I fatti e le idee fra emergenza e utopia... |
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ECUADOR,
UN SOGNO DI GIUSTIZIA CHE VIVE
Interviste con il sociologo Saltos del Coordinamento dei movimenti sociali e con il pacifista Jiménez |
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__________________________________di Luca Gazzola______________ Napoleón
Saltos è sociologo, insegna Teoria Politica all'Università
Centrale di Quito e dirige la Fondazione di Ricerca e Promozione Sociale
'José Peralta' che svolge un importante lavoro di ricerca e analisi
sociale in Ecuador, con l'obiettivo di accompagnare e consolidare il protagonismo
dei movimenti sociali.
Parliamo di come nasce la CMS, delle principali fasi che ha attraversa-to dalla sua nascita ad oggi, della sua crescita quantitativa e qualitativa, di quali sono i movimenti e gli attori sociali che alimentano questa esperienza. La
'Coordinadora de los Movimientos Sociales' è nata nel 1995. Dalla
nascita del Coordinamento ad oggi distinguerei due fasi. Nel primo periodo,
fino al 1999 circa, le forze fondamentali sono state soprattutto quelle
del nuovo sindacalismo pubblico del settore energetico e dei settori 'strategici'
del paese. Negli ultimi due anni, dal 1999, c'è stata una nuova
affluenza di ampi settori non necessa-riamente legati alla produzione.
Sono entrati gruppi impegnati sui diritti umani, organizzazioni giovanili,
settori informali, il movimento delle donne, i nuovi mo-vimenti sociali
dell'ecologismo, le comunità ecclesiali di base che hanno un ruolo
importante nel paese. Sono quelli che noi chiamiamo gli 'esclusi' e che
rappre-sentano le tensioni più varie provenienti dalla società
civile. Questo ha dato una nuova impronta al movimento, si è assistito
ad una specie di complementazione tra realtà molto diverse, che
ha dato al Coordinamento un ruolo e delle caratte-ristiche nuove: direi
che è diventato sempre più la voce dei settori esclusi, un
'movimento in movimento' che prende forma strada facendo, senza una struttu-ra
istituzionalizzata e rigida ma capace di organizzarsi in 'caliente', nella
mobili-tazione. Ciò che cerchiamo di realizzare è che ogni
organizzazione sociale (at-tualmente sono ventisette organizzazioni a carattere
nazionale vincolate alla CMS) a partire dalla propria storia e identità
possa approdare a obiettivi comuni. Rispettando l'identità di ogni
settore che fa parte del Coordinamento parliamo dell'unità nella
diversità, uniamo il sociale con il politico, lavoriamo a partire
da una nostra proposta per il paese. Il nostro intento è sia quello
di essere forza di mobilitazione e pressione, sia di elaborare delle proposte
concrete. Neghiamo e ci opponiamo all'oppressione ma, nella mobilitazione,
cerchiamo di costruire il nuovo mondo che vogliamo, e questo implica un
grande lavoro teorico e politi-co.
Lo scorso aprile avete dato vita ad un Congresso della CMS, il primo dopo il grande 'levantamiento' del gennaio 2000. Avete posto una grande attenzione all'elaborazione di una vostra proposta di cambiamento profondo, di un programma per il paese. Il
Congresso è stato il confluire di un lungo processo di consulte
generali perché crediamo che solo dalla partecipazione della gente
possa nascere un program-ma di trasformazione profonda. Per noi la fase
storica attuale è un momento che ci impegna oltre l'aspetto 'programmatico',
non si tratta di una riforma ma di una sfida di civiltà. I decenni
passati sono stati, in Ecuador e in America Lati-na, quelli delle 'crisi':
la crisi del debito, quella economica, quella finanziaria ... sembra una
parola tanto semplice ... per noi significa fame, insicurezza sociale,
epidemie, analfabetizzazione ... Ci sono stati grandi piani, gli aggiustamenti,
le 'ricette' degli organismi internazionali, le privatizzazioni, è
stata applicata la dol-larizzazione e molte altre misure. Ma la crisi non
è risolta, l'economia non ripar-te, non c'è produzione, la
crisi sociale continua e i livelli di povertà sono molto alti. Nel
paese l'82 % delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e il
37 % sotto quella di indigenza [rispettivamente 170$ e 30$ mensili - ndt].
Questa è la si-tuazione. Il nostro è un programma non solo
contro il pensiero neoliberista, ma anche contro il sistema capitalistico:
crediamo che c'è il bisogno di costruire un nuovo sistema di società
e un nuovo senso dell'umanità. Alla domanda 'che pa-ese vogliamo?'
che ci siamo posti attraverso le consulte la gente ha risposto 'vogliamo
un paese che garantisca vita con dignità per tutti e tutte'. Questa
è la nostra definizione, può sembrare una definizione semplice,
ma che cosa implica per noi ? Implica i diritti di avere la dignità
umana, in quanto persona, e le con-dizioni per questa dignità: pane,
lavoro, salute, educazione, sicurezza sociale. A partire da questi concetti
abbiamo elaborato un programma di trasformazione ma che per noi è
anche di transizione perché crediamo che il cammino si co-struisce
camminando: più che individuare i grandi obiettivi ci concentriamo
sull'apertura di questo cammino. Per noi rappresenta un programma di utopia
realizzabile. L'utopia apre orizzonti ma deve essere realizzabile perché
la nostra gente non crede solo nel discorso. Quindi, insieme all'aprire
il cammino e alla rottura delle logiche di dominio, dobbiamo anche realizzare
e costruire, vedere risultati nella lotta quotidiana che porta avanti ogni
nostra organizzazione.
Parlaci di alcuni dei punti essenziali che caratterizzano il vostro programma, da dove comincia l'utopia realizzabile... Parliamo
di una nuova economia: lottare contro il neoliberismo, ma anche costruire
una società economica nuova e, a grandi linee, noi diciamo che bisogna
passare da una società dominata dal capitale speculativo e finanziario
ad una società orientata alla produzione e al lavoro. Orientare
alla produzione implica una alleanza ampia con tutti i settori produttivi,
perché essa ci permette di riorientare a fondo l'economia. Insieme
a molti altri aspetti, comprese alcune forme di riproduzione del capitale.
Nel caso dell'Ecuador ci sono preziose esperienze di forme produttive comunitarie,
solidali, e in questo modo prospettiamo una combinazione di forme avanzate
di capitalismo, sotto il controllo sociale, e forme nuove di produzione,
in particolare comunitarie, non solo nel settore rurale e indigeno ma anche
nella realtà urbana. Proponiamo un cambio sostanziale rispetto al
ruolo della statualità, crediamo che debba agire ma non siamo per
una tesi 'statalista'. Crediamo nella necessità del controllo del
mercato attraverso un forte ruolo della società civile. Questa economia
non la vediamo isolata dal con-testo internazionale: alla discontinuità
rispetto alla situazione attuale e alla con-solidazione di questa nuova
realtà economica, devono seguire delle alleanze re-gionali, in particolare
dell'area andina-bolivariana, per creare le condizioni che ci permettano
di dare basi solide a questi cambiamenti.
Mi sembra che il cambiamento che prospettate richiami direttamente al confronto la 'visione del mondo' occidentale che è penetrata un po' ovunque. Se
guardiamo alle ragioni più profonde del nostro programma, queste
non riguardano tanto l'economia o la politica, bensì che questi
aspetti della vita pubblica siano orientati allo sviluppo della persona
umana: obiettivi come salute, reddito e piena occupazione, educazione di
qualità, per tutti e tutte, devono es-sere la ragione dell'organizzazione
della società. Così anche se pensiamo ad altri temi chiave,
come per esempio ai diritti ambientali e al ruolo che il nostro paese ha
nella sicurezza ambientale e biologica mondiale. Fino ad ora abbiamo subito
decenni di politiche aggressive che si sono affermate nella nostra regione
sul piano economico e militare e che, negli ultimi tempi, hanno preso il
nome di Plan Colombia e ALCA [Accordo di Libero Commercio per le Americhe].
Per que-sto pensiamo che, per quanto sia un paese piccolo, l'Ecuador che
vogliamo co-struire possa dare un contributo ad un riordino mondiale, ad
una politica di pace mediante un ordine universale democratico, alla costruzione
di una cittadinanza universale. Siamo per la democratizzazione degli organismi
internazionali, a co-minciare dall'ONU. E siamo con chi si batte contro
questo tipo di globalizzazione capitalista, in nome del riscatto della
globalizzazione della speranza.
Negli ultimi dieci anni è cresciuta l'interazione tra la CMS e il movimento della Conaie, avete sperimentato sempre più delle forme di a-zione ed espressione unitaria, fino al movimento elettorale 'Pachaku-tik-Nuevo Pais'. Quale valore e senso dai a questa alleanza? Pensiamo
che la strada per la costruzione di un potere popolare e quella della lotta
per la direzione del paese siano due cose che stanno insieme. Bisogna co-struire
il potere dal basso, dal locale, in ogni organizzazione: ogni organizzazio-ne,
per piccola che sia, deve saper rispondere alle domande locali cosciente
di quelle che sono le domande globali. Questo è un aspetto che consideriamo
sempre più urgente perchè siamo coscienti di come una piccola
organizzazione di quartiere o di indigeni possa opporsi direttamente al
potere mondiale. É un confronto di visione del mondo, di civiltà.
Quindi la base della nostra azione è il potere popolare, che non
è tanto un potere politico nel senso classico ma la ca-pacità
organizzativa che viene dalla gente, di proposta, di elaborare soluzioni
al-ternative, di costruire basi di potere economico con forme alternative
di produ-zione, di trovare forme nuove di comunicazione e informazione.
A partire da questa base, quello che abbiamo costruito nell'ultimo decennio
è stato possibile, nel caso Ecuadoriano, per la presenza del movimento
indigeno e la sua alleanza con i settori sociali. Questa alleanza si è
dimostrata strategica e ha permesso di concretizzare la costruzione di
un potere popolare di questo tipo. La forza di re-sistenza che deriva dall'unità
dei movimenti indigeni con i movimenti sociali ha messo in scacco e fermato
in certi punti l'applicazione del disegno neoliberista in Ecuador. Negli
altri paesi dell'America Latina, durante gli anni '80 i movimenti sindacali
furono ampiamente sconfitti e non ci fu grande resistenza all'applicazione
dei nuovi programmi macro-economici dettati dagli organismi in-ternazionali.
Nel caso dell'Ecuador, la presenza del sindacalismo e del movimen-to indigeno
hanno permesso di resistere al progetto neoliberale, impedendone l'applicazione
di alcuni suoi aspetti importanti.
Quali sono state le principali tappe di questo percorso comune dei mo-vimenti sociali con il movimento indigeno? É
stata la forza del movimento indigeno che ha risvegliato gli altri movimenti
so-ciali, non indigeni. L'unità c'è stata nel 1990. Nel 1995
nasce la CMS. Insieme abbiamo vinto il referendum sulle privatizzazioni:
il governo aveva promosso un plebiscito di propaganda in cui chiedeva al
paese l'approvazione per un piano di privatizzazione delle risorse e di
flessibilizzazione del lavoro, due pilastri del pro-getto neoliberale.
Tutti sostenevano questa prospettiva politica del governo: i mezzi di comunicazione,
la chiesa, tutti i partiti ... compresi i sondaggi che un mese prima dicevano
che l'Ecuador sarebbe stato il primo paese in cui il neoli-beralismo si
sarebbe affermato con un referendum! I movimenti sociali insieme alla Conaie
dissero 'no', e imparammo a lottare attraverso i mezzi di comunica-zione,
a ricercare risorse, spazi ... un mese prima del voto i sondaggi dicevano
che il 70% della gente era a favore del governo e un 30% dei movimenti.
Ab-biamo fatto una campagna spettacolare, porta a porta, senza mezzi, la
gente uscì e si mobilitò con noi e in un mese siamo riusciti
a cambiare i pronostici, vin-cendo il referendum.
La vostra forza cresce costantemente, fino al levantamiento del 21 gennaio 2000... Il
21 di gennaio è per noi uno dei momenti chiave perché diventa
evidente a tutti, attraverso la bancarotta del sistema bancario e finanziario,
la totale inca-pacità dei gruppi dominanti di governare nell'interesse
del paese. Sono saltati tutti i meccanismi bancari e finanziari, si apre
una crisi economica molto forte, l'economia del paese cade a picco con
percentuali molto più impattanti di quel 7% di cui parlano i dati
ufficiali. Il 21 gennaio 2000 è l'apice della crisi economi-ca prolungatasi
durante tutto il 1999. Ma bisognerebbe andare ancora un pò più
indietro, al 1994, quando viene approvata una legge sul sistema finanziario
to-talmente neoliberale, dove vengono meno i controlli centrali delle autorità
mo-netarie e dello Stato. É in questo settore che le politiche neoliberali
sono riuscite a penetrare. Nasce la libertà finanziaria. Si moltiplicano
il numero delle banche e delle pratiche off-shore, con fughe di capitali.
Vengono eliminati i meccanismi di controllo, le banche potevano fare quello
che volevano. Da strumenti di rispar-mio per l'investimento, diventano
meccanismi di risparmio per la loro propria crescita. Questo fino al 1998,
quando i nodi vengono al pettine ed esplode la crisi bancaria, dentro ad
una serie di fenomeni internazionali (crisi asiatica, ef-fetto vodka della
crisi russa, questione del petrolio). Il Governo di Mahuad salva il sistema
bancario assumendo i debiti: il salvataggio del sistema bancario priva-to
viene assunto dal paese, dalla collettività. In due anni hanno regalato
un an-no e mezzo del PIL dell'Ecuador alle banche... L'economia cade a
picco, una ca-duta totale, con conseguente instabilità nel paese:
la crisi non è solo economica ma anche politica e all'ordine del
giorno si pone la questione 'chi dirige il paese'?
In questo quadro voi avete sviluppato una strategia che chiamate in-surrezionale. Cosa significa? Bisogna
riconoscere che in Ecuador non ci sono tradizioni, come accade nel no-stro
vicino paese, la Colombia, di una lotta armata o violenta. L'Ecuador, non
negli ultimi anni ma durante tutto il secolo scorso, si è caratterizzato
per forme di lotta come i 'levantamientos' indigeni e popolari, le sollevazioni,
le insurrezio-ni. Questa è stata la tendenza: all'inizio del secolo,
nel 1925, nel 1944 'La Gloriosa de Mayo', per citare alcune di queste rivolte.
É una forma di rivolta di mas-sa e pacifica, basata sull'alleanza
tra le diverse nazionalità indigene e i settori sociali. Nel caso
del 21 gennaio c'è stata una partecipazione dei colonnelli e dei
capitani dell'esercito. Abbiamo utilizzato i meccanismi e le risorse di
una insurrezione, cioè la creazione di un teatro insurrezionale.
In un tempo di globalizza-zione e in un paese tanto piccolo come il nostro,
credere e parlare di un cam-biamento profondo può apparire un'utopia
o un'avventura. Però, il 21 gennaio ha dimostrato che nei momenti
di crisi è possibile isolare fattori di potere. In termini sportivi
possiamo parlare di fuorigioco. Quindi diciamo: nei momenti di crisi ci
sono le condizioni perché settori di potere perdano la loro forza.
Parlaci di come si sono sviluppate le dinamiche in quei giorni. Il
centro della ribellione è stata Quito, la capitale. Era stato attivato
un accer-chiamento militare della città e gli indigeni riuscirono
a penetrare pacificamente con una grande marcia, penetrando fino al cuore
del potere, al Palazzo di Giu-stizia. Il 9 gennaio si installò il
Parlamento dei popoli dell'Ecuador, una specie di potere duale, con delegati
di ogni provincia, dipartimento e dei vari settori so-ciali, che assumevano
la capacità di decidere e decretare. Al potere costituito questo
appariva come una specie di gioco e non lo prendevano sul serio. Il no-stro
accerchiamento ai simboli del potere andava però crescendo e diventò
da simbolico a fisico. Fino all'impedimento per i partiti politici, partiti
basicamente elettorali, di non potersi riunire. Nel momento in cui non
potevano riunirsi erano fuorigioco, non potevano decidere. E così
è successo per il Palazzo di Giustizia, e per i giudici. Questo
è quello che chiamiamo l'isolamento di fattori di potere e creazione
di un teatro insurrezionale. Non ci sono regole per fare questo, si gio-cano
sul campo. L'esecutivo, delegittimato, non fu in grado di reagire e si
è ve-nuto a creare un momento in cui in questo teatro i fattori
di decisione erano la mobilitazione indigena e sociale e quello che avrebbero
potuto fare i militari, le loro reazioni. Nel dialogo tra queste forze
stava il destino di quello che sarebbe successo nel paese. C'erano due
possibilità: la prima, creare un dialogo con le gerarchie militari,
con il comando supremo, compromesso però con l'ambasciata statunitense
e con il potere costituito e questo vacillò nelle sue decisioni.
La se-conda, che è prevalsa, creare delle relazioni con i quadri
bassi e intermedi dell'esercito, le componenti meno compromesse. Il parlamento
dei popoli nomi-nò una giunta di salvezza nazionale, formata da
un rappresentante militare, un rappresentante indigeno e un rappresentante
della società civile. Il resto lo sa-pete ... emerge l'attuale Presidente
Noboa come espressione di un populismo equilibrista tra le diverse tentazioni
dei grandi gruppi dominanti ...
Il 21 gennaio dimostra dunque tutta la vostra forza: destituite un pre-sidente e vincete la sfida di assumervi la responsabilità della direzione del paese. Ma è emersa anche tutta la vostra fragilità. Cosa vi ha inse-gnato e quali valutazioni avete fatto? Sono
molte le valutazioni che facciamo. Abbiamo creato un terreno insurrezionale,
che ha raggiunto il suo obiettivo, ma non siamo riusciti a con-solidarlo
per errori strategici. Costituita la giunta di salvezza nazionale si è
aperta una negoziazione e invece di consolidare le conquiste già
ottenute abbiamo iniziato a negoziare, vale a dire a compartire il potere.
Altro problema c'è stato sul piano della comunicazione: c'era un
forte appoggio concreto nel paese a questo cambiamento, però la
televisione che non era nel nostro controllo, è riuscita dare una
percezione totalmente opposta. Altri errori ci sono stati nei limiti geografici:
la rivolta si è concentrata soprattutto nella capitale e, malgrado
l'appoggio di alcune province, sono mancati gli elementi per una azione
congiunta ed estesa. Dopo il 21 gennaio una delle nostre domande è
non solo quella di come rivoltare una situazione di potere a nostro favore
ma anche di come esercitarlo e mantenerlo in condizioni molto difficili.
Cosa è successo in questi due anni di governo Noboa sul piano dei rapporti tra potere costituito e movimenti indigeni e sociali? Quando
nel paese si rivela l'esistenza di una forza in grado di affrontare diret-tamente
un sistema di potere, essa viene affrontata altrettanto direttamente da
quel potere. A partire dal 2000 l'alleanza tra militari, Conaie e CMS è
stata du-ramente attaccata. L'obiettivo centrale di questa controffensiva
è stata quella di rompere l'alleanza tra le comunità indigene
e i movimenti sociali, e di spaccare al loro interno le varie organizzazioni.
La nostra era una azione pacifica, di mas-sa, pubblica e trasparente: non
abbiamo cospirato, ma annunciato via via i passi che avremmo fatto, alla
luce del sole. Per loro non è stato difficile: iniziarono gli attacchi
alla CMS, alla Conaie e ai loro dirigenti, cercando di rompere l'alleanza
strategica. Le forme di penetrazione sono state varie, dal discredito dei
dirigenti all'offerta di posti e favori clientelari, favorendo divisioni
in questioni locali per impedire una visione nazionale. É molto
difficile lottare per degli interessi gene-rali, sostenere una coscienza
dei settori sociali perché non vedano solo i loro in-teressi immediati
e settoriali. Se non c'è questa visione generale si rischia di ar-rivare
ad un indigenismo etnicista da un lato e ad una specie di razzismo dall'altro.
Per i movimenti è stato un periodo difficile, di riflessione, di
discussio-ne. Stiamo attraversando una tappa di ridefinizione. Credo che
questa fase ter-minerà presto, per il solo fatto che ci obbliga
a fare un salto strategico. per la CMS la fase difensiva si è conclusa
nel congresso dell'aprile scorso; e così per la Conaie nel congresso
delle scorse settimane. Stiamo passando ad una nuova fa-se, perché
se il 21 gennaio è stato un grande momento di affermazione, è
stato anche un momento in cui si è esaurito una fase costruita negli
anni precedenti. Per noi dunque il 21 gennaio deve insegnarci a raggiungere
nuove tappe, sul piano teorico e pratico, che implica lotte nei punti nodali
del dominio e che si concreta molto di più quando non si tratta
solo di lotte nazionali ma regionali.
Veniamo alle questioni regionali e alla politica statunitense nell'area. Quali segnali intravedi e quali sono le vostre prospettive? Direi
che qui non esiste solo il potere nazionale, ma anche un potere extra-nazionale,
quello statunitense che in America Latina continua ad essere molto forte
... Sul piano interno la credibilità di Noboa è scesa molto
negli ultimi mesi. In particolare una spada di damocle che pende sul governo
è la questione del sistema bancario, che non è ancora risolta
e lascia aperta la crisi economica e politica. Bisogna riconoscere che
il problema è di tutta la regione andina, non solo dell'Ecuador.
Le lotte, che negli anni '80 erano concentrate soprattutto nell'america
centrale, si sono spostate in questa area. Chavez in Venezuela, le guerriglie
e la società civile in Colombia, le lotte indigene e dei movimenti
in E-cuador, ma anche in Perù e in Bolivia ... la regione andina
è diventata la zona rossa che preoccupa l'impero. Quindi si è
sviluppata una politica regionale, a cominciare dal Plan Colombia, che
di fatto è un piano regionale di contenimento bellico che non riguarda
solo il processo colombiano. Gli Stati Uniti considerano l'America Latina
come il proprio cortile di casa e stanno attuando una politica molto diretta.
Non si possono permettere il prolioferare di situazioni come quella del
21 gennaio in Ecuador.
Infine un'ultima questione, che sembre essere sempre nell'occhio del mirino, quella del petrolio ... Possiamo
dire che in Ecuador il petrolio è una risorsa fondamentale, rappresen-ta
il 42 % della ricchezza nazionale prodotta, circa il 20 % dell'esportazione
to-tale. Dipendiamo da quello che succede con il petrolio. L'estrazione
[500.000 barili al giorno] è controllata per un 65-70% dalla Petroecuador,
che è un'impresa statale, e il restante 35-40% da imprese private.
Gli sforzi delle im-prese private sono sempre più orientati alle
strategie per prendere controllo di-retto del 65 % del settore statale.
Secondo la Costituzione non avrebbero la possibilità di acquisire
un controllo diretto, perché la Costituzione dice che le ri-sorse
naturali sono di proprietà dello Stato. Allora la strategia è
stata quella di aggirare questa disposizione e negli ultimi dieci anni
le grandi compagnie petro-lifere, per garantirsi il controllo della produzione
petrolifera, si sono concentrate sull'ottenere la concessione per la costruzione
di un nuovo oleodotto, che rap-presenta un controllo indiretto, il chiavistello
che permette di decidere su tutto l'oro nero che viene estratto nel paese.
Se controlli una strada strategica, o un porto, e decidi di chiudere, non
passa niente. É nata così una grande lotta, la stessa CMS
nasce nella azione degli 'encadenados', di resistenza e disobbedien-za
contro la costruzione di questo impianto e questa politica. Quest'anno,
mal-grado questi 10 anni di resistenza, le multinazionali hanno vinto una
battaglia, facendo approvare la costruzione dell'OCP. Adesso bisognerà
vedere se riusci-ranno a costruirlo ... Cinque compagnie, compresa la AGIP
Italiana. Non è solo un problema energetico, c'è anche un
grande problema ambientale. L'oleodotto dovrebbe passare per zone molto
delicate da un punto di vista dell'equilibrio bio-ecologico, oltre che
per zone urbane. Questo è un primo aspetto del pro-blema.
INTERVISTA
CON GUALDEMAR JIMÉNEZ
Presentaci il gruppo, quando nasce, come si forma. Sono
Gualdemar, tra i fondatori del Gruppo Obiettori di Coscienza. Il gruppo
na-sce nel 1994, dentro ad un processo prevalentemente di opposizione al
servizio militare obbligatorio e alla logica-mentalità militarista
che in Ecuador è sempre stata forte. Il Servizio Paz y Justicia
ci da appoggio nella capitale, ma lavoriamo nelle province in maniera autonoma
con i gruppi giovanili, diffondendo le tema-tiche e lanciare la proposta.
Parlare di antimilitarismo nel paese non è mai stato facile, sei
considerato contro la Patria. Nel 1997 riuscimmo a far includere nella
nuova Costituzione del paese il diritto per tutti i giovani di praticare
l'obiezione di coscienza al servizio militare. Da quel momento è
iniziata una nuova fase per il nostro gruppo, abbiamo cominciato a rilanciare
con più forza le nostre idee e ad associarle a rivendicazione di
altri diritti: pace, rivendicazioni sociali, diritti giovanili, di una
società differente ....
Qual'è la situazione legale, lo status giuridico degli obiettori di coscienza? É
stato inserito il diritto nella costituzione ma non è stata fatta
nessuna legge per applicare questo diritto, che non può essere esercitato.
Chi pratica l'obiezione di coscienza è soggetto a tutta una serie
di sanzioni e restrizioni: non si può uscire dal paese, non si può
lavorare perchè non si ha il congedo, o stu-diare nelle scuole pubbliche.
Devi considerare che parlare di obiezione di co-scienza è molto
difficile e anche contradditorio. La gente che va a fare il servizio militare
proviene in particolare dalle zone rurali e povere, con pochi soldi e per
loro entrare in una caserma significa un reddito minimo, pasti sicuri,
un tetto, formazione. Per molti giovani è appetitoso dare un anno
della propria vita pur di uscire da una situazione di miseria. Esiste poi
un'altra opzione al servizio milita-re, senza per forza praticare l'obiezione
di coscienza: pagando una multa di 25 dollari si ottiene la carta di congedo
e si hanno tutti i diritti. Venticinque dollari sembrerebbero pochi, ma
se consideri una famiglia indigena che vive con 50 dollari al mese, sono
molti, significa privarsi del cibo. É meglio che il figlio vada
in caserma, perchè le condizioni migliorano per lui e per tutta
la famiglia. Quello che manca è un servizio civile alternativo.
Se ti dichiari obiettore rimani a casa, ma ci rimani proprio, finché
non paghi la multa o vai a fare il servizio militare. Non siamo molti obiettori,
perchè è una lotta molto simbolica.
Quali azioni e attività proponete? Proponiamo
azioni dirette nonviolente, come manifestazioni, presidi, ... ma an-che
graffiti, cartelloni, laboratori di discussione nell'università,
incontri con altri gruppi giovanili e altre organizzazioni. Ci sintonizziamo
su questi temi, per co-struire una rete.
Fate parte della CMS? No,
direttamente non ne facciamo parte, non siamo militanti della CMS. Però
in molte iniziative e azioni appoggiamo e partecipiamo.
Qual'è il vostro rapporto con le organizzazioni indigene e con la Conaie? Di
fatto abbiamo sempre appoggiato le mobilitazioni indigene, partecipando
co-me potevamo. Il movimento indigeno conosce il nostro gruppo e i nostri
temi. Bisogna capire il movimento indigeno, che ha le sue proposte politiche,
le sue visioni del futuro, le sue logiche. É importante conoscerci.
L'antimilitarismo è un punto di unione con il movimento indigeno,
perchè le loro forme di lotta sono nonviolente per definizione.
Ci sono legami e un lavoro comune sui temi della pace e dell'antimilitarismo.
Nelle loro lotte e proteste noi collaboriamo con loro soprattutto qui a
Quito, perchè sappiamo come muoverci nella città, e li aiutia-mo
spesso nelle manifestazioni da un punto di vista pratico e organizzativo.
Tre anni fa abbiamo cominciato la campagna contro l'installazione delle
basi militari statunitensi in Ecuador e in tutta l'America Latina. Il primo
gruppo cominciò con la base militare di Manta. E in quell'occasione
abbiamo lavorato molto insieme al movimento indigeno, i primi ad iniziare
questa campagna sono stati loro.
Parliamo della situazione dell'esercito in Ecuador: il 21 gennaio 2000 una parte si è schierata con il levantamiento, un'altra parte è rimasta nelle posizioni di potere tradizionale... Dentro
all'esercito ci sono due componenti forti: una parte è di destra,
la parte più militarista e conservatrice; un'altra parte possiamo
definirla più 'progressi-sta'. La marina fa parte del primo gruppo,
legato ai gruppi borghesi della costa. La parte dell'esercito della sierra
è più popolare e più vicino alle comunità,
han-no una logica più sociale. Tuttavia, che ci sia una parte dell'esercito,
minoritaria, che abbracci e solidarizzi con un levantamiento indigeno e
popolare, non toglie niente al fatto che il ruolo che hanno sempre avuto
e hanno tuttora le forze ar-mate sia quello del controllo. É difficile
cercare nell'esercito, ed è un errore che molti movimenti fanno,
un potenziale alleato delle lotte sociali.
Il 12 novembre 1999 è stato firmato l'accordo per l'installazione della base militare statunitense a Manta. Quali sono state le vostre azioni? Inizialmente
abbiamo lavorato sul piano giuridico, a tutti i livelli, per impedire che
si installasse questa base. Ma era una lotta impossibile. Da questa consape-volezza
sono iniziate le azioni dirette, violando il recinto della base, facendo
ma-nifestazioni e concerti per dire 'llucshi', che è una parola
indigena che significa 'fuori' ... questo ha fatto sì che a livello
sociale sia cominciato un dibattito e una riflessione sulla presenza militare
degli Stati Uniti in Ecuador .. uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare
è la situazione sociale facilmente penetrabile da questi progetti
di installazione di basi militari: in una zona povera come quella di Manta,
dove non c'è lavoro, l'arrivo di una base significa lavoro ben pagato,
cre-azione di piccole scuole, parchi, commercio ... cose che la gente non
aveva ... anche se poi arrivano altre cose che la gente non conosceva,
come le droghe, la prostituzione, ...
Perchè proprio a Manta? Quali sono le strategie militari statunitensi? Manta,
geograficamente, è un luogo strategico. La strategia USA è
quella di creare un triangolo di basi militari attorno alla Colombia. Una
è qui, una nel Ca-ribe, una in Putomayo. É un triangolo di
controllo della Colombia. La lotta al narcotraffico è una bugia,
perchè gli USA sono il paese in cui più si consuma droga
... e non fanno le fumigazioni ne a Washington ne a New York, le fanno
in Colombia. Quello che veramente vogliono è radicarsi in questa
regione, dove sono forti i processi di insurrezione. Il movimento indigeno
e i movimenti sociali in Ecuador sono riusciti a fermare piani e politiche
neoliberiste che non sono stati fermati in altri paesi, come in Brasile,
dove ci sono pure dei movimenti mol-to forti. Siamo in una lotta costante
contro le privatizzazioni. Non sono riusciti a fermarci in nessun modo,
e una presenza anche militare è fondamentale per gli USA., per un
controllo maggiore. Inoltre Manta è una zona di commercio molto
grande e importante, è zona di porto, che è un nodo strategico
per l'implementazione dell'ALCA. Un controllo militare nella regione va
insieme al controllo economico e politico. Senza dimenticare delle altre
basi militari e centri in America Latina: nel nord dell'Argentina, in Brasile,
in Perù ... un'altra base è in negoziazione nel confine tra
Ecuador e Colombia ... è un controllo militare funzionale che permette
agli USA di entrare dove vogliono.
Che cos'è per voi la disobbedienza civile? Per
noi la disobbedienza civile significa costruire campagne di boicottaggio.
Ab-biamo fatto campagne contro i Mc Donald, azioni di disturbo. Negli ultimi
mesi stiamo lottando contro l'OCP (Oleoducto de Crudos Pesados - Oleodotto
del pe-trolio grezzo), facendo delle azioni di disturbo, mettendoci davanti
alle macchi-ne. Il nostro contributo è di appoggio e aiuto logistico
ai compagni che portano avanti questa lotta. Vediamo insieme come agire,
facendo dei laboratori anche pratici su come comportarci di fronte alla
polizia, come praticare delle forme di lotta nonviolente ma determinate,
come creare degli accampamenti sul luogo dei lavori.
Cosa pensate e come seguite l'evoluzione dei movimenti occidentali, da Seattle in poi? Per
il febbraio 2002 stiamo preparando qui in Ecuador una grande iniziativa
con-tro il Plan Colombia e l'ALCA, l'Accordo di Libero Commercio delle
Americhe, che è una estensione a tutta l'America Latina del Nafta,
che riguardava solo il nord-america (USA, Canada, Mexico). In quella data
ci sarà la riunione di tutti i paesi del trattato, di cui l'Ecuador
ha ora la presidenza fino al 2005. É una presidenza strategica,
per la posizione geografica del nostro paese ma anche per il suo faci-le
controllo. L'incontro che faremo vuole proiettarci nella costruzione di
un mo-vimento urbano, che raccolga le tensioni non indigene dell'intera
regione.
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GUALDEMAR JIMÉNEZ
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