamente si trasforma in una discarica di veleni e di rifiuti tossici, la sovrappopolazione, questa prospettiva à la dottor Moreau di alimenti, semi, piante, pecore e pecorelle costruiti in laboratorio per sfamare tuttilasciano indovinare l’eventualità di un’autentica catastrofe ecologica, di un’apocalisse laica, senza millenarismi, redenzioni, improbabili riti di espiazione. Alle soglie del XXI secolo un rapporto già molto precario tra “società” e “natura” sembra aver raggiunto la soglia critica di una resa dei conti definitiva. Abbiamo corteggiato il disastro troppo a lungo, rinviato il problema e chiuso gli occhi. Lo sentiamo, anche senza riuscire a dirlo nel modo giusto: la minaccia globale investe direttamente la biosfera, la terra sotto i nostri piedi, l’aria che respiriamo, questo mondo in cui viviamo adesso. Is the end of the world as we know it, come cantavano i Rem, come ha sempre intuito la fantascienza più acuta e intelligente. Il pianeta sommerso, Galapagos

   “Natura” e “società”, “uomini” e “cose”. Anche davanti a un abisso che sta per spalancarsi conviene mantenere un residuo di lucidità, diffidare delle generalizzazioni mistificanti. Quando Enzensberger, ormai trent’anni fa, criticava approssimazioni e vaghezze dell’ “ecologia politica” anticipava anche una tendenza reale, la schizofrenia di uno stile fuorviante. Troppi discorsi dell’ecologia oscillavano (e oscillano) tra tensioni opposte e un po’ inservibili, “la predica finale che vuole dare buoni consigli, l’analisi che ci vuole terrorizzare”[6]. Oggi, mentre lo scenario dell’apocalisse ambientale sembra meno improbabile e ideologico di allora , è il caso di tornare a storicizzare, di chiamare di nuovo le cose con il loro nome. La “natura”, gli “uomini”, la nostra azione dentro l’ambiente o contro l’ambiente: termini che rischiano di suonare troppo astratti, generici, inutilmente solenni e filosofici. Dopo le macro-fusioni nel settore avanzato delle comunicazioni, la progressiva concentrazione della ricchezza finanziaria, la ritrovata centralità delle industrie chimiche internazionali e mentre la battaglia sugli Ogm (organismi geneticamente modificati) continua a dividere per motivi non sempre propriamente limpidi e trasparenti i grandi produttori (Usa, Australia, Canada) e l’Europa,lo scenario che si può confusamente intuire dopo Seattle tende a riportare al centro della scena una parola che l’uso e l’ideologia hanno logorato ma la storia ci restituisce di nuovo, non proprio intatta ma carica di insidie, ambiguità e rischi radicali: il capitalismo. La “società”, gli “uomini”, le “cose”: non è davvero il caso di piangersi addosso, di attribuire responsabilità ontologicheo colpe metafisiche al genere umano o di unificare in una stessa condanna ipocrita e autolesionista oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri. La “società” è colpevole della possibile catastrofe ambientale solo in quanto il capitalismo, il consumismo e l’industrialismo sono riusciti effettivamente a trasformarsi da un “modo di produzione” a un modello di società e solo perché le “relazioni di mercato” come ha osservato Murray Bookchin, hanno colonizzato quasi interamente “le sfere di vita e i movimenti sociali che una volta offrivano un qualche grado di resistenza, se non un rifugio, da forme di interazione umana, esplicitamente immorali, accumulative e competitive”[7].

   Non è l’uomo in quanto tale il “cattivo” della storia, l’assassino. Nonostante il nostro antropocentrismo radicale, i nostri più radicati sogni di “controllo”, il dominio sulla natura non è la conseguenza inevitabile di una tendenza faustiana dell’uomo in quanto tale. Mentre corriamo incontro al disastro e contempliamo una catastrofe imminente, faremmo comunque bene a ricordarci sempre che questa vicenda affonda le sue radici in una storia più complicata e paradossale e che “la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali”. Su questo, il punto di vista dell’ecologia sociale propugnata in termini anarchici da autori come Kropoktin, Bookchin o Colin Ward ci dice infinitamente di più non solo di tutti i discorsi sulla “globalizzazione”, ma anche della tradizione classica della sinistra, del socialismo, di qualsiasi visione progressista. Il nodo è sempre questa realtà assurda del potere, la negazione definitiva dell’uguaglianza tra gli uomini, l’avvilimento delle differenze, della nostra capacità di essere davvero liberi, uguali, indipendenti. La stessa idea del “dominio” sulla natura deriva – ha aggiunto Bookchin - dal “dominio di esseri umani su altri esseri umani”. La forza esercitata sugli altri, sulle cose, sulle risorse fisiche, sugli animali, sulla natura: “tutte queste forme di dominio hanno un’origine comune: sono sistemi di comando-obbedienza basati su istituzioni gerarchiche”: sul potere, quindi, su questa nostra sorprendente incapacità di “sviluppare una nuova sensibilità antiautoriataria”, di trasformare la “società in senso libertario”[8].

   È l’ansia che è diventata globale, la paura. L’intuizione profonda di Seattle (subito strumentalizzata, resa inutile e caricaturale) riguarda l’essenza suicida del nostro schema di vita, la sua tendenza autolesionista. La percezione di aver toccato un punto di non ritorno irreversibile. Se oggi è il caso di tornare a parlare di nuovo di capitalismo dobbiamo anche renderci conto di non avere le spalle coperte dall’ideologia, di non disporre di un’alternativa sistematica (le alternative le ha screditate la storia, si sono rivelate impossibili da sole). Non è un motivo per far finta di niente, per evocare fantasmi indistinti e bersagli generici (la globalizzazione) o accanirsi contro simulacri di comodo (i Macdonald, gli Usa, le patatine, Hollywood). In qualche modo, due grandi vicende della modernità stanno esaurendosi in un risultato irrimediabile. La tendenza espansiva del capitalismo e le contromisure sociali del welfare, i diritti sociali, la lotta di classe, le rivendicazioni del movimento operaio, le lotte dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi del primo e del terzo mondo. Quella partita rischia di essere ormai una battaglia di retroguardia. Anche se può essere “compensato” in termini sociali, il capitalismo presenta comunque un limite esterno irrimediabile: questa tendenza a realizzarsi minacciando la sussistenza stessa della biosfera, segando quel ramo su cui siamo tutti appollaiati, chi in modo ancora abbastanza comodo e protetto chi già quasi ai margini, sempre sul punto di essere spinto fuori, di cadere di sotto e di annullarsi. Alla lunga, la crisi rischia di risucchiare tutto. “Una cosa – puntualizza Bookchin – deve essere chiara: il capitalismo è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. È letteralmente il cancro della vita sociale”[9]. Mentre i linguaggi, i progetti, i programmi rivoluzionari tradizionali della sinistra non sono più spendibili e vitali, il capitalismo rischia davvero di costituire la fine della storia. Però non nel senso reazionario di un felice compimento di tensioni e conflitti sorpassati, ma in termini definitivi. Come un cancro, appunto, una forma di male radicale. La domanda inquietante di James G. Ballard – “Il futuro ha ancora un futuro?”[10] – potrebbe avere una risposta molto negativa. Per dirla con Bookchin, abbiamo già fatto il passo più lungo della gamba:“per la società e il mondo naturale… il capitalismo costituisce un punto di negatività assoluta[11].

   5. Buoni e cattivi, parliamo tutti la lingua morta dell’economia, recitiamo il credo della “crescita”. Siamo imprigionati nel mito dello sviluppo, veneriamo un idolo vuoto. 

Per due secoli, il confronto tra destra e sinistra si è svolto in un’arena comune, all’interno di un’idea condivisa del progresso, del cambiamento sociale, della storia. Marx stesso ha sempre considerato l’allargamento delle “forze produttive”, il “controllo sulla natura”,l’espansione del capitalismo, una premessa fondamentale del passaggio finale al comunismo. La sua visione rivoluzionaria non ha mai potuto prescindere da un’idea lineare della storia, da una “teoria dell’embrione” (come la chiama Bookchin): dalla convinzione radicata che “il proletariato fosse l’equivalente moderno della borghesia”, dall’intuizione senza incertezze “che la nuova società debba nascere dal seno stesso della vecchia”.[12] Anche il socialismo e il movimento operaio hanno sempre dato più o meno per scontato, come ha scritto Wolfgang Sachs, che “la giustizia” si può affermare “attraverso lo sviluppo”, indirizzando in forma più egualitaria e democratica la crescita economica, il tenore di vita, lo sfruttamento delle risorse, il livello stesso dei consumi[13]. Correre in avanti, avere tutti di più, sconfiggere differenze e povertà alimentando la crescita, moltiplicando il benessere, producendo di più, consumando di più. 

   Oggi questa fiducia si rivela falsa. Le promesse dello sviluppo globale hanno assunto l’aspetto agrodolce di un’illusione oppure di un inganno, le sembianze ironiche di un mito. Lo sviluppo come tic mentale e ideologia, il simulacro della prosperità. Trent’anni fa, la crisi petrolifera, il primo shoc economico mondiale dopo Yalta, aveva già lasciato intuire l’ombra di un’impasse, la minaccia di un rischio “esterno” ai grandi processi dell’economia mondiale, un limite materiale invalicabile. Secondo “l’affermazione centrale dell’ecologia umana – aveva scritto Enzensberger nel ’73 – le società industrializzate della terra producono contraddizioni ecologiche che in un tempo prevedibile devono necessariamente portare al loro crollo”[14]. A parte una nota falsa di rilievo (il termine “prevedibile”, ovviamente) questa intuizione resta molto probabile. Il capitalismo ha vinto in questi anni tutte le sue battaglie meno una. Si è sciolto il gelo imbecille della guerra fredda, sono crollati i muri, il comunismo si è dissolto, il pianeta è stato unificato nel segno equivoco di un nuovo ordine (o disordine) mondiale. La sua dinamica espansiva non può però eludere l’ostacolo di un insieme di limitimateriali e di rischi ecologici che nessuna forma di ingegneria sociale o di immaginazione sociologica sembrano effettivamente in grado di aggirare. L’unica forma di società, l’unico modo di vita, che sono restati sulla scena non hanno presa sulla dimensione stessa del futuro, e in qualche modo (nonostante allarmismi retorici, imprecisioni, inutili vaghezze) la premessa latente dell’ecologia rinvia proprio a questa sfasatura chiave delle dimensioni temporali, a questo vuoto quasi inconcepibile. Un mondo e una società senza futuro. Per la prima volta nella storia umana la parola “domani” rischia di diventare una scommessa. Nonostante il sarcasmo e l’ironia che riservava alla “cecità e all’ingenuità” del “pensiero politico e sociale degli ecologi”, anche Enzensberger doveva riconoscere un merito oggettivo a quel punto di vista, un punto di vantaggio “sul pensiero utopico delle sinistre occidentali”: “quello di riconoscere che ogni futuro prevedibile non appartiene al regno della libertà ma a quello della necessità, e che ogni teoria e prassi politica futura, anche quella dei socialisti, non dovrà affrontare il problema della sovrabbondanza ma quello della sopravvivenza”[15]. Adesso la stessa intuizione confusa ritorna come una previsione azzeccata e una nuova incognita che tra rischi, incertezze e ambiguità sembra superabile solo a prezzo di una scelta suicida e autolesionista: “lungi dall’essere un evento transitorio – ha scritto Sachs -l’emergere di limiti biofisici alla crescita economica ridefinisce le condizioni per la creazione della ricchezza nel secolo a venire… la ricchezza economica convenzionale … puòessere democratizzata solo a costo della distruzione della biosfera … i nostri livelli di sviluppo sono intrinsecamente oligarchici in quanto non possono essere estesi a tutto il mondo senza mettere a repentaglio la sopravvivenza di ognuno”[16].

   La fine simultanea del progresso e dello sviluppo, della giustizia e del socialismo. L’incoscienza suicida del capitalismo; l’afasia dell’ecologia. Non ci sono bacchette magiche, soluzioni. La storia come una strada sbarrata, un vicolo cieco. Per ritrovare il futuro che abbiamo perduto le buone intenzioni non bastano più. Da quasi vent’anni i governi mondiali, gli ecologisti, i verdi, parti della sinistra, i capitalisti più furbi o consapevoli recitano come un esorcismo una formula che non dice niente. Dal 1987 (quando la Commissione Mondiale di Ambiente e Sviluppo di Gro Harlem Brubdtland ha coniato il termine) si evoca ritualmente lo “sviluppo sostenibile”, quest’ultimo ersatz di una crescita valida per tutti, di un benessere impossibile per i popoli della terra,per le generazioni future e per l’ambiente. Ma il tempo continua a passare e questo modello resta evanescente.Si creano commissioni, si stanziano fondi, si continuano a mettere in piedi riviste specializzate, istituti di ricerca, fondazioni. Quando non è ipocrisia è tempo perso. Per troppi versi, questa formula ambigua e suggestiva si è imbalsamata in un mito di ripiego, in un’ideologia consolatoria. Al di fuori di esili, trascurabili, manovre di dettaglio, di piccoli accorgimenti di facciata, un’effettiva inversione di tendenza non appare neppure immaginabile. Quell’aggettivo così ricercato (“sostenibile”) è un palliativo patetico e un inganno. Resta l’equivoco radicale del termine di riferimento: lo sviluppo.Ha ragione Wolfgang Sachs. Dai tempi della Commissione Brundtdland non ci si è mai posti la domanda più ovvia: “sviluppo di cosa e per chi?”[17]. Per un riflesso condizionato, l’intera questione continua a porsi in termini di giustizia distributiva.L’idea è sempre quella di suddividere in modo più equo, democratico e accettabile le fette di una torta immaginaria: risorse, opportunità, chance di vita, livelli di consumo. Ma la trappola politica e mentale di questo atteggiamento inconsapevole diventa sempre più ovvia e trasparente. Il sottinteso utilitaristico di questa concezione troppo vaga (il massimo benessere per il massimo numero di persone) nonpuò prescindere da una visione espansiva, lineare: consumare di più, avere di più, ovunque – questa volta -, senza esclusioni, condanne, nuovi paria. Ma quello che Sachs definisce il carattere “oligarchico” dei nostri livelli di sviluppo lascia intuire un’unica possibile soluzione che ha il carattere radicale di una rottura drasticadi un modo di essere e di pensare, il tratto definitivo di un’istanzaradicale quasi rivoluzionaria e definitiva. Il tema chiave non è il sottosviluppo, il ritardo nella spirale dei livelli di vita e di consumo. L’unica possibilità è ribaltare i piani del ragionamento, invertire priorità indiscusse che in qualche modo coincidono con l’essenza stessa della nostra civiltà, del mondo moderno, della nostra cultura. Non è possibile aumentare niente. Ritrovare il futuro, e un margine di speranza, significa affrontare il problema alla rovescia, partendo semmai dall’ipersviluppo, immaginando una ritirata, un passo indietro e una grande rinuncia. L’asettica laconicità delle statistiche, le intenzioni di cambiamento politico e la morale per una volta vanno di pari passo: “come hanno evidenziato recenti ricerche, i paesi industrializzati se aspirano a diventare buoni coabitanti del mondo, dovranno abbattere il loro livello di consumo di risorse di dieci volte entro i prossimi cinquanta anni… In futuro la giustizia dovrà pensare a come prendere di meno piuttosto che a come dare di più[18]. Chiedere ai ricchi di consumare meno e avere di meno, pretendere un passo indietro dai potenti: lo capirebbe anche un bambino che significa volere la luna, domandare una cosa assurda, per quanto perfettamente possibile, molto ragionevole. Potere e buon senso sono termini opposti. Mentre liquida l’utopia all’acqua di rosa dello sviluppo “sostenibile”, la ricetta (giustissima) di Sachs è un programma sovversivo e una sfida pazza alle leggi inespresse che regolano un modello di società e un’intera cultura. 

  Abbiamo di fatto raggiunto la soglia critica di un passaggio di fase. È necessario rinunciare alle illusioni di un programma minimale di aggiustamento, riequilibrio dinamico, correzione tattica di un sistema che si rivela irriformabile. In questo senso è obbligatorio tornare a parlare di “capitalismo”. Credo purtroppo che la diagnosi negativa di un autore come Bookchin sia sostanzialmente giusta: “Parlare di ‘limiti alla crescita’ in seno ad un’economia di mercato capitalistica non ha alcun senso, così come non ne ha parlare di limiti alla guerra in una società guerriera…Il capitalismo non può essere ‘persuaso’ a porre un freno al suo sviluppo… I tentativi di realizzare un capitalismo verde o ecologico sono condannati all’insuccesso dalla natura stessa del sistema, che è un sistema di crescita continua… Per la società e il mondo naturale, in effetti, il capitalismo costituisce un punto di negatività assoluta”. Persuasione, riforme, aggiustamenti sono da questo punto di vista soltanto chiacchiere vuote, favole per bambini. “L’unica alternativa possibile è distruggerlo, perché esso incarna tutte le malattie della società, patriarcato, sfruttamento, statalizzazione, egoismo, militarismo e sviluppo fine a se stesso”[19].

   La soluzione drastica di Bookchin riporta al centro della scena la necessità di una nuova politica radicale. Ma in un mondo in cui la politica sembra impotente e fallisce sempre, anche questa ricetta appare incerta. Il cambiamento resta un’incognita assoluta. 


[2] Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali, Il Mulino 1999, p. 16. 
[3] Ibid., pp. 26, 20. 
[4] José Bové, Io Asterix dei contadini contro il cibo artificiale, in “La repubblica” 4-12-1999, p. 5.
[5] Janes G, Ballard, Narrazioni di ogni tipo, in, Fine millennio. Istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi 1999, p. 287. 
[6] Hans Magnus Enzensberger, Per la critica dell’ideologia politica, in, Palaver, Einaudi 1974, p. 193. 
[7] Murray Bookchin, Radical Politics in an Era of Advanced Capitalism, in “Green Perspectives”, n 18, novembre 1989. 
[8] Cfr. Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera 1989, pp. 9-11-70. 
[9] Ibid. pp. 138-89
[10] James Ballard, Ritorno all’eccitante futuro, in Fine millennio istruzioni per l’uso, cit., p. 269.
[11] Murray Bookchin, Per una società ecologica, cit. p. 100.
[12] Ibid., p. 143
[13] Wofgang Sachs, Ecologia, giustizia e fine dello sviluppo, in “Lo straniero. Arte, cultura, società”, n. 4, p. 145
[14] Enzensberger, Per la critica.., cit. p. 151
[15] p. 186
[16] Wofgang Sachs, Ecologia, giustizia e fine dello sviluppo, pp. 149-151. 
[17] Ibid., p. 145.
[18] P. 152
[19] Murray Bookhin, Per una società ecologica, cit. pp. 99-100. 



o Vittorio Giacopini (Roma, 1961) è redattore della rivista Lo Straniero e collaboratore di Radio Rai.

Ida Magli
e Seattle

Un articolo
di Roberto Meregalli
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Il Mondo Capovolto

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