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L'osso di dattero
Il viaggio di un bambino kurdo
 

di GIANLUCA CHIAGIA
 
 

 Prologo

    “E’ finita”, pensai, “stavolta è finita davvero”.
L’acqua insolitamente tempestosa dell’Adriatico stava mettendo a dura prova la mia capacità di resistenza e ogni onda sembrava destinata a sommergermi per sempre.
Non avevo la possibilità di vedere cosa stesse succedendo ai miei compagni di avventura. Lo sforzo di sopravvivere mi impegnava in modo totale e lentamente cedeva il posto alla rassegnazione.
“Non è giusto, proprio ora...”
 

1)

Non avevo mai conosciuto la pace, né una vera serenità.
Certo, ne avevo sentito parlare e quel mondo costruito ascoltando i racconti che arrivavano di voce in voce fino a noi riempiva i miei sogni notturni e le ossessioni delle mie giornate.
Ero nato tredici anni prima in un villaggio curdo al confine con l’Iraq ma ancora in territorio turco. Nato e cresciuto con l’ossessione di nascondere la mia identità in un Paese in cui anche la sola parola “curdo” era bandita e noi venivamo definiti i “turchi di montagna” o i “turchi dell’est”.
I soli ricordi dei miei primi anni di vita sono i lampi e il frastuono delle esplosioni, le fughe disperate verso i rifugi di fortuna quando i nostri “fratelli dell’ovest” venivano a bombardare o a assalire i nostri villaggi.
Ricordo soprattutto l’angoscia della voce di mia madre, a malapena celata sotto il tentativo di rassicurare me e le mie sorelle e quando ripenso al tremore delle sue labbra mi sembra di rivivere quei momenti.

Quando i miei genitori furono uccisi non avevo ancora compiuto sei anni.
Era un periodo relativamente tranquillo. Da alcuni giorni non c’erano attacchi e rastrellamenti e il villaggio stava calandosi in uno di quei momenti sospesi tra la speranza che tutto potesse finire ed la consapevolezza che ci sarebbe stata presto l’ennesima disillusione.
Ma questa volta sembrava davvero che ci fosse qualcosa di nuovo. Sentivo gli adulti raccontarsi a bassa voce che non c’era mai stata una tregua così lunga e che correva voce che ci fosse una trattativa in corso nella capitale.
In realtà non sapevo cosa fossero una tregua e una trattativa, ma il mio cuore traduceva il tono di speranza che affiorava dagli sguardi di mio padre e dei suoi compagni.
Poi tutto cambiò all’improvviso.
Ci dissero che nella capitale c’era stato un attentato in un mercato, che molte persone erano morte. Molte donne e molti bambini.
Ci dissero che gli indipendentisti curdi avevano rivendicato l’attentato, minacciando un lungo periodo di terrorismo fino a quando non fosse stata riconosciuta l’autonomia alla nazione curda.
Mio padre ascoltò immobile, vedeva passare nei suoi occhi le immagini ripetute centinaia di volte delle durissime ritorsioni dell’esercito che seguivano gli attentati.
Poco importava che il nostro villaggio fosse pacifico e che avesse sempre rifiutato il terrorismo, arrivando ad essere emarginato dalle grandi comunità curde perché rifiutava l’ospitalità ai responsabili degli attentati.
Poco importava che mio padre ci avesse sempre insegnato a non rispondere alla violenza con altra violenza. Che la nostra indipendenza non avrebbe mai potuto avere come prezzo la morte di persone innocenti.
Poco importava. Eravamo curdi e il fatto che nel nostro villaggio non ci fossero armi facilitava le ritorsioni dell’esercito turco: eravamo più vulnerabili e quindi potevano colpirci senza temere grosse resistenze.
La tempesta si fece attendere meno di due giorni.
Quella sera avevamo festeggiato il compleanno della sorellina piccola. Con le nostre poche cose eravamo riusciti a ricreare un’atmosfera festosa e per qualche ora avevamo messo da parte le nostre paure.
Andammo a dormire scherzando tra noi , ignari della disgrazia che ci stava per travolgere.
Fummo svegliati dalle urla strazianti delle donne e impiegammo alcuni minuti a capire che quello che sentivamo non faceva parte dei nostri incubi. Che la nostra maledetta realtà stava tornando a strapparci alla nostra voglia di una vita normale.
I soldati erano entrati nel villaggio da più parti, silenziosamente, e si erano appostati attorno alle case. Quando l’ufficiale aveva dato il via avevano iniziato il rastrellamento più duro che il mio villaggio avesse mai vissuto.
Sfondarono le porte e irruppero nelle case, travolgendo cose e persone, gridando, minacciando, colpendo con violenza cieca chi si trovava sulla loro strada.
Di quella notte ho impresso nella mia memoria la luce fortissima che invase la camera in cui dormivo con le mie sorelle.
E gli occhi del soldato, spaventati, gli occhi di chi si chiede più di quanto dovrebbe, di chi si ritrova all’improvviso terrorizzato da sé e da quello che sta facendo.
Incrociò il mio sguardo e per un istante solo ci siamo specchiati l’uno nell’altro: un bambino e un ragazzo travolti da qualcosa di eccessivo, che li costringeva a giocare un ruolo per entrambe insopportabile. Poi gli sguardi si staccarono e il soldato riprese ad urlare e a perlustrare la casa.
Ci fecero uscire tutti dalle case e separarono gli uomini dalle loro famiglie. Li fecero mettere in ginocchio al centro della piazza e un ufficiale scorse la fila fissandoli in silenzio. Si staccò dal gruppo e con un cenno fece iniziare l’interrogatorio.
Domande secche, inutili, pretesti per sfogare una rabbia vendicativa. Gli uomini inginocchiati continuavano a ripetere angosciati di non sapere nulla ma le loro implorazioni sembravano invece acuire la furia dei soldati.
Mio padre fu il primo a morire.
Ero abbracciato a mia madre, ai margini della scena, e cercavamo di sostenere la tensione ripetendoci parole di coraggio, entrambi paralizzati dalla tensione che si sviluppava, quando vedemmo un soldato avvicinarsi a un vecchio contadino e tirarlo per un braccio.
“Ora basta”, gridò quello che dava gli ordini, “Diteci dove sono i terroristi o ammazziamo questo vecchio.”
Un gemito strozzato di mia madre mi fece voltare di scatto e notai che mio padre stava alzandosi e si avvicinava verso l’uomo che teneva il vecchio.
“Non ci sono terroristi tra noi. Lo sapete bene. Vi prego di lasciarci in pace”, disse tenendo le braccia alzate.
Il soldato che  guidava le operazioni sembrò smarrirsi e cercò gli occhi dell’ufficiale, che si era mantenuto discosto e seguiva in modo quasi annoiato l’interrogatorio.
Questi non parlò ma si limitò ad un cenno con la testa, un’esortazione a proseguire in un piano che ormai ci appariva chiaramente scritto e non modificabile. Non potevano più fermarsi, dovevano compiere la loro vendetta.
Il soldato aveva un’espressione contratta mentre lasciava il vecchio e estraeva la pistola sparando contro mio padre.
L’immagine della sua caduta a terra, del sangue che arrossava la terra della piazza sono le ultime chiare di quella notte.
Tutto quello che viene dopo affoga nella mia memoria in modo indefinito.
Ricordo che i soldati iniziarono a sparare tutti insieme, che gli uomini morirono subito.
Ricordo la stretta della mano di mia madre quando venne colpita e come prima di cadere riuscì a passarmi la sorellina che stava tenendo in braccio.
Ricordo le case che bruciavano, la gente che urlava e piangeva, i soldati che se ne andavano e la faccia dura dell’ufficiale che per ultimo si voltò analizzando freddamente il risultato dell’operazione.
Mi rivedo in piedi, con le mie sorelle vicino. Paralizzato, incapace di parlare, di piangere, di urlare, bloccato per un tempo lunghissimo mentre intorno il mondo impazzito mi ruotava a velocità folle e io temevo che muovendomi avrei trasformato quell’incubo in realtà.
Fui scossi solo – non so quanto tempo dopo – dal richiamo di una donna che abitava poche case lontano dalla nostra. Ci aveva riconosciuto e ci chiamò per nome e mentre si avvicinava vidi il suo sguardo scivolare sul corpo di mia madre che giaceva immobile a terra.
Prese in braccio mia sorellina e ci invitò a seguirla, accompagnandoci in una delle case che si erano miracolosamente salvate dall’incendio.
Alcuni uomini cominciavano ad arrivare dal villaggio vicino e aiutavano a soccorrere i feriti e a spegnere gli incendi ancora accesi.
Uno di questi mi riconobbe, mi chiese dei miei genitori. Saputo dell’accaduto mi abbracciò e pianse, dicendomi di chiamarsi Massud e di essere stato un grande amico di mio padre.
“Se tu lo vorrai potrete venire a vivere nella mia casa”, mi sussurrò, “tuo padre era per me come un fratello e voi sarete miei figli.”

Due ore più tardi ero nella sua casa con le mie sorelle e le poche cose che avevo potuto recuperare dal rogo della mia abitazione. Saremmo tornati l’indomani a seppellire i miei genitori.
Solo quando le mie sorelle si addormentarono crollai. Piansi per tutta la notte mordendo il cuscino per non farmi sentire, rifiutandomi di accettare tanto orrore.
A momenti mi sentivo morto anch’io con mio padre e mia madre e maledivo il destino che ci aveva riservato tanta sofferenza.
Scivolai nel sonno che era passata l’alba e dopo poche ore di sonno agitato mi svegliai stravolto dalla consapevolezza che nonostante tutto avrei dovuto continuare a vivere.
La mia infanzia era finita all’improvviso, troppo presto e troppo male, squarciata dalla tempesta che mi aveva portato via i genitori.
 

2)
 

Se ripenso agli anni che seguirono li ricordo come un grande ponte che divideva un passato doloroso da un futuro pieno di incertezza.
La famiglia che mi aveva adottato cercò in ogni modo di farci superare il trauma che avevamo vissuto, riversandoci l’affetto che avevamo risparmiato nel loro matrimonio senza figli.
Per fortuna le mie sorelle erano abbastanza piccole da assorbire l’accaduto e da amare i nostri genitori adottivi con l’amore assoluto di cui è capace un figlio.
Per me era davvero diverso. Non ho mai dimenticato neppure per un istante i miei genitori né la tragica notte in cui li ho persi.
Sono tuttora grato a Massud per averci salvato la vita, ma capii ben presto che in nessun modo avrei potuto considerarlo davvero mio padre, in nessun modo avrei sentito mia quella casa.
Vivemmo un periodo abbastanza lungo di relativa calma e le incursioni dell’esercito nel nostro villaggio furono per lo più senza conseguenze, salvo le schedature e i vetri rotti che consideravamo ormai inevitabili.
Andavo a scuola in un edificio al centro del villaggio e fu lì che ci spiegarono come la strage del mio vecchio villaggio avesse causato scalpore in tutto il mondo e avesse costretto il governo turco ad abbassare la pressione sul mio popolo.
Un giorno l’insegnante ci mostrò un giornale americano che si era procurato in qualche modo. Il mio cuore si fermò quando riconobbi nella foto quello che rimaneva della mia casa, distrutta dal fuoco dei soldati.
Quando parlavamo di queste cose gli altri bambini, ma spesso anche i più grandi, mi guardavano con stupore, come si guarda un fantasma. La storia del mio villaggio aveva sconvolto tutti e ognuno che l’ascoltava non poteva impedirsi di pensare a quanto la morte fosse passata loro vicino. 
Non poteva non temere che l’orrore ritornasse.

A dodici anni cominciai ad aiutare Massud nel lavoro dei campi, accompagnandolo nei miei pomeriggi dopo la scuola. Ero già grande per la mia età ed ero felice di essere utile anche perché l’attività fisica mi teneva impegnato e mi impediva di ripensare al passato che restava indelebile nonostante lo scorrere degli anni.
Ero felice di poter stare con gli adulti, di ascoltare le loro battute, di condividere le loro attività.
Soprattutto ero orgoglioso di essere considerato uno di loro quando, al tramonto, si riunivano nel capanno degli attrezzi per riposarsi dalle fatiche della giornata prima di tornare alle loro case.
Era un vero e proprio rituale. Si sfogavano, maledicendo la fatica del lavoro nei campi e il maltempo che aveva rovinato il raccolto; si lasciavano andare alle confidenze dell’amicizie o si chiedevano consigli sulle faccende familiari.
E finivano sempre a parlare dell’Occidente e dei viaggi.
Ormai pochi nel nostro villaggio continuavano a credere nel nostro sogno: la creazione di uno stato indipendente che riunisse i nostri fratelli curdi sparsi e perseguitati con uguale ferocia da democrazie e dittature.
Quasi ogni giorno vedevo spegnersi questa speranza in questo o quello dei contadini del capanno. Gli stessi che fino al giorno prima sognavano ancora oggi erano sopraffatti dalla realtà, stremati dalla povertà e incapaci di pensare a un futuro diverso. Sera dopo sera aumentavano quelli che vedevano i viaggi verso l’Occidente come unica via di uscita dalla nostra situazione.

Quell’inverno era stato devastante per le coltivazioni ed eccezionalmente freddo. Eravamo costretti a razionare il cibo per garantirne una quantità sufficiente ai bambini più piccoli e agli anziani.
Nel capanno si respirava un’aria rassegnata e nessuno aveva voglia di scherzare. All’inizio i pochi ottimisti ricordavano altri inverni rigidi seguiti da primavere provvidenziali, ma ben presto il silenzio ebbe il predominio e trascorrevamo le ore nel capanno guardandoci senza parlare.
Notammo lo straniero in un giorno di pioggia mentre ancora eravamo al lavoro nei campi. Vidi gli uomini fissarsi interrogativi e scuotere la testa non sapendo chi fosse.
Non vedemmo con quale mezzo fosse arrivato. Ci fu detto che aveva chiesto del capovillaggio, di parlare con gli uomini.
In condizioni normali avrebbe prevalso il sospetto per questo sconosciuto dai vestiti eleganti e dallo sguardo gelido, avremmo temuto che fosse un infiltrato dei turchi, forse l’avremmo cacciato.
Ma in quel momento la disperazione era tale che non consentiva di lasciare inesplorata la benché minima possibilità e l’uomo fu accompagnato al capanno.
Si presentò come un mediatore inviato dai nostri fratelli curdi emigrati in Occidente per aiutarci a raggiungerli. Disse che la comunità curda della Germania aveva accelerato l’organizzazione dei viaggi per la drammaticità della situazione nella nostra regione; che c’era il timore di nuove deportazioni dei turchi.
Certo, partire costava grandi sacrifici ed il tragitto era pieno di pericoli, ma ne sarebbe valsa la pena visto che oltre il mare ci aspettavano la pace e il benessere.
“Ci vuole solo un po’ di coraggio. E di soldi. “, concluse lo straniero.
Dopo alcuni minuti di silenzio uno dei contadini parlò e disse che avrebbero dovuto discuterne. L’uomo li rassicurò e lascio il capanno. Nessuno quella sera notò che il suo sguardo non aveva mai perso la stessa freddezza, la stessa superbia che aveva avuto sin dall’inizio.
Nessuno poteva temere di chi stava portando una speranza così grande..
 

3)
 

Quella sera l’idea dei viaggi cominciò a prendere consistenza di possibilità, cessando di essere un’ossessione priva di fondamento.
Fino a quel momento infatti dal nostro villaggio non era mai partito nessuno.
Tuttavia i racconti dei viaggi erano arrivati a noi e riempivano le sere del capanno, rimbalzavano nei discorsi dei contadini, venivano sussurrati nelle case.
Si diceva che in Occidente i curdi si erano ben integrati, formando una comunità pacifica che ormai rappresentava una minoranza significativa. Tollerati e utili, contribuivano con il proprio lavoro al benessere dei popoli che li ospitavano ed in cambio vivevano in una tranquillità che consentiva di sopportare la lontananza dalla loro terra.
I racconti arrossavano i volti quando si descriveva la giornata dei nostri fratelli emigrati: i turni di lavoro, gli stipendi, la possibilità per tutti di studiare e di avere le cure mediche.
C’erano momenti in cui di fronte ai racconti che riempivano il capanno sembrava inaccettabile non provarci.
Vedevo gli uomini vacillare e dai loro cenni si capiva che giorno dopo giorno maturava l’idea di partire, svaniva il timore ed una febbre di incoscienza aveva la meglio sulla razionalità. 
Si parlava per giorni dell’organizzazione, si contattavano persone che ne conoscevano altre che erano partite, si ricordavano parenti lontani che abitavano nei villaggi della Turchia Centrale.
Poi di colpo tutto si spegneva e i nostri uomini, ancora più disillusi e stanchi, riponevano le speranze e tornavano ad immergersi nel lavoro.
Fino al giorno dell’arrivo dello straniero, che sembrava aveva l’esperienza e le conoscenze per portarci via.
Nei giorni seguenti fu ospitato dalle famiglie del villaggio, attendendo con pazienza che gli uomini si riunissero molte volte, prima di raggiungere un accordo. Solo allora fu chiamato nel capanno.
Gli fu chiesto di descrivere nel dettaglio il viaggio ed egli con la sicurezza di che è abituato a farlo si alzò in piedi ed iniziò a parlare in un silenzio carico di attenzione.
Raccontò il tragitto nel dettaglio, disse che sarebbe durato molti giorni, forse più di un mese. Aveva una decina di posti disponibili e ricordò a chi voleva partire i rischi di essere intercettati dalle polizie dei Paesi che dovevamo attraversare.
La tensione si alternava alla curiosità quando lo straniero si soffermava sui particolari della meta finale del viaggio.
Quando parlò dei soldi percepii lo sgomento dei nostri uomini, che ascoltavano sudati e tesi, stretti nella penombra del capanno. Potei sentire in modo palpabile la loro disperazione quando si resero conto che la cifra richiesta - duemila dollari - era al di fuori delle possibilità della maggior parte di loro.
Sembrava che il sogno stesse svanendo di fronte alla sproporzione tra la cifra richiesta e le misere ricchezze che i contadini possedevano. Vedevo gli sguardi abbassarsi l’uno dopo l’altro a terra e fui preso dal panico: il nostro sogno stava svanendo di nuovo.
Ma mi sbagliavo.
Massud si alzò e si mise al centro della stanza, scuotendo i suoi compagni e attirando l’attenzione dello straniero, che osservava la scena defilato.
“Ho una proposta”, disse, “Se uniamo le poche ricchezze che abbiamo possiamo pagare il viaggio ad alcuni di noi. Sono sicuro che avranno modo di ripagarci quando saranno giunti a destinazione”.
Si fermò osservando la reazione degli altri.
“Lavoreremo duro per un anno e riusciremo a mettere da parte tutti insieme il denaro necessario alla partenza. Decideremo insieme chi partirà”.
Lo straniero uscì dal capanno e ci lasciò soli. Rientrò alcuni minuti dopo ed ascoltò la proposta su cui ci eravamo accordati.
“Ritorna tra un anno e porterai con te cinque di noi.”, disse Massud.
Quando rimanemmo soli fummo consapevoli che ci aspettavano mesi di duri sacrifici, ma eravamo come intontiti dall’idea che tra soli dodici mesi qualcuno di noi sarebbe partito per l’Occidente.
Quella sera stentavo a prendere sonno per l’agitazione, quando sentii il mio padre adottivo entrare nella mia stanza e sedersi sul letto.
Nonostante l’oscurità capii dal suo tono che stava piangendo mentre mi accarezzava la testa.
“Voglio che tu vada. Convincerò gli altri a farti partire, tu sei giovane, forte e intelligente. Avrai la fortuna che ti meriti.”
Rimasi frastornato. Non potevo rispondere né esprimere qualsiasi emozione.
“Ora dormi”, disse riprendendo il controllo di sè, “da domani abbiamo molto da fare”.
 

4)
 

Era passato un anno e tutto era pronto per la partenza.
Lo straniero era tornato tre volte per avere la conferma definitiva ed organizzare la partenza. Da una settimana stava nel villaggio e rincuorava con il suo tono freddo le persone che gli chiedevano chiarimenti, alimentandone la fiducia con racconti dell’Occidente.
La sera che precedette la data fissata cenammo in silenzio, ciascuno con lo sguardo perso nel cibo e con le proprie diverse emozioni: l’orgoglio di Massud, il timore di sua moglie, l’incredulità delle mie sorelle.
E poi c’erano le mie emozioni, così confuse e intrecciate tra la gioia di partire e il dolore di lasciare, tra la riconoscenza verso chi aveva voluto per me un futuro migliore e la paura di non essere all’altezza. 
Io, un ragazzino che aveva sempre vissuto tra le montagne, mi ritrovavo a partire verso il mondo.  Ce l’avrei messa tutta. Sarei sopravvissuto al viaggio, mi sarei trovato un lavoro. Avrei risparmiato per consentir loro di raggiungermi.
Questo pensavo quella sera, ma la mia sicurezza si sciolse in pianto quando la moglie di Massud mi mostrò il piccolo bagaglio che aveva preparato per la mia partenza.
Il mio padre adottivo mi consegnò un piccolo fardello, quasi con vergogna.
“Non posso darti più di questo, purtroppo. Fai attenzione a non farteli rubare perché saranno la tua prima ancora di salvezza quando arriverai.”
Sdraiato sul mio letto per l’ultima volta fissavo il soffitto incapace di dormire e sentivo il pianto sommesso dei miei genitori nella stanza vicino.
Ripensai alla mia infanzia, a mio padre e a mia madre, e per la prima volta dopo molti mesi mi tornò in bocca il sapore acre della notte in cui furono uccisi. Vidi nuovamente lo stupore di mio padre mentre gli sparavano, sentii il rumore delle case in fiamme e le urla della gente, percepii il calore della mano di mio padre mentre mi carezzava.
Scivolai in un sonno agitato e sognai, senza averlo mai visto, il mare.

Tutto il villaggio si era raccolto nella piccola piazza, pronto a darci il suo augurio.
Ero il più piccolo del gruppo dei partenti e gli uomini mi stavano vicino tempestandomi di mille rassicurazioni che non sentivo e ripetendomi mille consigli che avrei subito dimenticato.
Lo straniero arrivò con un camion guidato da un ragazzo turco che non alzò mai lo sguardo dal volante. I nostri bagagli furono caricati e ci fecero salire sul cassone posteriore.
Alzai lo sguardo verso il villaggio che forse non avrei più rivisto, salutai con un cenno i miei amici e gli uomini con cui trascorrevo le ore nei campi e nel capanno.
Quandi vidi i miei genitori adottivi abbracciati alle mie sorelle ebbi un’esitazione poi gli sorrisi cercando di ricacciare indietro le lacrime. Volevo che mi ricordassero come mi sentivo quella mattina, che potessero mantenere il ricordo di una fiducia e di un coraggio che non avevo.
Il camion lasciò il villaggio che era già pomeriggio inoltrato.
Dovevamo viaggiare di notte, a quanto ci aveva detto lo straniero, per non essere intercettati dalla polizia turca; il giorno saremmo stati al riparo in strade secondarie o poco trafficate.
Nelle prime ore superammo l’ansia parlando ininterrottamente tra noi. Sapemmo presto più cose l’uno dell’altro di quante ce ne fossimo mai detti in anni di convivenza al villaggio.
Ahmed mi colpì subito per la sua simpatia e per la tranquillità della sua voce: capii che saremmo stati amici.
Aveva all’incirca quarant’anni e non aveva mai avuto famiglia. Fu il primo a chiedere agli uomini riuniti nel capanno il permesso di partire.
“Sono solo e non ho nulla da perdere”, si era giustificato, “Sapete che potete fidarvi di me. Che una volta arrivato farò il possibile per aiutare chi rimane”.
Si fidarono e fu inserito nel gruppo dei partenti.
Nell’anno che precedette la partenza si distinse per il suo impegno nel lavoro e per la sua generosità verso gli altri, quasi sentendosi in debito nei confronti del villaggio intero. Quando era partito più d’uno del villaggio lo aveva salutato con lo stesso affetto con cui si lascia un familiare.
Sin dal momento in cui eravamo saliti sul camion Ahmed aveva avuto una cura particolare nei miei confronti e aveva preteso che mi coprissi con la sua giacca dal freddo vento delle montagne.
Quella prima notte ci sembrò interminabile, ma quando al mattino vedemmo il sole sorgere dietro ai nostri monti ci abbracciammo e piangemmo di rinnovato ottimismo, ignari di quello che ci aspettava nei giorni successivi.

5)

Non era ancora un giorno che eravamo in viaggio quando fummo fermati da un gruppo di uomini, che sbarravano la strada con un trattore formando una specie di posto di blocco.
Sulle prime fummo rassicurati dal fatto che erano curdi, come capimmo dalle divise dell’esercito indipendentista e dal loro accento.
Ma il sollievo fu di breve durata e si tramutò in preoccupazione quando realizzammo che con modi spicci e mostrando i mitra ci stavano gridando di scendere dall’autobus con tutte le nostre cose.
Ci voltammo verso la nostra guida, che scosse le spalle e ci invitò ad obbedire senza lamentarci.
I soldati curdi frugarono i nostri sacchi in una parvenza di perquisizione che in realtà doveva servir loro per capire se avevamo qualcosa di valore.
Insoddisfatti per il contenuto gettarono a terra i nostri bagagli e ci insultarono. Infine si consultarono e ci chiesero del denaro: per la causa curda, dissero, per la libertà del nostro popolo.
Ahmed si avvicinò al capo del gruppo e lo pregò di farci proseguire, piangendo la nostra povertà e richiamando la nostra fratellanza.
“Poveracci, si vede che siete poveracci”. Il capo parlò con disprezzo mentre scostava Ahmed con una spinta. “Ma non ci interessa. Se non pagate bruceremo i vostri stracci e vi rispediremo a destinazione. Fuori i soldi o il viaggio è già finito.”
Mentre lo straniero guardava la situazione come un osservatore disinteressato raccogliemmo un po’ di soldi cercando di dissimulare i sacchetti che avevamo nascosto tra i vestiti.
Andai a consegnare il denaro. Chiesi se bastavano.
Il capo sputò a terra mentre contava e finalmente accennò ai suoi uomini di lasciarci passare. Ma mentre salivamo sul camion con i nostri bagagli lo sentimmo ridere alle nostre spalle.
“Poveri contadini, non sognate troppo. Non arriverete mai, ve lo dico io! Morirete per strada!”.
Sul camion rimanemmo un po’ in silenzio, poi ricominciammo i nostri colloqui incessanti anche se il tono era ora più debole, meno sicuro.
Eravamo particolarmente sconvolti dal comportamento dello straniero che ci guidava, che non era pareva stupito dell’accaduto, anzi in alcuni momenti ci  sembrò scambiare delle occhiate di intesa con i banditi.
Nel proseguire del viaggio lo straniero diveniva sempre più distaccato ed evitava di rivolgerci la parola. Ne parlavamo e ci esprimevano la nostra sempre minor fiducia per quell’uomo e i nuovi dubbi sul fatto che avrebbe rispettato la parola.

I successivi giorni passarono in modo tranquillo, alternando le notti di viaggio nel buio profondo dell’Anatolia a pomeriggi lunghissimi in cui stavamo nascosti nei campi.
Lo straniero era sempre più nervoso. Quando ci chiamò un pomeriggio eravamo rassegnati a ricevere cattive notizie.
Ci disse che la sera del giorno seguente saremmo arrivati in un piccolo villaggio dove ci aspettavano altri gruppi provenienti da varie zone del Kurdistan. Ci saremmo riuniti a loro e con i nostri nuovi accompagnatori avremmo compiuto il resto del viaggio fino all’imbarco sulla nave.
Protestammo vivacemente la nostra delusione, gridammo che non erano questi gli accordi, che lui aveva ricevuto i nostri soldi e che lui doveva accompagnarci.
Ci lasciò parlare senza rispondere, appoggiato ad un albero.
“Il mio lavoro finisce qua, che vi piaccia o no. Se non vi sta bene potete tornare indietro. Ma non contate su di me”.
Mentre ci augurava buona fortuna si sforzò di mantenere un tono comprensivo, ma non riuscì a togliersi dalla bocca il suo sorriso gelido.
Quando ci svegliammo la mattina seguente non era più sul camion e non lo rivedemmo mai più.

Il villaggio dove ci riunimmo con gli altri brulicava di attività in ogni ora del giorno e della notte. Si capiva che era un vero e proprio centro di raccolta di chi era arrivato come noi in piccoli convogli dalle montagne curde. I profughi venivano concentrati in un grande spiazzo fuori dal paese e quando arrivammo noi c’erano già centinaia di uomini, donne e bambini divisi in gruppi.
Fui colpito da coloro che organizzavano la divisione delle persone. Parlavano lingue che non avevo mai sentito e pochi di loro erano turchi. I più avevano un aspetto occidentali e comandavano con poche frasi secche ridendo tra loro quando un profugo gli rivolgeva la parola.
L’autista turco del nostro camion attese pazientemente di essere chiamato ed infine consegnò ad un uomo biondo un foglio e un pacchetto di banconote.
Dopo averli verificati l’uomo ordinò di scaricarci. Scendemmo con i nostri bagagli e notammo come l’autista, visibilmente sollevato, si allontanò rapidamente con il camion sulla strada da cui eravamo arrivati.
Mentre venivamo spinti bruscamente nella zona alla quale eravamo destinati fummo di colpo consapevoli di essere stati venduti. Immaginammo con orrore quanti altri passaggi come questo avremmo dovuto sopportare e paventammo il rischio di essere lasciati da qualche parte prima di arrivare.
Ma non ci fu tempo per pensare perché di lì a poco fummo attratti da un rombo che si avvicinava: alcuni camion, enormi rispetto a quello su cui eravamo arrivati, arrivarono da ovest e si distribuirono nello spiazzo di fronte a ciascun gruppo.
Il biondo a cui ci avevano venduto salì sul camion e ci parlò, tradotto da un ragazzo turco.
Ci sarebbero stati giorni terribili, disse senza emozione.
Saremmo stati chiusi nel cassone del camion per il tempo necessario a raggiungere la costa. Tre, forse quattro giorni durante i quali ci saremmo fermati solo pochi minuti la notte per scendere dal camion.
Era una precauzione necessaria, concluse, perché la polizia turca aveva aumentato i controlli e quindi il tragitto doveva essere fatto nel più breve tempo possibile.
Ancora ci sentimmo ripetere che non eravamo obbligati a partire, che potevamo tornare indietro. Ma bastò uno sguardo con i miei compagni per capire che tale possibilità non ci aveva neppure sfiorato. E salimmo sul camion.

Dei tre giorni nel cassone serbo un ricordo appannato dal buio in cui trascorrevamo quasi tutto il tempo, parlandoci per farci coraggio e scambiandoci un po’ di cibo.
Ben presto conobbi alla perfezione le voci di chi mi stava vicino e sentii in esse le stesse emozioni che provavo, la mia stessa paura e la mia stessa volontà di arrivare.
Mentre salivamo avevo notato una donna con un neonato in braccio, avevo sentito mormorare con preoccupazione che aveva partorito durante il viaggio e che il bambino stava male.
Dentro il camion lo sentivamo piangere quasi ininterrottamente e sentivamo sua madre che cercava di calmarlo con sussurri e carezze, disperatamente coprendolo con il suo corpo per proteggerlo dal gelo che ci prendeva.
Doveva essere il secondo giorno nel grande camion quando sentimmo un grido strozzato della donna.
“Non respira più! Fermatevi!”
Ci fu subito il caos e nel buio del cassone cercavamo di aiutarla creando maggiore confusione. Gridammo a chi si trovava davanti di battere contro le pareti mentre pregavamo che il camion si fermasse, che gli autisti capissero dalle nostre urla che qualcosa stava accadendo.
Ma fu tutto inutile. Il camion si fermò molte ore dopo e non c’era più nulla da fare.
Qualcuno disse che a poca distanza c’erano delle case, che la donna avrebbe potuto recarsi lì.
Distrutta dal dolore la giovane madre si avviò nella direzione indicata tenendo stretto al petto il corpo senza vita del suo povero bambino.
Nessuno di noi l’accompagnò, nessuno voleva rinunciare al viaggio per dare conforto alla donna. Lo strazio e il sacrificio degli ultimi giorni ci avevano cambiato, rendendoci più freddi di fronte a ciò che ci circondava e più egoisti. Vivevamo la disgrazia con distacco, quasi sollevati che non avesse compromesso la continuazione del viaggio.
Ne parlai con Ahmed, il solo tra noi che sembrava non aver perduto la serenità che aveva all’inizio.
Mi tranquillizzò con la sua voce dolce, rassicurandomi sul fatto che tutto sarebbe finito, i sacrifici come il gelo che sentivo nell’anima. Mi spiegò come in questi casi l’istinto di sopravvivenza prevalesse sull’umanità e come ciò fosse necessario perché non perdessimo la forza di andare avanti.
Nel buio allungò la mano e mi carezzò la testa come aveva fatto molte volte dalla partenza.
“Guarda solo avanti e non voltarti mai”, concluse a bassa voce.
 

6)

Arrivammo a Smirne  in piena notte e fummo portati in una zona nascosta del porto.
Scesi dal camion tenendo gli occhi chiusi per riabituarmi lentamente alla luce come avevo fato nelle soste precedenti.
Appena riuscì a guardarmi intorno mi sentii mancare il fiato.
La città mi sembrava grandissima, con migliaia di luci e case di dimensioni che non avevo mai visto. Le strade erano larghe e asfaltate e si vedevano qutomobili in movimento anche a quell’ora.
Ma più di tutto mi colpì il mare.
Rimasi a fissarlo per alcuni minuti pensando come tutto ciò fosse impensabile solo alcuni mesi prima.
Ed ora invece ero lì, lontano giorni dalle mie montagne e pronto ad affrontare un viaggio in mare.
Fui scosso da Ahmed, che mi invitava a seguire il gruppo che si stava spostando. Mi resi conto che nel porto c’era un’organizzazione simile a quella del villaggio di smistamento.
Anche in questo caso vedevo alcuni stranieri che raggruppavano le persone che scendevano e li destinavano alle navi ferme sulle banchine.
Guardai con ammirazione il mostro in metallo che ci aspettava sull’acqua, incredulo delle sue dimensioni e del fatto che potesse rimanere a galla.
Ahmed mi fece invece notare la ruggine e le screpolature che indicavano il vero stato della nave. Mentre faceva uno scongiuro disse ridendo:
“Sta a galla per volontà di Allah. Che speriamo non ci abbandoni fino a che non metteremo piede a terra…”
Come nel villaggio si ripetè il rito del discorso dello straniero che ci ribadì i rischi del viaggio e ci invitò a valutare con attenzione se avevamo davvero voglia di rischiare la vita in mare.
Quando si rese conto che nessuno si sarebbe ritirato a questo punto del viaggio concluse bruscamente invitandoci a consegnare i nostri bagagli.
“E’ una misura normale, tutto vi verrà restituito all’arrivo. Tenete con voi solo il cibo e il denaro.”
Qualcuno protestò ma la maggior parte di noi capì che non avevamo scelta. Avevano in pugno le nostre vite, potevamo solo sperare, proseguire e sperare, accettare quello che capitava e ancora sperare.
Consegnai le mie poche cose convinto che non le avrei più riviste, trattenendo con me solo il cibo rimasto, che riunii con quello di Ahmed. Misi il denaro nelle scarpe.
Ebbi un’ultima visione di Smirne. Mi fissai nel cuore le luci della città e scesi nella stiva.

Alcune ore più tardi la nave partì e solo quando ebbe raggiunto il largo, era ormai l’alba, potemmo salire sul ponte.
Ahmed mi stava come sempre vicino e capivo dalle sue premure che era preoccupato per me, per come avrei reagito alla navigazione.
Con un tono che non mi conoscevo lo rassicurai fissandolo negli occhi e per una volta i nostri ruoli sembrarono invertirsi. Mi sentivo indurito dalle esperienze degli ultimi giorni e sentivo ogni giorno crescere le mie forze man mano che ci avvicinavamo al traguardo.
Durante la lunga navigazione mi mossi instancabilmente per la nave e parlai con tutti quelli che incontravo. Mi facevo raccontare la loro storia, da dove venivano, perché erano partiti.
Ebbi amicizie fugaci, che duravano per il tempo che passavamo vicino e poi scomparivano rapidamente quando mi spostavo in un’altra zona della nave.
Mi feci raccontare da decine di uomini delle loro famiglie lontane ed ogni volta mi sentivo più ricco perché capivo quanto anche nel sacrificio della partenza fosse l’essenza dell’amore.
Giocai con i bambini di ogni età che affollavano il ponte della nave, inconsapevoli del viaggio che stavano vivendo e che avrebbe inevitabilmente segnato la loro vita.
Conobbi un vecchio, disse di non sapere la sua età, che rischiava la vita per raggiungere suo figlio emigrato in Germania.
”Solo Allah sa quanto è ora di sedersi. E mi ha detto in sogno che io devo camminare ancora…”, concluse con un sorriso sereno.
Si accorse che lo guardavo dubbioso. Gli domandai all’improvviso come fosse possibile che tutti noi, vecchi, giovani, padri e madri, avessimo avessimo avuto il coraggio di lasciare tutto e di intraprendere quest’avventura.
“Nel Sublime Corano è la verità. Allah conosce tutto quello che c’è negli abissi del mare, non cade foglia senza che Lui lo sappia e non c’è granello di terra in una goccia d’acqua che non sia registrato in un libro chiaro.”
Teneva gli occhi chiusi mentre citava il Sacro Libro.
“Confida in Lui. Ti porterà a destinazione sano e salvo perché stai facendo la Sua volontà”.

Solo così, concentrandomi su quello che mi circondava, riuscii a sopravvivere alla nave senza quasi accorgermi della fame e della sete che si fecero ben presto sentire.
E così mi distraevo dal mal di mare, terribile per la maggior parte di noi che venivamo dalle montagne e non avevamo mai lasciato la terraferma.
Uomini alti e forti erano costretti a trascorrere le giornate piegati a terra, stremati dalla nausea e dalle febbri che conseguivano alla debilitazione.
Si diceva sulla nave che persone malate erano state gettate in mare dall’equipaggio ma non so se ciò sia accaduto davvero.
So solo che la situazione si faceva ogni giorno più difficile e che cominciavamo a disperare di superare questa prova quando fu avvistata la terra in lontananza.
La speranza di essere finalmente arrivati moltiplicò le energie e ci abbracciammo piangendo e ringraziando Allah.
Ci fermammo a poca distanza dal porto e questa volta toccò ad uno di noi richiamare l’attenzione e spiegare la situazione che gli era stata riferita dall’equipaggio.
“Fratelli, ascoltatemi. Non ci siamo ancora”, esordì con tono affranto. “Quello davanti a noi è un porto albanese”.
Si alzò un mormorio di delusione e l’uomo chiese alzando le mani di poter finire.
“Questa nave non può arrivare in Italia come previsto. Dovremo scendere in questo porto e poi farci trasportare dai motoscafi albanesi”.
Guardai Ahmed e lo vidi stanco. Negli ultimi giorni era stato male per il mare e aveva via via smarrito un po’ della sua sicurezza, cercando sempre più spesso conforto in me.
Gli parlai con la stessa cantilena rassicurante che mi aveva insegnato, gli strinsi le spalle.
“Non possiamo mollare ora. Lo dobbiamo a chi ci ha consentito di partire.”
Mi carezzò nel suo modo e ritrovò un debole sorriso.
“Certo non posso abbandonarti”, disse, “non dimenticarti che sei solo un ragazzino”.
 

7)

La notte attraccammo nel porto albanese, non sorpresi di trovare le stesse facce, le stesse espressioni, gli stessi modi che avevamo conosciuti nelle nostre tappe di smistamento.
La stessa freddezza, la stessa rabbia nel riunirci in altri gruppi, le stesse minacce e gli stessi scherni.
Sembrava che il tempo si fosse fermato al momento in cui eravamo scesi dal piccolo camion nel primo villaggio.
Si avvicinò un uomo proponendoci di partire quella stessa notte. “Poche ore e sarete nel vostro paradiso. Poche ore e pochi soldi.”
L’uomo disse quanto ci voleva e mi resi conto con angoscia che il mio denaro non sarebbe stato sufficiente e che non avrei mai compiuto la traversata.
Mi sedetti a terra tenendo la testa tra le mani, quando sentii la carezza di Ahmed e la sua voce tornata sicura.
“Tu andrai, ragazzo, non preoccuparti. Stanotte partirai con il mio denaro. Io in qualche modo farò. Lavoro per un po’ qui in Albania e poi ti raggiungo.”
Mi impedì di ribattere. Mi consegnò il fardello dei suoi soldi e mi mise in mano un osso di dattero che portava sempre con sé come portafortuna.
“Confronto al bene che ti voglio il mio sacrificio non è più grande di questo osso di dattero. Portalo con te e non mi dimenticherai.”
Mi carezzò abbracciandomi in silenzio e poi si voltò sparendo tra la folla del porto.
Mi ritrovai di colpo solo e mi resi conto di non aver avuto neppure il tempo di ringraziarlo per il suo sacrificio e per la grande amicizia di cui mi aveva fatto dono.
Era il mio più grande amico e mi sarebbe sempre stato vicino come l’osso di dattero che mi aveva lasciato.
L’uomo del gommone mi invitò a seguirlo. Mi condusse in una baracca dove trovai altre persone, curdi, albanesi, cinesi, che dormivano per terra aspettando la sera.
Mi sdraiai in un angolo libero e mi addormentai stremato dalle emozioni delle ultime ore.

I morsi della fame mi presero allo stomaco strappandomi al sonno. Respirai profondamente per placare i crampi cercando di non pensare a quante ore mi separavano dal mio ultimo pranzo.
Mi concentrai sul viaggio della notte che speravo in cuor mio essere l’ultimo che facevo in queste condizioni.
Avevamo discusso a lungo su quello che ci aspettava al di là dell’Adriatico nelle lunghe giornate sulla nave, quando credevamo che saremmo sbarcati direttamente in Italia.
Un uomo ci spiegò che se fossimo stati individuati subito come profughi curdi avremmo avuto l’asilo politico.
Saremmo stati vestiti e rifocillati, ospitati nei centri di raccolta in attesa di partire per le nostre destinazioni.
Infine saremo stati contattati dalle organizzazioni umanitarie che ci avrebbero aiutati a raggiungere le nostre comunità del Centro Europa.
Non ci chiedevamo cosa sarebbe stato in seguito, fin troppo sconvolti ed increduli dalla sola prospettiva di arrivare in Italia.

Mi ripetevo che presto sarei stato al sicuro per prendere coraggio mentre salivo sul gommone nella mia ultima notte da profugo.
Vedevo il mare nerissimo davanti a me, increspato dalle onde che si infrangevano contro i moli del porto. Il cielo nuvoloso e gonfio di pioggia contribuiva ad aumentare la nostra tensione.
Mi sedetti sul pianale bagnato dall’acqua e mi strinsi ai profughi che mi stavano vicino. Parlavamo lingue diverse, venivamo da posti lontanissimi, ma il destino aveva voluto che ci ritrovassimo vicini nel poco spazio del gommone a condividere la traversata.
I marinai erano tre, armati. Due di loro impugnavano i mitra mentre il terzo, che governava il timone, teneva la pistola alla cintura.
Il gommone si staccò lentamente dal porto e si avviò verso l’oscurità del largo. Cominciò a piovere prima piano e poi si scatenò un temporale che ci costringeva a tenere la testa bassa e gli occhi chiusi.
Contavo mentalmente il tempo che stavamo impiegando cercando di capire quanto ancora sarebbe stato lungo il viaggio.
Le onde scuotevano l’imbarcazione e ad ogni scossone ci stringevamo più forte per darci reciprocamente coraggio. Qualcuno piangeva, altri pregavano o si lamentavano zittiti dai marinai che ci sembravano preda della nostra stessa tensione per le condizioni del mare.
Un imprecazione del timoniere precedette di qualche istante la sferzata di luce che spezzò l’oscurità.
Il gommone virò bruscamente rituffandosi nel buio, mentre la voce irreale di un altoparlante riempiva la notte dicendo frasi delle quali ignorai il senso.
“La Finanza italiana!”, urlarono i marinai.
Il guidatore accelerò distanziando la barca che ci inseguiva. Vedevamo alle nostre spalle il faro che cercava inutilmente di individuarci nel buio, mentre la voce metallica continuava incessantemente a ripetere il suo messaggio.
Quando fummo abbastanza lontani gli uomini rallentarono e minacciandoci con i mitra gridarono di buttarci in acqua.
Fummo pienamente consapevoli dell’orrore vedendo il timoniere prendere per il braccio una vecchia cinese e gettarla al di fuori della barca.
Capimmo che avevano deciso di liberarsi di noi, che era la loro unica possibilità di alleggerirsi e di fuggire. 
Non avevano scrupoli al pensiero che questo avrebbe voluto dire la nostra morte.
Furono momenti di confusione e di terrore. Il gommone scosso dalle onde sembrò più volte sul punto di ribaltarsi, via via che gli occupanti venivano gettati in mare.
Fui l’ultimo a essere spinto fuori e a nulla valse il mio tentativo disperato di difendermi. Mi colpirono con un pugno e sbilanciato caddi in mare.
Rimasi sott’acqua per alcuni minuti ed infine riemersi, cercando con la forza della disperazione di rimanere a galla pur non sapendo nuotare.
Il mio viaggio era finito, stavo per morire lì, nel mare in tempesta, impossibilitato a respirare dalle onde e dalla pioggia gelida che cadeva violenta.
Quando stavano per mancarmi le forze vidi un remo, forse caduto dal gommone, e capii che avevo ancora un’opportunità. 
Lo afferrai e ripresi fiato cercando di individuare nella notte le luci della barca italiana che si stava allontanando da noi all’inseguimento del gommone.
Infine la vidi girare e tornare indietro. Puntare il faro sulla superficie dell’acqua ed avvicinarsi a me.
Come in un sogno, incredulo di essere ancora vivo, mi sentii issare a bordo della barca e vidi il sorriso del marinaio che mi scaldava con una coperta e mi rassicurava in italiano.
Ripensai alle parole del vecchio sulla nave.
“Confida in Lui. Ti porterà a destinazione sano e salvo perché stai facendo la Sua volontà”.
Crollai nel sonno stringendo nel palmo della mano l’osso di dattero di Ahmed.
 

Epilogo



Sei anni fa sono sopravvissuto a un viaggio del quale solo oggi comprendo i folli rischi.
Allora proseguivo per inerzia, impossibilitato a voltarmi indietro nonostante tutto, drogato dal sogno di arrivare in Occidente.
Solo oggi mi rendo davvero conto che solo per miracolo mi sono salvato, che del mio gommone siamo sopravvissuti solo in due. Spesso nei sogni rivedo gli sguardi dei miei compagni di viaggio e mi sembra di sentirne ancora la stretta della mano.
So di essere stato fortunato. Oggi ho un lavoro, una casa, molti amici, mi sembrano lontanissime le notti di paura nel villaggio curdo.
Ogni mese invio del denaro alla famiglia di Massud della quale sento una grande nostalgia.

La scorsa settimana mi si è avvicinato un profugo arrivato da poco.
E’ entrato nell’officina in cui faccio il meccanico e ha chiesto ai miei compagni di indicare chi fossi.
“Sono un amico di Ahmed”, ha esordito ma dal suo tono ho capito che non sarebbe venuto solo a portarmi i suoi saluti.
Mentre ascoltavo il suo racconto la mia mano afferrò nervosamente l’osso di dattero che il mio amico mi aveva regalato e che portavo sempre con me come portafortuna.
Quando era successa la disgrazia era quasi pronto a partire, disse l’uomo, aveva lavorato duro perché non vedeva l’ora di raggiungermi.
Poi si era trovato in mezzo a una sparatoria di malavitosi albanesi, lui non c’entrava, passava di lì per caso.
“In ospedale ripeteva il tuo nome nel delirio. Ti prometteva che stava per arrivare. Diceva che eri solo un ragazzino e che avevi bisogno di lui…”
Non ho risposto. Sono uscito dall’officina e sono tornato a casa in silenzio.
Ho trascorso la notte vegliando proiettando nel soffitto le immagini del mio viaggio e rivedendo il sorriso rassicurante di Ahmed. Sentendo la sua carezza.
Poi mi sono alzato, ho preso la penna e ho cominciato a scrivere. 
 


o I racconti
inviati
a Nonluoghi

Il reportage
Viaggio
in Kurdistan
di Iole Pinto
 
 
 

(20 ottobre 2000)

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