di GIANLUCA
CHIAGIA
Prologo
“E’
finita”, pensai, “stavolta è finita davvero”.
L’acqua insolitamente tempestosa
dell’Adriatico stava mettendo a dura prova la mia capacità di resistenza
e ogni onda sembrava destinata a sommergermi per sempre.
Non avevo la possibilità
di vedere cosa stesse succedendo ai miei compagni di avventura. Lo sforzo
di sopravvivere mi impegnava in modo totale e lentamente cedeva il posto
alla rassegnazione.
“Non è giusto, proprio
ora...”
1)
Non avevo mai conosciuto
la pace, né una vera serenità.
Certo, ne avevo sentito
parlare e quel mondo costruito ascoltando i racconti che arrivavano di
voce in voce fino a noi riempiva i miei sogni notturni e le ossessioni
delle mie giornate.
Ero nato tredici anni prima
in un villaggio curdo al confine con l’Iraq ma ancora in territorio turco.
Nato e cresciuto con l’ossessione di nascondere la mia identità
in un Paese in cui anche la sola parola “curdo” era bandita e noi venivamo
definiti i “turchi di montagna” o i “turchi dell’est”.
I soli ricordi dei miei
primi anni di vita sono i lampi e il frastuono delle esplosioni, le fughe
disperate verso i rifugi di fortuna quando i nostri “fratelli dell’ovest”
venivano a bombardare o a assalire i nostri villaggi.
Ricordo soprattutto l’angoscia
della voce di mia madre, a malapena celata sotto il tentativo di rassicurare
me e le mie sorelle e quando ripenso al tremore delle sue labbra mi sembra
di rivivere quei momenti.
Quando i miei genitori furono
uccisi non avevo ancora compiuto sei anni.
Era un periodo relativamente
tranquillo. Da alcuni giorni non c’erano attacchi e rastrellamenti e il
villaggio stava calandosi in uno di quei momenti sospesi tra la speranza
che tutto potesse finire ed la consapevolezza che ci sarebbe stata presto
l’ennesima disillusione.
Ma questa volta sembrava
davvero che ci fosse qualcosa di nuovo. Sentivo gli adulti raccontarsi
a bassa voce che non c’era mai stata una tregua così lunga e che
correva voce che ci fosse una trattativa in corso nella capitale.
In realtà non sapevo
cosa fossero una tregua e una trattativa, ma il mio cuore traduceva il
tono di speranza che affiorava dagli sguardi di mio padre e dei suoi compagni.
Poi tutto cambiò
all’improvviso.
Ci dissero che nella capitale
c’era stato un attentato in un mercato, che molte persone erano morte.
Molte donne e molti bambini.
Ci dissero che gli indipendentisti
curdi avevano rivendicato l’attentato, minacciando un lungo periodo di
terrorismo fino a quando non fosse stata riconosciuta l’autonomia alla
nazione curda.
Mio padre ascoltò
immobile, vedeva passare nei suoi occhi le immagini ripetute centinaia
di volte delle durissime ritorsioni dell’esercito che seguivano gli attentati.
Poco importava che il nostro
villaggio fosse pacifico e che avesse sempre rifiutato il terrorismo, arrivando
ad essere emarginato dalle grandi comunità curde perché rifiutava
l’ospitalità ai responsabili degli attentati.
Poco importava che mio padre
ci avesse sempre insegnato a non rispondere alla violenza con altra violenza.
Che la nostra indipendenza non avrebbe mai potuto avere come prezzo la
morte di persone innocenti.
Poco importava. Eravamo
curdi e il fatto che nel nostro villaggio non ci fossero armi facilitava
le ritorsioni dell’esercito turco: eravamo più vulnerabili e quindi
potevano colpirci senza temere grosse resistenze.
La tempesta si fece attendere
meno di due giorni.
Quella sera avevamo festeggiato
il compleanno della sorellina piccola. Con le nostre poche cose eravamo
riusciti a ricreare un’atmosfera festosa e per qualche ora avevamo messo
da parte le nostre paure.
Andammo a dormire scherzando
tra noi , ignari della disgrazia che ci stava per travolgere.
Fummo svegliati dalle urla
strazianti delle donne e impiegammo alcuni minuti a capire che quello che
sentivamo non faceva parte dei nostri incubi. Che la nostra maledetta realtà
stava tornando a strapparci alla nostra voglia di una vita normale.
I soldati erano entrati
nel villaggio da più parti, silenziosamente, e si erano appostati
attorno alle case. Quando l’ufficiale aveva dato il via avevano iniziato
il rastrellamento più duro che il mio villaggio avesse mai vissuto.
Sfondarono le porte e irruppero
nelle case, travolgendo cose e persone, gridando, minacciando, colpendo
con violenza cieca chi si trovava sulla loro strada.
Di quella notte ho impresso
nella mia memoria la luce fortissima che invase la camera in cui dormivo
con le mie sorelle.
E gli occhi del soldato,
spaventati, gli occhi di chi si chiede più di quanto dovrebbe, di
chi si ritrova all’improvviso terrorizzato da sé e da quello che
sta facendo.
Incrociò il mio sguardo
e per un istante solo ci siamo specchiati l’uno nell’altro: un bambino
e un ragazzo travolti da qualcosa di eccessivo, che li costringeva a giocare
un ruolo per entrambe insopportabile. Poi gli sguardi si staccarono e il
soldato riprese ad urlare e a perlustrare la casa.
Ci fecero uscire tutti dalle
case e separarono gli uomini dalle loro famiglie. Li fecero mettere in
ginocchio al centro della piazza e un ufficiale scorse la fila fissandoli
in silenzio. Si staccò dal gruppo e con un cenno fece iniziare l’interrogatorio.
Domande secche, inutili,
pretesti per sfogare una rabbia vendicativa. Gli uomini inginocchiati continuavano
a ripetere angosciati di non sapere nulla ma le loro implorazioni sembravano
invece acuire la furia dei soldati.
Mio padre fu il primo a
morire.
Ero abbracciato a mia madre,
ai margini della scena, e cercavamo di sostenere la tensione ripetendoci
parole di coraggio, entrambi paralizzati dalla tensione che si sviluppava,
quando vedemmo un soldato avvicinarsi a un vecchio contadino e tirarlo
per un braccio.
“Ora basta”, gridò
quello che dava gli ordini, “Diteci dove sono i terroristi o ammazziamo
questo vecchio.”
Un gemito strozzato di mia
madre mi fece voltare di scatto e notai che mio padre stava alzandosi e
si avvicinava verso l’uomo che teneva il vecchio.
“Non ci sono terroristi
tra noi. Lo sapete bene. Vi prego di lasciarci in pace”, disse tenendo
le braccia alzate.
Il soldato che guidava
le operazioni sembrò smarrirsi e cercò gli occhi dell’ufficiale,
che si era mantenuto discosto e seguiva in modo quasi annoiato l’interrogatorio.
Questi non parlò
ma si limitò ad un cenno con la testa, un’esortazione a proseguire
in un piano che ormai ci appariva chiaramente scritto e non modificabile.
Non potevano più fermarsi, dovevano compiere la loro vendetta.
Il soldato aveva un’espressione
contratta mentre lasciava il vecchio e estraeva la pistola sparando contro
mio padre.
L’immagine della sua caduta
a terra, del sangue che arrossava la terra della piazza sono le ultime
chiare di quella notte.
Tutto quello che viene dopo
affoga nella mia memoria in modo indefinito.
Ricordo che i soldati iniziarono
a sparare tutti insieme, che gli uomini morirono subito.
Ricordo la stretta della
mano di mia madre quando venne colpita e come prima di cadere riuscì
a passarmi la sorellina che stava tenendo in braccio.
Ricordo le case che bruciavano,
la gente che urlava e piangeva, i soldati che se ne andavano e la faccia
dura dell’ufficiale che per ultimo si voltò analizzando freddamente
il risultato dell’operazione.
Mi rivedo in piedi, con
le mie sorelle vicino. Paralizzato, incapace di parlare, di piangere, di
urlare, bloccato per un tempo lunghissimo mentre intorno il mondo impazzito
mi ruotava a velocità folle e io temevo che muovendomi avrei trasformato
quell’incubo in realtà.
Fui scossi solo – non so
quanto tempo dopo – dal richiamo di una donna che abitava poche case lontano
dalla nostra. Ci aveva riconosciuto e ci chiamò per nome e mentre
si avvicinava vidi il suo sguardo scivolare sul corpo di mia madre che
giaceva immobile a terra.
Prese in braccio mia sorellina
e ci invitò a seguirla, accompagnandoci in una delle case che si
erano miracolosamente salvate dall’incendio.
Alcuni uomini cominciavano
ad arrivare dal villaggio vicino e aiutavano a soccorrere i feriti e a
spegnere gli incendi ancora accesi.
Uno di questi mi riconobbe,
mi chiese dei miei genitori. Saputo dell’accaduto mi abbracciò e
pianse, dicendomi di chiamarsi Massud e di essere stato un grande amico
di mio padre.
“Se tu lo vorrai potrete
venire a vivere nella mia casa”, mi sussurrò, “tuo padre era per
me come un fratello e voi sarete miei figli.”
Due ore più tardi
ero nella sua casa con le mie sorelle e le poche cose che avevo potuto
recuperare dal rogo della mia abitazione. Saremmo tornati l’indomani a
seppellire i miei genitori.
Solo quando le mie sorelle
si addormentarono crollai. Piansi per tutta la notte mordendo il cuscino
per non farmi sentire, rifiutandomi di accettare tanto orrore.
A momenti mi sentivo morto
anch’io con mio padre e mia madre e maledivo il destino che ci aveva riservato
tanta sofferenza.
Scivolai nel sonno che era
passata l’alba e dopo poche ore di sonno agitato mi svegliai stravolto
dalla consapevolezza che nonostante tutto avrei dovuto continuare a vivere.
La mia infanzia era finita
all’improvviso, troppo presto e troppo male, squarciata dalla tempesta
che mi aveva portato via i genitori.
2)
Se ripenso agli anni che
seguirono li ricordo come un grande ponte che divideva un passato doloroso
da un futuro pieno di incertezza.
La famiglia che mi aveva
adottato cercò in ogni modo di farci superare il trauma che avevamo
vissuto, riversandoci l’affetto che avevamo risparmiato nel loro matrimonio
senza figli.
Per fortuna le mie sorelle
erano abbastanza piccole da assorbire l’accaduto e da amare i nostri genitori
adottivi con l’amore assoluto di cui è capace un figlio.
Per me era davvero diverso.
Non ho mai dimenticato neppure per un istante i miei genitori né
la tragica notte in cui li ho persi.
Sono tuttora grato a Massud
per averci salvato la vita, ma capii ben presto che in nessun modo avrei
potuto considerarlo davvero mio padre, in nessun modo avrei sentito mia
quella casa.
Vivemmo un periodo abbastanza
lungo di relativa calma e le incursioni dell’esercito nel nostro villaggio
furono per lo più senza conseguenze, salvo le schedature e i vetri
rotti che consideravamo ormai inevitabili.
Andavo a scuola in un edificio
al centro del villaggio e fu lì che ci spiegarono come la strage
del mio vecchio villaggio avesse causato scalpore in tutto il mondo e avesse
costretto il governo turco ad abbassare la pressione sul mio popolo.
Un giorno l’insegnante ci
mostrò un giornale americano che si era procurato in qualche modo.
Il mio cuore si fermò quando riconobbi nella foto quello che rimaneva
della mia casa, distrutta dal fuoco dei soldati.
Quando parlavamo di queste
cose gli altri bambini, ma spesso anche i più grandi, mi guardavano
con stupore, come si guarda un fantasma. La storia del mio villaggio aveva
sconvolto tutti e ognuno che l’ascoltava non poteva impedirsi di pensare
a quanto la morte fosse passata loro vicino.
Non poteva non temere che
l’orrore ritornasse.
A dodici anni cominciai ad
aiutare Massud nel lavoro dei campi, accompagnandolo nei miei pomeriggi
dopo la scuola. Ero già grande per la mia età ed ero felice
di essere utile anche perché l’attività fisica mi teneva
impegnato e mi impediva di ripensare al passato che restava indelebile
nonostante lo scorrere degli anni.
Ero felice di poter stare
con gli adulti, di ascoltare le loro battute, di condividere le loro attività.
Soprattutto ero orgoglioso
di essere considerato uno di loro quando, al tramonto, si riunivano nel
capanno degli attrezzi per riposarsi dalle fatiche della giornata prima
di tornare alle loro case.
Era un vero e proprio rituale.
Si sfogavano, maledicendo la fatica del lavoro nei campi e il maltempo
che aveva rovinato il raccolto; si lasciavano andare alle confidenze dell’amicizie
o si chiedevano consigli sulle faccende familiari.
E finivano sempre a parlare
dell’Occidente e dei viaggi.
Ormai pochi nel nostro villaggio
continuavano a credere nel nostro sogno: la creazione di uno stato indipendente
che riunisse i nostri fratelli curdi sparsi e perseguitati con uguale ferocia
da democrazie e dittature.
Quasi ogni giorno vedevo
spegnersi questa speranza in questo o quello dei contadini del capanno.
Gli stessi che fino al giorno prima sognavano ancora oggi erano sopraffatti
dalla realtà, stremati dalla povertà e incapaci di pensare
a un futuro diverso. Sera dopo sera aumentavano quelli che vedevano i viaggi
verso l’Occidente come unica via di uscita dalla nostra situazione.
Quell’inverno era stato devastante
per le coltivazioni ed eccezionalmente freddo. Eravamo costretti a razionare
il cibo per garantirne una quantità sufficiente ai bambini più
piccoli e agli anziani.
Nel capanno si respirava
un’aria rassegnata e nessuno aveva voglia di scherzare. All’inizio i pochi
ottimisti ricordavano altri inverni rigidi seguiti da primavere provvidenziali,
ma ben presto il silenzio ebbe il predominio e trascorrevamo le ore nel
capanno guardandoci senza parlare.
Notammo lo straniero in
un giorno di pioggia mentre ancora eravamo al lavoro nei campi. Vidi gli
uomini fissarsi interrogativi e scuotere la testa non sapendo chi fosse.
Non vedemmo con quale mezzo
fosse arrivato. Ci fu detto che aveva chiesto del capovillaggio, di parlare
con gli uomini.
In condizioni normali avrebbe
prevalso il sospetto per questo sconosciuto dai vestiti eleganti e dallo
sguardo gelido, avremmo temuto che fosse un infiltrato dei turchi, forse
l’avremmo cacciato.
Ma in quel momento la disperazione
era tale che non consentiva di lasciare inesplorata la benché minima
possibilità e l’uomo fu accompagnato al capanno.
Si presentò come
un mediatore inviato dai nostri fratelli curdi emigrati in Occidente per
aiutarci a raggiungerli. Disse che la comunità curda della Germania
aveva accelerato l’organizzazione dei viaggi per la drammaticità
della situazione nella nostra regione; che c’era il timore di nuove deportazioni
dei turchi.
Certo, partire costava grandi
sacrifici ed il tragitto era pieno di pericoli, ma ne sarebbe valsa la
pena visto che oltre il mare ci aspettavano la pace e il benessere.
“Ci vuole solo un po’ di
coraggio. E di soldi. “, concluse lo straniero.
Dopo alcuni minuti di silenzio
uno dei contadini parlò e disse che avrebbero dovuto discuterne.
L’uomo li rassicurò e lascio il capanno. Nessuno quella sera notò
che il suo sguardo non aveva mai perso la stessa freddezza, la stessa superbia
che aveva avuto sin dall’inizio.
Nessuno poteva temere di
chi stava portando una speranza così grande..
3)
Quella sera l’idea dei viaggi
cominciò a prendere consistenza di possibilità, cessando
di essere un’ossessione priva di fondamento.
Fino a quel momento infatti
dal nostro villaggio non era mai partito nessuno.
Tuttavia i racconti dei
viaggi erano arrivati a noi e riempivano le sere del capanno, rimbalzavano
nei discorsi dei contadini, venivano sussurrati nelle case.
Si diceva che in Occidente
i curdi si erano ben integrati, formando una comunità pacifica che
ormai rappresentava una minoranza significativa. Tollerati e utili, contribuivano
con il proprio lavoro al benessere dei popoli che li ospitavano ed in cambio
vivevano in una tranquillità che consentiva di sopportare la lontananza
dalla loro terra.
I racconti arrossavano i
volti quando si descriveva la giornata dei nostri fratelli emigrati: i
turni di lavoro, gli stipendi, la possibilità per tutti di studiare
e di avere le cure mediche.
C’erano momenti in cui di
fronte ai racconti che riempivano il capanno sembrava inaccettabile non
provarci.
Vedevo gli uomini vacillare
e dai loro cenni si capiva che giorno dopo giorno maturava l’idea di partire,
svaniva il timore ed una febbre di incoscienza aveva la meglio sulla razionalità.
Si parlava per giorni dell’organizzazione,
si contattavano persone che ne conoscevano altre che erano partite, si
ricordavano parenti lontani che abitavano nei villaggi della Turchia Centrale.
Poi di colpo tutto si spegneva
e i nostri uomini, ancora più disillusi e stanchi, riponevano le
speranze e tornavano ad immergersi nel lavoro.
Fino al giorno dell’arrivo
dello straniero, che sembrava aveva l’esperienza e le conoscenze per portarci
via.
Nei giorni seguenti fu ospitato
dalle famiglie del villaggio, attendendo con pazienza che gli uomini si
riunissero molte volte, prima di raggiungere un accordo. Solo allora fu
chiamato nel capanno.
Gli fu chiesto di descrivere
nel dettaglio il viaggio ed egli con la sicurezza di che è abituato
a farlo si alzò in piedi ed iniziò a parlare in un silenzio
carico di attenzione.
Raccontò il tragitto
nel dettaglio, disse che sarebbe durato molti giorni, forse più
di un mese. Aveva una decina di posti disponibili e ricordò a chi
voleva partire i rischi di essere intercettati dalle polizie dei Paesi
che dovevamo attraversare.
La tensione si alternava
alla curiosità quando lo straniero si soffermava sui particolari
della meta finale del viaggio.
Quando parlò dei
soldi percepii lo sgomento dei nostri uomini, che ascoltavano sudati e
tesi, stretti nella penombra del capanno. Potei sentire in modo palpabile
la loro disperazione quando si resero conto che la cifra richiesta - duemila
dollari - era al di fuori delle possibilità della maggior parte
di loro.
Sembrava che il sogno stesse
svanendo di fronte alla sproporzione tra la cifra richiesta e le misere
ricchezze che i contadini possedevano. Vedevo gli sguardi abbassarsi l’uno
dopo l’altro a terra e fui preso dal panico: il nostro sogno stava svanendo
di nuovo.
Ma mi sbagliavo.
Massud si alzò e
si mise al centro della stanza, scuotendo i suoi compagni e attirando l’attenzione
dello straniero, che osservava la scena defilato.
“Ho una proposta”, disse,
“Se uniamo le poche ricchezze che abbiamo possiamo pagare il viaggio ad
alcuni di noi. Sono sicuro che avranno modo di ripagarci quando saranno
giunti a destinazione”.
Si fermò osservando
la reazione degli altri.
“Lavoreremo duro per un
anno e riusciremo a mettere da parte tutti insieme il denaro necessario
alla partenza. Decideremo insieme chi partirà”.
Lo straniero uscì
dal capanno e ci lasciò soli. Rientrò alcuni minuti dopo
ed ascoltò la proposta su cui ci eravamo accordati.
“Ritorna tra un anno e porterai
con te cinque di noi.”, disse Massud.
Quando rimanemmo soli fummo
consapevoli che ci aspettavano mesi di duri sacrifici, ma eravamo come
intontiti dall’idea che tra soli dodici mesi qualcuno di noi sarebbe partito
per l’Occidente.
Quella sera stentavo a prendere
sonno per l’agitazione, quando sentii il mio padre adottivo entrare nella
mia stanza e sedersi sul letto.
Nonostante l’oscurità
capii dal suo tono che stava piangendo mentre mi accarezzava la testa.
“Voglio che tu vada. Convincerò
gli altri a farti partire, tu sei giovane, forte e intelligente. Avrai
la fortuna che ti meriti.”
Rimasi frastornato. Non
potevo rispondere né esprimere qualsiasi emozione.
“Ora dormi”, disse riprendendo
il controllo di sè, “da domani abbiamo molto da fare”.
4)
Era passato un anno e tutto
era pronto per la partenza.
Lo straniero era tornato
tre volte per avere la conferma definitiva ed organizzare la partenza.
Da una settimana stava nel villaggio e rincuorava con il suo tono freddo
le persone che gli chiedevano chiarimenti, alimentandone la fiducia con
racconti dell’Occidente.
La sera che precedette la
data fissata cenammo in silenzio, ciascuno con lo sguardo perso nel cibo
e con le proprie diverse emozioni: l’orgoglio di Massud, il timore di sua
moglie, l’incredulità delle mie sorelle.
E poi c’erano le mie emozioni,
così confuse e intrecciate tra la gioia di partire e il dolore di
lasciare, tra la riconoscenza verso chi aveva voluto per me un futuro migliore
e la paura di non essere all’altezza.
Io, un ragazzino che aveva
sempre vissuto tra le montagne, mi ritrovavo a partire verso il mondo.
Ce l’avrei messa tutta. Sarei sopravvissuto al viaggio, mi sarei trovato
un lavoro. Avrei risparmiato per consentir loro di raggiungermi.
Questo pensavo quella sera,
ma la mia sicurezza si sciolse in pianto quando la moglie di Massud mi
mostrò il piccolo bagaglio che aveva preparato per la mia partenza.
Il mio padre adottivo mi
consegnò un piccolo fardello, quasi con vergogna.
“Non posso darti più
di questo, purtroppo. Fai attenzione a non farteli rubare perché
saranno la tua prima ancora di salvezza quando arriverai.”
Sdraiato sul mio letto per
l’ultima volta fissavo il soffitto incapace di dormire e sentivo il pianto
sommesso dei miei genitori nella stanza vicino.
Ripensai alla mia infanzia,
a mio padre e a mia madre, e per la prima volta dopo molti mesi mi tornò
in bocca il sapore acre della notte in cui furono uccisi. Vidi nuovamente
lo stupore di mio padre mentre gli sparavano, sentii il rumore delle case
in fiamme e le urla della gente, percepii il calore della mano di mio padre
mentre mi carezzava.
Scivolai in un sonno agitato
e sognai, senza averlo mai visto, il mare.
Tutto il villaggio si era
raccolto nella piccola piazza, pronto a darci il suo augurio.
Ero il più piccolo
del gruppo dei partenti e gli uomini mi stavano vicino tempestandomi di
mille rassicurazioni che non sentivo e ripetendomi mille consigli che avrei
subito dimenticato.
Lo straniero arrivò
con un camion guidato da un ragazzo turco che non alzò mai lo sguardo
dal volante. I nostri bagagli furono caricati e ci fecero salire sul cassone
posteriore.
Alzai lo sguardo verso il
villaggio che forse non avrei più rivisto, salutai con un cenno
i miei amici e gli uomini con cui trascorrevo le ore nei campi e nel capanno.
Quandi vidi i miei genitori
adottivi abbracciati alle mie sorelle ebbi un’esitazione poi gli sorrisi
cercando di ricacciare indietro le lacrime. Volevo che mi ricordassero
come mi sentivo quella mattina, che potessero mantenere il ricordo di una
fiducia e di un coraggio che non avevo.
Il camion lasciò
il villaggio che era già pomeriggio inoltrato.
Dovevamo viaggiare di notte,
a quanto ci aveva detto lo straniero, per non essere intercettati dalla
polizia turca; il giorno saremmo stati al riparo in strade secondarie o
poco trafficate.
Nelle prime ore superammo
l’ansia parlando ininterrottamente tra noi. Sapemmo presto più cose
l’uno dell’altro di quante ce ne fossimo mai detti in anni di convivenza
al villaggio.
Ahmed mi colpì subito
per la sua simpatia e per la tranquillità della sua voce: capii
che saremmo stati amici.
Aveva all’incirca quarant’anni
e non aveva mai avuto famiglia. Fu il primo a chiedere agli uomini riuniti
nel capanno il permesso di partire.
“Sono solo e non ho nulla
da perdere”, si era giustificato, “Sapete che potete fidarvi di me. Che
una volta arrivato farò il possibile per aiutare chi rimane”.
Si fidarono e fu inserito
nel gruppo dei partenti.
Nell’anno che precedette
la partenza si distinse per il suo impegno nel lavoro e per la sua generosità
verso gli altri, quasi sentendosi in debito nei confronti del villaggio
intero. Quando era partito più d’uno del villaggio lo aveva salutato
con lo stesso affetto con cui si lascia un familiare.
Sin dal momento in cui eravamo
saliti sul camion Ahmed aveva avuto una cura particolare nei miei confronti
e aveva preteso che mi coprissi con la sua giacca dal freddo vento delle
montagne.
Quella prima notte ci sembrò
interminabile, ma quando al mattino vedemmo il sole sorgere dietro ai nostri
monti ci abbracciammo e piangemmo di rinnovato ottimismo, ignari di quello
che ci aspettava nei giorni successivi.
5)
Non era ancora un giorno
che eravamo in viaggio quando fummo fermati da un gruppo di uomini, che
sbarravano la strada con un trattore formando una specie di posto di blocco.
Sulle prime fummo rassicurati
dal fatto che erano curdi, come capimmo dalle divise dell’esercito indipendentista
e dal loro accento.
Ma il sollievo fu di breve
durata e si tramutò in preoccupazione quando realizzammo che con
modi spicci e mostrando i mitra ci stavano gridando di scendere dall’autobus
con tutte le nostre cose.
Ci voltammo verso la nostra
guida, che scosse le spalle e ci invitò ad obbedire senza lamentarci.
I soldati curdi frugarono
i nostri sacchi in una parvenza di perquisizione che in realtà doveva
servir loro per capire se avevamo qualcosa di valore.
Insoddisfatti per il contenuto
gettarono a terra i nostri bagagli e ci insultarono. Infine si consultarono
e ci chiesero del denaro: per la causa curda, dissero, per la libertà
del nostro popolo.
Ahmed si avvicinò
al capo del gruppo e lo pregò di farci proseguire, piangendo la
nostra povertà e richiamando la nostra fratellanza.
“Poveracci, si vede che
siete poveracci”. Il capo parlò con disprezzo mentre scostava Ahmed
con una spinta. “Ma non ci interessa. Se non pagate bruceremo i vostri
stracci e vi rispediremo a destinazione. Fuori i soldi o il viaggio è
già finito.”
Mentre lo straniero guardava
la situazione come un osservatore disinteressato raccogliemmo un po’ di
soldi cercando di dissimulare i sacchetti che avevamo nascosto tra i vestiti.
Andai a consegnare il denaro.
Chiesi se bastavano.
Il capo sputò a terra
mentre contava e finalmente accennò ai suoi uomini di lasciarci
passare. Ma mentre salivamo sul camion con i nostri bagagli lo sentimmo
ridere alle nostre spalle.
“Poveri contadini, non sognate
troppo. Non arriverete mai, ve lo dico io! Morirete per strada!”.
Sul camion rimanemmo un
po’ in silenzio, poi ricominciammo i nostri colloqui incessanti anche se
il tono era ora più debole, meno sicuro.
Eravamo particolarmente
sconvolti dal comportamento dello straniero che ci guidava, che non era
pareva stupito dell’accaduto, anzi in alcuni momenti ci sembrò
scambiare delle occhiate di intesa con i banditi.
Nel proseguire del viaggio
lo straniero diveniva sempre più distaccato ed evitava di rivolgerci
la parola. Ne parlavamo e ci esprimevano la nostra sempre minor fiducia
per quell’uomo e i nuovi dubbi sul fatto che avrebbe rispettato la parola.
I successivi giorni passarono
in modo tranquillo, alternando le notti di viaggio nel buio profondo dell’Anatolia
a pomeriggi lunghissimi in cui stavamo nascosti nei campi.
Lo straniero era sempre
più nervoso. Quando ci chiamò un pomeriggio eravamo rassegnati
a ricevere cattive notizie.
Ci disse che la sera del
giorno seguente saremmo arrivati in un piccolo villaggio dove ci aspettavano
altri gruppi provenienti da varie zone del Kurdistan. Ci saremmo riuniti
a loro e con i nostri nuovi accompagnatori avremmo compiuto il resto del
viaggio fino all’imbarco sulla nave.
Protestammo vivacemente
la nostra delusione, gridammo che non erano questi gli accordi, che lui
aveva ricevuto i nostri soldi e che lui doveva accompagnarci.
Ci lasciò parlare
senza rispondere, appoggiato ad un albero.
“Il mio lavoro finisce qua,
che vi piaccia o no. Se non vi sta bene potete tornare indietro. Ma non
contate su di me”.
Mentre ci augurava buona
fortuna si sforzò di mantenere un tono comprensivo, ma non riuscì
a togliersi dalla bocca il suo sorriso gelido.
Quando ci svegliammo la
mattina seguente non era più sul camion e non lo rivedemmo mai più.
Il villaggio dove ci riunimmo
con gli altri brulicava di attività in ogni ora del giorno e della
notte. Si capiva che era un vero e proprio centro di raccolta di chi era
arrivato come noi in piccoli convogli dalle montagne curde. I profughi
venivano concentrati in un grande spiazzo fuori dal paese e quando arrivammo
noi c’erano già centinaia di uomini, donne e bambini divisi in gruppi.
Fui colpito da coloro che
organizzavano la divisione delle persone. Parlavano lingue che non avevo
mai sentito e pochi di loro erano turchi. I più avevano un aspetto
occidentali e comandavano con poche frasi secche ridendo tra loro quando
un profugo gli rivolgeva la parola.
L’autista turco del nostro
camion attese pazientemente di essere chiamato ed infine consegnò
ad un uomo biondo un foglio e un pacchetto di banconote.
Dopo averli verificati l’uomo
ordinò di scaricarci. Scendemmo con i nostri bagagli e notammo come
l’autista, visibilmente sollevato, si allontanò rapidamente con
il camion sulla strada da cui eravamo arrivati.
Mentre venivamo spinti bruscamente
nella zona alla quale eravamo destinati fummo di colpo consapevoli di essere
stati venduti. Immaginammo con orrore quanti altri passaggi come questo
avremmo dovuto sopportare e paventammo il rischio di essere lasciati da
qualche parte prima di arrivare.
Ma non ci fu tempo per pensare
perché di lì a poco fummo attratti da un rombo che si avvicinava:
alcuni camion, enormi rispetto a quello su cui eravamo arrivati, arrivarono
da ovest e si distribuirono nello spiazzo di fronte a ciascun gruppo.
Il biondo a cui ci avevano
venduto salì sul camion e ci parlò, tradotto da un ragazzo
turco.
Ci sarebbero stati giorni
terribili, disse senza emozione.
Saremmo stati chiusi nel
cassone del camion per il tempo necessario a raggiungere la costa. Tre,
forse quattro giorni durante i quali ci saremmo fermati solo pochi minuti
la notte per scendere dal camion.
Era una precauzione necessaria,
concluse, perché la polizia turca aveva aumentato i controlli e
quindi il tragitto doveva essere fatto nel più breve tempo possibile.
Ancora ci sentimmo ripetere
che non eravamo obbligati a partire, che potevamo tornare indietro. Ma
bastò uno sguardo con i miei compagni per capire che tale possibilità
non ci aveva neppure sfiorato. E salimmo sul camion.
Dei tre giorni nel cassone
serbo un ricordo appannato dal buio in cui trascorrevamo quasi tutto il
tempo, parlandoci per farci coraggio e scambiandoci un po’ di cibo.
Ben presto conobbi alla
perfezione le voci di chi mi stava vicino e sentii in esse le stesse emozioni
che provavo, la mia stessa paura e la mia stessa volontà di arrivare.
Mentre salivamo avevo notato
una donna con un neonato in braccio, avevo sentito mormorare con preoccupazione
che aveva partorito durante il viaggio e che il bambino stava male.
Dentro il camion lo sentivamo
piangere quasi ininterrottamente e sentivamo sua madre che cercava di calmarlo
con sussurri e carezze, disperatamente coprendolo con il suo corpo per
proteggerlo dal gelo che ci prendeva.
Doveva essere il secondo
giorno nel grande camion quando sentimmo un grido strozzato della donna.
“Non respira più!
Fermatevi!”
Ci fu subito il caos e nel
buio del cassone cercavamo di aiutarla creando maggiore confusione. Gridammo
a chi si trovava davanti di battere contro le pareti mentre pregavamo che
il camion si fermasse, che gli autisti capissero dalle nostre urla che
qualcosa stava accadendo.
Ma fu tutto inutile. Il
camion si fermò molte ore dopo e non c’era più nulla da fare.
Qualcuno disse che a poca
distanza c’erano delle case, che la donna avrebbe potuto recarsi lì.
Distrutta dal dolore la
giovane madre si avviò nella direzione indicata tenendo stretto
al petto il corpo senza vita del suo povero bambino.
Nessuno di noi l’accompagnò,
nessuno voleva rinunciare al viaggio per dare conforto alla donna. Lo strazio
e il sacrificio degli ultimi giorni ci avevano cambiato, rendendoci più
freddi di fronte a ciò che ci circondava e più egoisti. Vivevamo
la disgrazia con distacco, quasi sollevati che non avesse compromesso la
continuazione del viaggio.
Ne parlai con Ahmed, il
solo tra noi che sembrava non aver perduto la serenità che aveva
all’inizio.
Mi tranquillizzò
con la sua voce dolce, rassicurandomi sul fatto che tutto sarebbe finito,
i sacrifici come il gelo che sentivo nell’anima. Mi spiegò come
in questi casi l’istinto di sopravvivenza prevalesse sull’umanità
e come ciò fosse necessario perché non perdessimo la forza
di andare avanti.
Nel buio allungò
la mano e mi carezzò la testa come aveva fatto molte volte dalla
partenza.
“Guarda solo avanti e non
voltarti mai”, concluse a bassa voce.
6)
Arrivammo a Smirne
in piena notte e fummo portati in una zona nascosta del porto.
Scesi dal camion tenendo
gli occhi chiusi per riabituarmi lentamente alla luce come avevo fato nelle
soste precedenti.
Appena riuscì a guardarmi
intorno mi sentii mancare il fiato.
La città mi sembrava
grandissima, con migliaia di luci e case di dimensioni che non avevo mai
visto. Le strade erano larghe e asfaltate e si vedevano qutomobili in movimento
anche a quell’ora.
Ma più di tutto mi
colpì il mare.
Rimasi a fissarlo per alcuni
minuti pensando come tutto ciò fosse impensabile solo alcuni mesi
prima.
Ed ora invece ero lì,
lontano giorni dalle mie montagne e pronto ad affrontare un viaggio in
mare.
Fui scosso da Ahmed, che
mi invitava a seguire il gruppo che si stava spostando. Mi resi conto che
nel porto c’era un’organizzazione simile a quella del villaggio di smistamento.
Anche in questo caso vedevo
alcuni stranieri che raggruppavano le persone che scendevano e li destinavano
alle navi ferme sulle banchine.
Guardai con ammirazione
il mostro in metallo che ci aspettava sull’acqua, incredulo delle sue dimensioni
e del fatto che potesse rimanere a galla.
Ahmed mi fece invece notare
la ruggine e le screpolature che indicavano il vero stato della nave. Mentre
faceva uno scongiuro disse ridendo:
“Sta a galla per volontà
di Allah. Che speriamo non ci abbandoni fino a che non metteremo piede
a terra…”
Come nel villaggio si ripetè
il rito del discorso dello straniero che ci ribadì i rischi del
viaggio e ci invitò a valutare con attenzione se avevamo davvero
voglia di rischiare la vita in mare.
Quando si rese conto che
nessuno si sarebbe ritirato a questo punto del viaggio concluse bruscamente
invitandoci a consegnare i nostri bagagli.
“E’ una misura normale,
tutto vi verrà restituito all’arrivo. Tenete con voi solo il cibo
e il denaro.”
Qualcuno protestò
ma la maggior parte di noi capì che non avevamo scelta. Avevano
in pugno le nostre vite, potevamo solo sperare, proseguire e sperare, accettare
quello che capitava e ancora sperare.
Consegnai le mie poche cose
convinto che non le avrei più riviste, trattenendo con me solo il
cibo rimasto, che riunii con quello di Ahmed. Misi il denaro nelle scarpe.
Ebbi un’ultima visione di
Smirne. Mi fissai nel cuore le luci della città e scesi nella stiva.
Alcune ore più tardi
la nave partì e solo quando ebbe raggiunto il largo, era ormai l’alba,
potemmo salire sul ponte.
Ahmed mi stava come sempre
vicino e capivo dalle sue premure che era preoccupato per me, per come
avrei reagito alla navigazione.
Con un tono che non mi conoscevo
lo rassicurai fissandolo negli occhi e per una volta i nostri ruoli sembrarono
invertirsi. Mi sentivo indurito dalle esperienze degli ultimi giorni e
sentivo ogni giorno crescere le mie forze man mano che ci avvicinavamo
al traguardo.
Durante la lunga navigazione
mi mossi instancabilmente per la nave e parlai con tutti quelli che incontravo.
Mi facevo raccontare la loro storia, da dove venivano, perché erano
partiti.
Ebbi amicizie fugaci, che
duravano per il tempo che passavamo vicino e poi scomparivano rapidamente
quando mi spostavo in un’altra zona della nave.
Mi feci raccontare da decine
di uomini delle loro famiglie lontane ed ogni volta mi sentivo più
ricco perché capivo quanto anche nel sacrificio della partenza fosse
l’essenza dell’amore.
Giocai con i bambini di
ogni età che affollavano il ponte della nave, inconsapevoli del
viaggio che stavano vivendo e che avrebbe inevitabilmente segnato la loro
vita.
Conobbi un vecchio, disse
di non sapere la sua età, che rischiava la vita per raggiungere
suo figlio emigrato in Germania.
”Solo Allah sa quanto è
ora di sedersi. E mi ha detto in sogno che io devo camminare ancora…”,
concluse con un sorriso sereno.
Si accorse che lo guardavo
dubbioso. Gli domandai all’improvviso come fosse possibile che tutti noi,
vecchi, giovani, padri e madri, avessimo avessimo avuto il coraggio di
lasciare tutto e di intraprendere quest’avventura.
“Nel Sublime Corano è
la verità. Allah conosce tutto quello che c’è negli abissi
del mare, non cade foglia senza che Lui lo sappia e non c’è granello
di terra in una goccia d’acqua che non sia registrato in un libro chiaro.”
Teneva gli occhi chiusi
mentre citava il Sacro Libro.
“Confida in Lui. Ti porterà
a destinazione sano e salvo perché stai facendo la Sua volontà”.
Solo così, concentrandomi
su quello che mi circondava, riuscii a sopravvivere alla nave senza quasi
accorgermi della fame e della sete che si fecero ben presto sentire.
E così mi distraevo
dal mal di mare, terribile per la maggior parte di noi che venivamo dalle
montagne e non avevamo mai lasciato la terraferma.
Uomini alti e forti erano
costretti a trascorrere le giornate piegati a terra, stremati dalla nausea
e dalle febbri che conseguivano alla debilitazione.
Si diceva sulla nave che
persone malate erano state gettate in mare dall’equipaggio ma non so se
ciò sia accaduto davvero.
So solo che la situazione
si faceva ogni giorno più difficile e che cominciavamo a disperare
di superare questa prova quando fu avvistata la terra in lontananza.
La speranza di essere finalmente
arrivati moltiplicò le energie e ci abbracciammo piangendo e ringraziando
Allah.
Ci fermammo a poca distanza
dal porto e questa volta toccò ad uno di noi richiamare l’attenzione
e spiegare la situazione che gli era stata riferita dall’equipaggio.
“Fratelli, ascoltatemi.
Non ci siamo ancora”, esordì con tono affranto. “Quello davanti
a noi è un porto albanese”.
Si alzò un mormorio
di delusione e l’uomo chiese alzando le mani di poter finire.
“Questa nave non può
arrivare in Italia come previsto. Dovremo scendere in questo porto e poi
farci trasportare dai motoscafi albanesi”.
Guardai Ahmed e lo vidi
stanco. Negli ultimi giorni era stato male per il mare e aveva via via
smarrito un po’ della sua sicurezza, cercando sempre più spesso
conforto in me.
Gli parlai con la stessa
cantilena rassicurante che mi aveva insegnato, gli strinsi le spalle.
“Non possiamo mollare ora.
Lo dobbiamo a chi ci ha consentito di partire.”
Mi carezzò nel suo
modo e ritrovò un debole sorriso.
“Certo non posso abbandonarti”,
disse, “non dimenticarti che sei solo un ragazzino”.
7)
La notte attraccammo nel
porto albanese, non sorpresi di trovare le stesse facce, le stesse espressioni,
gli stessi modi che avevamo conosciuti nelle nostre tappe di smistamento.
La stessa freddezza, la
stessa rabbia nel riunirci in altri gruppi, le stesse minacce e gli stessi
scherni.
Sembrava che il tempo si
fosse fermato al momento in cui eravamo scesi dal piccolo camion nel primo
villaggio.
Si avvicinò un uomo
proponendoci di partire quella stessa notte. “Poche ore e sarete nel vostro
paradiso. Poche ore e pochi soldi.”
L’uomo disse quanto ci voleva
e mi resi conto con angoscia che il mio denaro non sarebbe stato sufficiente
e che non avrei mai compiuto la traversata.
Mi sedetti a terra tenendo
la testa tra le mani, quando sentii la carezza di Ahmed e la sua voce tornata
sicura.
“Tu andrai, ragazzo, non
preoccuparti. Stanotte partirai con il mio denaro. Io in qualche modo farò.
Lavoro per un po’ qui in Albania e poi ti raggiungo.”
Mi impedì di ribattere.
Mi consegnò il fardello dei suoi soldi e mi mise in mano un osso
di dattero che portava sempre con sé come portafortuna.
“Confronto al bene che ti
voglio il mio sacrificio non è più grande di questo osso
di dattero. Portalo con te e non mi dimenticherai.”
Mi carezzò abbracciandomi
in silenzio e poi si voltò sparendo tra la folla del porto.
Mi ritrovai di colpo solo
e mi resi conto di non aver avuto neppure il tempo di ringraziarlo per
il suo sacrificio e per la grande amicizia di cui mi aveva fatto dono.
Era il mio più grande
amico e mi sarebbe sempre stato vicino come l’osso di dattero che mi aveva
lasciato.
L’uomo del gommone mi invitò
a seguirlo. Mi condusse in una baracca dove trovai altre persone, curdi,
albanesi, cinesi, che dormivano per terra aspettando la sera.
Mi sdraiai in un angolo
libero e mi addormentai stremato dalle emozioni delle ultime ore.
I morsi della fame mi presero
allo stomaco strappandomi al sonno. Respirai profondamente per placare
i crampi cercando di non pensare a quante ore mi separavano dal mio ultimo
pranzo.
Mi concentrai sul viaggio
della notte che speravo in cuor mio essere l’ultimo che facevo in queste
condizioni.
Avevamo discusso a lungo
su quello che ci aspettava al di là dell’Adriatico nelle lunghe
giornate sulla nave, quando credevamo che saremmo sbarcati direttamente
in Italia.
Un uomo ci spiegò
che se fossimo stati individuati subito come profughi curdi avremmo avuto
l’asilo politico.
Saremmo stati vestiti e
rifocillati, ospitati nei centri di raccolta in attesa di partire per le
nostre destinazioni.
Infine saremo stati contattati
dalle organizzazioni umanitarie che ci avrebbero aiutati a raggiungere
le nostre comunità del Centro Europa.
Non ci chiedevamo cosa sarebbe
stato in seguito, fin troppo sconvolti ed increduli dalla sola prospettiva
di arrivare in Italia.
Mi ripetevo che presto sarei
stato al sicuro per prendere coraggio mentre salivo sul gommone nella mia
ultima notte da profugo.
Vedevo il mare nerissimo
davanti a me, increspato dalle onde che si infrangevano contro i moli del
porto. Il cielo nuvoloso e gonfio di pioggia contribuiva ad aumentare la
nostra tensione.
Mi sedetti sul pianale bagnato
dall’acqua e mi strinsi ai profughi che mi stavano vicino. Parlavamo lingue
diverse, venivamo da posti lontanissimi, ma il destino aveva voluto che
ci ritrovassimo vicini nel poco spazio del gommone a condividere la traversata.
I marinai erano tre, armati.
Due di loro impugnavano i mitra mentre il terzo, che governava il timone,
teneva la pistola alla cintura.
Il gommone si staccò
lentamente dal porto e si avviò verso l’oscurità del largo.
Cominciò a piovere prima piano e poi si scatenò un temporale
che ci costringeva a tenere la testa bassa e gli occhi chiusi.
Contavo mentalmente il tempo
che stavamo impiegando cercando di capire quanto ancora sarebbe stato lungo
il viaggio.
Le onde scuotevano l’imbarcazione
e ad ogni scossone ci stringevamo più forte per darci reciprocamente
coraggio. Qualcuno piangeva, altri pregavano o si lamentavano zittiti dai
marinai che ci sembravano preda della nostra stessa tensione per le condizioni
del mare.
Un imprecazione del timoniere
precedette di qualche istante la sferzata di luce che spezzò l’oscurità.
Il gommone virò bruscamente
rituffandosi nel buio, mentre la voce irreale di un altoparlante riempiva
la notte dicendo frasi delle quali ignorai il senso.
“La Finanza italiana!”,
urlarono i marinai.
Il guidatore accelerò
distanziando la barca che ci inseguiva. Vedevamo alle nostre spalle il
faro che cercava inutilmente di individuarci nel buio, mentre la voce metallica
continuava incessantemente a ripetere il suo messaggio.
Quando fummo abbastanza
lontani gli uomini rallentarono e minacciandoci con i mitra gridarono di
buttarci in acqua.
Fummo pienamente consapevoli
dell’orrore vedendo il timoniere prendere per il braccio una vecchia cinese
e gettarla al di fuori della barca.
Capimmo che avevano deciso
di liberarsi di noi, che era la loro unica possibilità di alleggerirsi
e di fuggire.
Non avevano scrupoli al
pensiero che questo avrebbe voluto dire la nostra morte.
Furono momenti di confusione
e di terrore. Il gommone scosso dalle onde sembrò più volte
sul punto di ribaltarsi, via via che gli occupanti venivano gettati in
mare.
Fui l’ultimo a essere spinto
fuori e a nulla valse il mio tentativo disperato di difendermi. Mi colpirono
con un pugno e sbilanciato caddi in mare.
Rimasi sott’acqua per alcuni
minuti ed infine riemersi, cercando con la forza della disperazione di
rimanere a galla pur non sapendo nuotare.
Il mio viaggio era finito,
stavo per morire lì, nel mare in tempesta, impossibilitato a respirare
dalle onde e dalla pioggia gelida che cadeva violenta.
Quando stavano per mancarmi
le forze vidi un remo, forse caduto dal gommone, e capii che avevo ancora
un’opportunità.
Lo afferrai e ripresi fiato
cercando di individuare nella notte le luci della barca italiana che si
stava allontanando da noi all’inseguimento del gommone.
Infine la vidi girare e
tornare indietro. Puntare il faro sulla superficie dell’acqua ed avvicinarsi
a me.
Come in un sogno, incredulo
di essere ancora vivo, mi sentii issare a bordo della barca e vidi il sorriso
del marinaio che mi scaldava con una coperta e mi rassicurava in italiano.
Ripensai alle parole del
vecchio sulla nave.
“Confida in Lui. Ti porterà
a destinazione sano e salvo perché stai facendo la Sua volontà”.
Crollai nel sonno stringendo
nel palmo della mano l’osso di dattero di Ahmed.
Epilogo
Sei anni fa sono sopravvissuto
a un viaggio del quale solo oggi comprendo i folli rischi.
Allora proseguivo per inerzia,
impossibilitato a voltarmi indietro nonostante tutto, drogato dal sogno
di arrivare in Occidente.
Solo oggi mi rendo davvero
conto che solo per miracolo mi sono salvato, che del mio gommone siamo
sopravvissuti solo in due. Spesso nei sogni rivedo gli sguardi dei miei
compagni di viaggio e mi sembra di sentirne ancora la stretta della mano.
So di essere stato fortunato.
Oggi ho un lavoro, una casa, molti amici, mi sembrano lontanissime le notti
di paura nel villaggio curdo.
Ogni mese invio del denaro
alla famiglia di Massud della quale sento una grande nostalgia.
La scorsa settimana mi si
è avvicinato un profugo arrivato da poco.
E’ entrato nell’officina
in cui faccio il meccanico e ha chiesto ai miei compagni di indicare chi
fossi.
“Sono un amico di Ahmed”,
ha esordito ma dal suo tono ho capito che non sarebbe venuto solo a portarmi
i suoi saluti.
Mentre ascoltavo il suo
racconto la mia mano afferrò nervosamente l’osso di dattero che
il mio amico mi aveva regalato e che portavo sempre con me come portafortuna.
Quando era successa la disgrazia
era quasi pronto a partire, disse l’uomo, aveva lavorato duro perché
non vedeva l’ora di raggiungermi.
Poi si era trovato in mezzo
a una sparatoria di malavitosi albanesi, lui non c’entrava, passava di
lì per caso.
“In ospedale ripeteva il
tuo nome nel delirio. Ti prometteva che stava per arrivare. Diceva che
eri solo un ragazzino e che avevi bisogno di lui…”
Non ho risposto. Sono uscito
dall’officina e sono tornato a casa in silenzio.
Ho trascorso la notte vegliando
proiettando nel soffitto le immagini del mio viaggio e rivedendo il sorriso
rassicurante di Ahmed. Sentendo la sua carezza.
Poi mi sono alzato, ho preso
la penna e ho cominciato a scrivere.
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I
racconti
inviati
a
Nonluoghi
Il
reportage
Viaggio
in
Kurdistan
di
Iole Pinto
(20
ottobre 2000)
Le
news
e
i commenti
nel
notiziario
di
Nonluoghi
|