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Parole da un altro mondo
 

di VITTORIO PERGOLA

   Si davano spintoni sugli autobus affollati e salivano e scendevano, suonavano con ansia il campanellino che prenota le fermate. 
Con i loro ombrelli, con le loro giacche, qualcuno con i pacchi di una spesa frettolosa, fatta nelle ore di pausa da un lavoro il più delle volte noioso. 
   Si davano da fare come tante formiche, in metropoli-formicai sempre più invivibili. E li osservavo e ci riflettevo e mi chiedevo. Mi chiedevo troppe cose. Avevano, nonostante tutto il calvario di un quotidiano esistere impensabile soltanto qualche tempo fa, avevano, alla sera, ancora voglia di parlare. 
   Si illudevano di poter ancora comunicare, e spulciavano le loro menti alla ricerca di un pensiero che fosse puro, finivano per conversare sui soliti temi, spettacoli di varia natura. Trovavano lo spazio per la commozione, confinata tra i funerali e i film di grandi sentimenti. 
   Specializzavano i campi del proprio agire anche nella piccola sfera di quel che si definiva umanità, c’era un tempo per tutto e tutto poteva, in certi casi, esser fuori luogo, anche la morte. 
   Il mondo procedeva alla produzione di conoscenze che procedevano alla produzione di conoscenze che procedevano alla produzione di conoscenze che procedevano a loro volta alla produzione di conoscenze... e via così.

   In un paese del sud America, continente emblematico per la sua condizione di sviluppo pilotato, diventato un purè di tradizioni e modernità difficili da connotare. In un paese di questo continente la criminalità organizzata, con l’aiuto della scienza, aveva messo a punto una sostanza in grado di indurre un ipnosi temporanea e costringere un essere umano ad un totale asservimento psicologico e fisico, cosicché persone all’apparenza per bene si ritrovavano implicate in omicidi ed altri atti di varia crudeltà. Il punto era che questo tipo di sostanza non lasciava traccia nel sangue e nella mente della vittima, che mai avrebbe ricordato l’accaduto se non per gli effetti comunque devastanti che la sostanza lasciava su una psiche “normale”, perdita dell’uso della parola, crisi di memoria, incubi notturni ed altro. In questo modo i narcotrafficanti avevano cominciato a servirsi, per le loro beghe, non più di persone dalla dubbia moralità, ma di individui la cui moralità veniva sospesa per il tempo necessario. E la legge perdeva ogni senso. Questi paesi, in qualche modo rappresentavano dei laboratori, lì si potevano osservare gli effetti di uno sviluppo schizofrenico, non lineare. Anche lì come nell’occidente ben nutrito, l’ipnosi, la sudditanza psicofisica, la degenerazione logica e morale, elementi diffusi, anche lì. Con la sottile differenza di un potere un po’ meno impersonale, della possibilità di dare un nome, una sigla o cosa a chi agiva e lavorava per la sospensione dell’integrità spirituale degli esseri umani.

   Dove vivevo io, l’ombra, il velo di una complessità ormai compiuta, giunta ad un punto di non ritorno, faceva sì che tutto ciò che di alienante si era prodotto non avesse un agente, un colpevole, se non l’astratta categoria della complessità appunto.
   E io osservavo, osservavo, mi gettavo l’acqua fredda in faccia.    
   Più acqua fredda mi portavo al viso e più perdevo il contatto, paradossalmente, più mi avvicinavo al risveglio, alla percezione dell’infinita ricchezza che si stava sacrificando ad un Dio tra i peggiori prodotti dal genio della nostra razza animale, e più rischiavo la camicia di forza. 
  Non c’era un cane con cui parlare, anzi il ragionare stesso in effetti portava con sé una particolare forma di isolamento, si recitava in pubblico la modernità, parlando solo di ciò che poteva esser compreso e si moriva in privato nella rete di legami e congetture che questa condizione di doppiezza scatenava. 
   Al mattino avevo la nausea, il primo respiro da persona sveglia era strozzato da una forte pressione alla bocca dello stomaco, è molto difficile tenere il piede in due staffe, molto. Così per due lunghi inverni, trascinarsi a fare cose di cui non si capiva più il senso con l’aria di chi sta’ sempre per svenire. 
   La consapevolezza che narcotizzarsi era forse l’unica terapia per un integrazione parziale nel loro mondo, il mondo socialmente condiviso. Quello che aveva corso alla risposta di troppe domande per evitare di porsi le più fondamentali. 
Mi chiedevo troppe cose. 

   La mia ricerca del senso mi portò alla lettura di filosofi illuminanti e alla successiva scoperta raggelante, che per essere illuminanti come filosofi nel tempo che vivevo si pagava comunque un prezzo molto alto. 
   Avevo scoperto la ricchezza del simbolo, delle infinite possibilità che il linguaggio creativo del nostro inconscio, l’unico in grado di avvicinare una condizione di felicità, riservava. Avevo tentato il recupero di questa dimensione simbolica del pensare per poi scoprire che l’autore di questi saggi efficaci e stimolanti, crollava progressivamente sotto il peso del suo pensare, si portava addosso tutta la difficoltà di concepire cose che non avevano più uno spazio che le comprendesse. La malattia del secolo era l’ansia, per coloro che volevano ancora sfidare le spade affilate della tecnica, era solo la follia. 
   Così un giorno, portati all’estremo i miei ragionamenti circolari che sembravano percorrere sentieri inutili ad ogni conclusione esauriente, cominciai a tremare.
  Più tremavo e più riuscivo ad esprimere soltanto lo stesso concetto. A parole, però, perché nella mia testa sapevo benissimo come andava a finire, anzi era così veloce la mia analisi dei passaggi che partivano dal quel concetto che li continuavo mentalmente, tutta la giornata, ma esprimevo all’esterno solo quel maledetto punto di partenza. Era un po’ come nel racconto di Borges, un miracolo segreto, solo che loro lo chiamavano disturbo ossessivo.
   Cominciai a non curarmi più dell’aspetto, della pulizia, trascurai per molto anche l’alimentazione, fui portato via più volte da più posti. 

   Una mattina di non so quale stagione, feci una doccia alla stazione dei treni, cercai di tremare il meno possibile, indossai dei vecchi vestiti ereditati da un altro uomo di strada, scroccai un bicchiere di vino bianco in un bar, lo buttai giù tutto d’un fiato e, raccolto un fiore nell’aiuola circostante, sorrisi e me ne andai.
Tutto questo adesso non dovrebbe avere senso per uno come me, che scrive questa sua confessione denuncia dalla dimensione del nulla, dal posto che non c’è, la speranza è che qualcuno possa comprendere i segnali di un miracolo anche e soprattutto quando questo fosse segreto.

   Per il resto dedico questo addio dal nulla, anche e soprattutto a chi come me non ce l’ha fatta. Addio.
 


o Vittorio Pergola, è nato a Roma nel 1971, è laureato in sociologia della conoscenza, e ha già pubblicato racconti nella rivista "Storie" e nel volume collettivo Racconti onnivori, Michele Pascale editore.

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(16 gennaio  2001)

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