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i racconti

Vite altrove
 

di ZENONE SOVILLA

 A mezzogiorno suona la sirena. Mario dice che era la stessa quarant’anni fa. Quando per lui cominciava la lunga stagione in fornace. Mario ha vissuto in presa diretta l’evoluzione del laterizio, l’anima delle nostre case. Come in una sfilata di moda. Dal vecchio mattone, piccolo rettangolare e massiccio, ai più complicati cubi giganti termogarantiti e supertraspiranti di oggi. Fino al ritorno del mattoncino in forma di sua imitazione termogarantita e supertraspirante. Come nella moda, il passato torna sempre.
    Quelli come Mario no, non tornano. Ha il volto rosso e segnato da un’infinità di piccoli crateri. Sembra la luna. Il naso non fa eccezione e anzi celebra il rossore intenso. Chissà quanto beve Mario. Vino. Vino rosso d’inverno, bianco d’estate. Quando siamo in mensa, come adesso, a volte lo osservo riempirsi grandi bicchieri di vetro spesso un dito e poi portarsi il resto della bottiglia giù, al nastro dove appende a un chiodo la giacca blu sgualcita e impolverata e mette insieme pile di mattoni da spedire chissà dove per le case di chissà chi o per l’auditorium di qualche sindaco che costruisce “con il contributo finanziario rilevante di aziende private”. E Mario ridendo dietro il naso rosso mi dice ogni volta: “Padroni di buon cuore… Ah! Tanto alla fine fregano sempre noi: pagare più in tasse o prezzi più alti, che differenza fa?”.

   D’estate, al nastro si muore di caldo; cubi incandescenti appena sfornati vanno impacchettati al più presto, siamo nella stagione dell’edilizia, si gira a pieno ritmo. D’inverno, là fuori si muore di freddo ma quelli come Mario, temprati dal tempo e dal vino, si coprono poco e non usano i guanti. Le loro mani hanno come una seconda pelle; guanti naturali. Mario ha sessant’anni; altri come lui sono morti prima. Cancro, cirrosi epatica, infarto. In quindici anni ne ho visti parecchi sparire. La polvere, il fumo, il vino, il freddo, la noia. Quando suona la sirena loro non sono più qui. Non vengono in mensa con la Nazionale che pende da un angolo della bocca. Non tornano al nastro con una bottiglia da due soldi, tappo corona, sottobraccio.

   Una volta era così, non pensavano tanto alla salute. O forse se ci avessero pensato sarebbero morti prima, di disperazione. Se a quelle giornate di merda avessero dovuto togliere anche il vino e il fumo per vivere con la paura di morire…
Non pensarci era l’unico modo per sopravvivere almeno un po’ a un piccolo mondo così, fatto di mattoni, sigarette e vino. Sesso, chissà. Forse sì; a parole almeno c’era eccome. “Ieri sera ho dato una bottarella alla parona”. “Oggi poco vino che stasera ho da fare con la signora; si festeggia ma un sora quelaltro, uno sopra l'altro”. “Però, la cameriera nova! Chissà se le piace il...  se ghe piase al me mattonzin…”. Sex&drugs& rock’n’roll, prima di morire. 

    Io no, non ci riesco. Quando si alza troppo la polvere mi metto una mascherina bianca che il sindacato ci ha fatto dare dopo un anno di bestemmie. Ogni tanto innaffio il nastro per migliorare il nostro clima. In mensa bevo acqua minerale o al massimo un po’ di birra d’estate quando i mattoni mi bruciano in gola. Non fumo e appena torno a casa, alle 5, monto sulla bicicletta e mi faccio un’ora nel bosco sopra casa; estate inverno vento pioggia: non cambia. Mia moglie lo capisce. Sa anche che le mie non sono paranoie. Vorrebbe vedermi cambiare lavoro ma io sono cresciuto alla fornace. Che questa non è una buona ragione per morirci, però, lo so anch’io. In fornace sono finito perché ci lavorava mio padre e perché la scuola non mi è mai piaciuta. Anzi, smise di piacermi il giorno che la maestra mi dette uno scapaccione sulla nuca dicendomi che non capivo niente, perché avevo raccontato che a casa mia c’era un gallo che saltava addosso a tutte le galline, una specie di Rocco Siffredi del pollaio. “Tu e quelli come te non capite niente della vita”, mi dissi quel giorno guardandole le mani. E poi continuai a ripetermelo.

  La domenica io e Lisa, mia moglie, andiamo spesso in montagna. Per i miei quarant’anni me la cavo bene. In montagna si parla e si legge. Una volta ci fermammo a metà strada fra il passo Duran e il Monte Pelmo, una quiete immensa, sulle Dolomiti, vicino casa, e mi lessi un’intero romanzo di Moravia. Non ricordo più quale ma so che mi sembrò pieno di inutili elucubrazioni. Eppure questo Moravia mi avevano detto che è un grande. C’è una canzone di Bertoli in cui dice “masturbazioni cerebrali” e a me piace canticchiarla ogni tanto; mi tornò in mente anche quel giorno. Bertoli è un compagno. Mio padre era socialista. Non di quelli di Craxi. Alla fine votava Pci per disperazione e io come lui. Poi tutto è finito e non so più che cosa votare. In fornace di politica non si parla, fuori nemmeno. Un anno votai Lega Nord perché gli altri mi sembravano tutti una banda di ladri e anche maldestri. Ma sono tutti uguali. Saremo noi italiani… O la globalizzazione che dicono.
  Veramente mi piacerebbe parlare di politica ma a Lisa non interessa più di tanto, almeno finché in fabbrica, come dice lei, tutto va bene. Lei fa occhiali, è contenta e ora vuole un bambino. Io non sono tanto contento ma voglio un bambino lo stesso. Ci proveremo. Così non sarò un padre troppo vecchio per lui; anzi, per lei, dato che preferirei una bambina. Ogni tanto mi chiedo che tipo di papà sarò. Ma se ci penso mi viene in mente soltanto un’immagine: sto andando in bicicletta con il bimbo dietro sul seggiolino che ride mentre il rumore dei sassi sotto le ruote ci accompagna nel bosco.

   Mi capita anche di chiedermi che tipo di uomo sono. A volte mi domando di me che cosa pensino gli altri, quelli della fornace, i miei amici. Ma più o meno so che loro pensano bene. In fondo un po’ mi conoscono. Sanno che penso, leggo, parlo, rido, do una mano quando serve. Mi preoccupa di più l’idea di chi non mi conosce. Che cosa penseranno gli estranei di me? Di uno che lavora in fornace. Quando mi viene in mente mi sento rimpicciolire. Penso a ciò che sono io nelle statistiche o agli occhi di un professore dell’università. Penso a mio figlio, a quel che diranno i suoi compagni di scuola. Penso al mio medico di base che mi tratta sempre come un bambino però forse lui Moravia non l’ha neanche letto. 
Poi non ci penso più, perché siamo tutti uguali. 
   Però vallo a dire a quelli che sono morti in fornace che siamo tutti uguali. Le mogli che sono rimaste sole e i colleghi che sono ancora vivi per caso non ci pensano tanto. Lo sanno tutti che quelle morti sono nate lì, nella polvere della fornace e nel vino sporco della mensa; ma quel pensiero non va mai messo a fuoco. Tanto, non servirebbe. Diventerebbe troppo pesante, forse insopportabile.
 Io ci penso spesso. Vorrei parlarne di più. Un giorno dissi due parole a Mario. “Menagramo”, mi rispose toccandosi lì, “Hai visto l’Inter ieri sera?”. 
Suona la sirena.


o Zenone Sovilla (Belluno, 1964), giornalista, 
è il coordinatore
di Nonluoghi.

(28 agosto 2000)

I racconti
per una
letteratura
civile
 
 
 
 
 

 

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