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EURASIA, LA GUERRA PER L'AREA DEL "GRANDE GIOCO"
Il ruolo strategico nell'economia globale dei paesi che ora sono il teatro delle operazioni belliche Usa

 
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_____________________________________di Giacomo Catrame__________

Afghanistan, Kazkostan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghisistan, Pakistan... nomi di stati di quell'area dell'Asia Centrale diventata familiare in queste ultime settimane.

Eppure, se questi nomi per la maggior parte della popolazione dell'Occidente suonano ancora come qualcosa di esotico e lontano, non altrettanto si può dire per le nostre classi dominanti e per quelle di paesi come la Russia, l'India o la Cina.

Quando quelle terre avevano ancora nomi ancestrali come Turkestan o Turan, esse erano già oggetto di scontro per le grandi potenze mondiali che se le contendevano per la loro importanza strategica come asse di transito dell'Eurasia. Laggiù, infatti, passava la via della seta che permetteva il contatto commerciale tra l'Europa e le allora lontane terre cinesi e indiane, le cui fiorenti economie avviarono lo scambio di prodotti con l'Occidente fin dal tempo dell'Impero romano. Più tardi, alla metà del secolo tredicesimo, la loro sottomissione all'Impero mongolo, permise la ricostruzione dei rapporti commerciali eurasiatici che, secondo avvertiti autori come Arrighi, è alla base del primo sviluppo dell'accumulazione capitalistica, nelle città-stato italiane dell'epoca.

In secoli più vicini quest'area è stata l'area del "Grande gioco", combattuto dalle grandi potenze imperiali come la Russia degli zar che avanzò nel Caucaso e in Asia centrale per tutto il Settecento e l'Ottocento a spese dell'Impero Ottomano e di quello Persiano (gli odierni Turchia e Iran), e di più moderne potenze imperialistiche come l'Inghilterra che mosse dai suoi avamposti indiani (dai quali aveva scacciato i francesi nel 1763) fino a raggiungere i confini tra gli attuali Pakistan e Afganistan. Tra l'altro è da notare come gli Inglesi tentarono per due volte di assoggettare l'Afganistan (allora come adesso una fragile confederazione di tribù diverse tra loro e tra loro ostili, ma capaci di trovare l'unità di fronte a una minaccia esterna), rimanendo per due volte sconfitti, la prima volta con la cacciata da Kabul nel 1842, la seconda nel 1879.

Nell'età degli imperialismi, grossomodo tra il 1870 e il 1914, quest'area del mondo è quindi un elemento di contesa "globale" (come si direbbe oggi) tra economie ampiamente globalizzate che fanno del controllo delle aree strategiche del mondo una delle ragioni del proprio successo. In più, si deve aggiungere la progressiva saldatura tra gli interessi in gioco nell'Asia Centrale e quelli che in quest'epoca si affaccia al Medio Oriente, non ancora appetibile per la produzione petrolifera (la civiltà del consumo energetico a base petrolifera è ancora di là da venire), ma reso fondamentale nel suo ruolo di corridoio di transito dalla lunga crisi dell'Impero Ottomano. Gli inglesi si insediano sul Canale di Suez nel 1882, negli Emirati del Golfo nel 1867 e nel Kuwait nel 1899, mentre i russi premono da nord su ciò che rimane della vecchia Persia allo scopo di accedere all'Oceano Indiano, e la Germania si insedia nel cuore del Medio Oriente, ottenendo concessioni ferroviarie (la tratta Istambul-Baghdad-Bassora e quella verso La Mecca).

Come si vede, gli interessi su queste terre sono già delineati e gli attori principali sono già tutti presenti. Tutti meno uno, quello che oggi è il più importante, gli Stati Uniti che inizieranno la loro presenza nell'area attorno alla metà degli anni Trenta del secolo appena trascorso, sostituendo l'Inghilterra nel ruolo di protettore del neonato (1932) regno dell'Arabia Saudita. Il ruolo del Medio Oriente, però è già mutato all'epoca, con l'affermarsi di un modello economico e sociale in Occidente, basato sullo sviluppo energetico a base petrolifera. La seconda guerra mondiale vedrà in quest'area l'affermazione dell'egemonia statunitense che costruirà un sistema di alleanze basate sulle monarchie feudali arabe, sull'Iran dello Sciah, sul Pakistan, stato nato nel 1947 dalla partizione dell'antico Impero Indiano in mano agli inglesi tra indù e musulmani, e, naturalmente, su Israele, vero e proprio cane da guardia occidentale in Medio Oriente.

Il "Grande gioco" dell'Asia Centrale, si viene così a saldare con il "Grande gioco" degli interessi petroliferi mediorientali.

Questo breve e, sicuramente, incompleto excursus storico serve a esemplificare il ruolo che nella storia dell'economia-mondo (l'economia mondiale vista non come un insieme di economie indipendenti, ma come un unico sistema economico interdipendente, per la cui gestione si sono combattute e si combattono tuttora guerre tra imperialismi diversi), i paesi quasi sconosciuti venuti alla ribalta mondiale dopo l'attentato alle Twin Towers dell'undici di Settembre, hanno sempre giocato.

La storia più recente ha visto l'area dell'Asia centrale quale uno dei principali terreni nei quali si è svolta la Guerra Fredda. La rivoluzione iraniana del 1979, l'invasione russa dell'Afganistan lo stesso anno e la successiva guerra decennale in questo paese sono altrettanti momenti di questo confronto.

Inizia in questi anni la stretta collaborazione tra gli Stati Uniti, i paesi islamici filoamericani (come l'Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo Persico e il Pakistan) e quella che negli anni seguenti verrà definita come "l'arcipelago fondamentalista". I guerriglieri afgani verranno addestrati in Pakistan dai servizi segreti di quel paese sotto la supervisione americana, a loro si uniranno volontari da tutto il mondo islamico, chiamati a combattere nel nome della jihad, ma con il sostegno e la promozione degli Stati Uniti impegnati nella battaglia decisiva con la superpotenza concorrente.

Osama Bin Laden, fino a allora un illustre sconosciuto, principe di sangue reale saudita, costruisce la sua fama attraverso il ruolo di comandante dei "volontari internazionali" accorsi a combattere l'Armata Rossa.

Negli anni del conflitto, quindi, si struttura un'organizzazione internazionale, addestrata dai migliori specialisti occidentali (tra i quali le SAS inglesi, le teste di cuoio di Sua Maestà non più imperiale), in possesso di grandi risorse finanziarie e di armamenti e, soprattutto, coperta dall'appoggio attivo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.

Negli anni successivi al conflitto, questa dotazione di armi, uomini e tecnologie verrà utilizzata a più riprese dagli Stati Uniti per chiudere i conti con tutti i regimi arabi non allineati con l'Occidente. Nella guerra civile algerina tuttora in corso è documentata la presenza di uomini e organizzazioni legate all'universo fondamentalista e incaricate del progetto di destabilizzare il regime di quel paese colpevole di controllare statalmente la propria produzione di gas e petrolio e, soprattutto, di venderlo direttamente ai paesi europei senza controllo americano. In Cecenia, dopo l'indipendenza dichiarata da una leadership nazionalista ma laica, si presenta la stessa organizzazione che si impadronisce del paese e oggi gestisce la guerra di resistenza contro i russi. Non può sfuggire la coincidenza tra l'interesse americano a sviluppare oleodotti e gasdotti che trasportino gli idrocarburi del Mar Caspio attraverso paesi amici come Georgia e Turchia, evitando Russia e Iran, e la fulminea entrata in scena di gruppi ben armati e ideologicamente motivati proprio in un'area che è uno degli snodi fondamentali degli oleodotti russi che portano greggio e gas dal Mar Caspio al porto russo di Novorossijsk.

La stessa ascesa dei Talebani in Afganistan tra il 1996 e il 1997 è avvenuta grazie all'intervento dell'ISI (l'inteligence pakistana) e dei servizi anglo-americani, capaci di trasformare un armata di studenti afgani delle Madrase (le scuole coraniche integraliste del Pakistan) stracciona e impreparata, nei nuovi padroni dell'Afganistan. Anche qui l'interesse è chiaro: unificare l'Afganistan, dove la guerra civile durava ormai dal 1992 senza vincitori né vinti tra gruppi concorrenti della ex resistenza afgana, allo scopo di utilizzarlo per un oleodotto che, partendo dai giacimenti del Turkmenistan, passasse per il martoriato paese asiatico e si dirigesse verso il porto di Gwadar in Pakistan. Anche qui si trattava di escludere russi e iraniani dallo sfruttamento e dal passaggio delle risorse energetiche del Mar Caspio.

I rapporti tra gli Stati Uniti, i servizi segreti pakistani e sauditi e l'arcipelago fondamentalista del quale l'esponente più conosciuto è Osama Bin Laden, sono quindi strettissimi e datano da almeno ventidue anni. A questo proposito è interessante leggersi il materiale prodotto dallo studioso canadese Michael Chossudowsky che ha documentato in modo incontrovertibile l'origine, l'intensità e la durata di questi rapporti.

La fine della Guerra Fredda, però, avvia un mutamento dello scenario nel quale operano i diversi soggetti. In primo luogo gli Stati Uniti si trovano a ridefinire il loro intervento nelle varie aree del mondo e, in primo luogo in quella vasta dorsale, decisiva per l'approvvigionamento di materie prime energetiche e per il controllo su di esse, che parte dai Balcani europei, passa attraverso il Medio Oriente e si spinge fino all'area della quale ci stiamo interessando. La fine del bipolarismo mondiale, infatti, rende le alleanze storiche insicure, permette l'emergere di potenze regionali interessate a rinegoziare il controllo occidentale sulle risorse energetiche e consente ai paesi europei (in ordine sparso o coordinati nell'Unione Europea) di avviare un proprio approccio nei Balcani e di tentare timidamente di stabilire propri rapporti con i paesi petroliferi medio orientali considerati nemici dagli Stati Uniti come l'Iran.

Se da un lato queste sono le minacce e i rischi che il dominio mondiale unipolare degli Stati Uniti corre con la fine dell'Unione Sovietica, la dissoluzione "dell'impero rosso" apre enormi prospettive di intervento in quei paesi dell'Asia Centrale controllati da Mosca fino al 1991.

Il ruolo strategico di queste repubbliche (e di Pakistan e Afganistan con loro) viene, inoltre, esaltato dalla crescita come potenze regionali dell'India e della Cina, paesi vicini e minacciabili da eventuali basi nell'area.

In particolare gli Stati Uniti temono lo sviluppo di un'alleanza a tre Russia-Cina- India che potrebbe minacciare il dominio assoluto di Washington sul mondo come e più degli alleati-competitori dell'Unione Europea.

Nel DefensePlanning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, possiamo leggere "Dobbiamo operare per impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a generare una potenza globale. Queste regioni comprendono il territorio dell'ex Unione sovietica, l'Asia orientale e sud occidentale". 

Questo programma viene redatto dopo la Guerra del Golfo, che segna l'avvio del processo di ristrutturazione del controllo del corridoio eurasiatico. Durante quella guerra gli americani centrano tre obiettivi: schierano gli europei e molti paesi arabi sotto la propria egemonia, ridimensionano l'ex vassallo Saddam Hussein, impedendogli di assumere il ruolo di potenza regionale, raggiunta la quale avrebbe potuto pensare di diversificare la vendita del proprio petrolio, infine ottengono basi militari e il diritto di stazionare con i propri soldati nell'area del Golfo. Il controllo esclusivo delle risorse dell'area viene quindi raggiunto, e con questo il ridimensionamento delle velleità europee di autonomia dagli americani nell'approvvigionamento energetico.

Il progetto americano si rivela, quindi, come un piano preciso per ristrutturare il mondo sotto la propria egemonia. La fine della Guerra fredda, infatti, consegna agli Stati Uniti una situazione dove viene a mancare il nemico comune che permetteva di tenere sotto il proprio controllo potenze e stati altrimenti concorrenti come Francia, Germania e Giappone. Non diversamente, nell'area delle risorse energetiche, gli stati "amici" degli Stati Uniti iniziano a ritenere possibile di svolgere una propria politica, parzialmente sganciata dagli imperativi americani. Per questo diventa essenziale, per gli USA, muoversi al fine di stabilire un controllo diretto sulle aree che il Dipartimento di Stato classifica come di "interesse nazionale".

Questa necessità non deriva da un'astratta volontà di potenza degli Stati Uniti, ma dalla collocazione della loro economia nel quadro dell'economia-mondo. Dopo la crisi del modello di sviluppo industriale a base americana durante gli anni Settanta, gli Stati Uniti avviano un periodo di forte conflittualità tra le varie economie capitalistiche, ponendosi come centro finanziario mondiale, assorbendo il 64% del capitale mobile internazionale e utilizzando le istituzioni economiche internazionali al fine di abbattere le barriere poste dai vari stati a difesa delle proprie economie (ovviamente guardandosi bene dal diminuire le proprie).

Il processo che viene chiamato impropriamente "globalizzazione" è questo: il porsi delle classi dominanti americane in un ruolo di gestori del mondo, espellendo le classi dominanti degli altri paesi sviluppati dal controllo dell'economia-mondo e, financo, da quella del proprio paese. In questo modo queste ultime vengono associate al paese-guida in forma subordinata, permettendo loro l'accesso alle risorse, dal cui controllo, però vengono escluse.

Il rischio che gli Stati Uniti non possono assolutamente accettare è, infatti, la possibile nascita di un polo imperialista alternativo a loro stessi. Non si avrebbe in questo caso, infatti, una competizione tra economie differenti, ma, bensì la possibile sottrazione di quote crescenti di capitale mobile impiegato in forma finanziaria, altrimenti non impiegabile. L'economia americana funziona esclusivamente drenando questo capitale da tutto il mondo e internalizzandolo. Il livello produttivo è, oggi, simile negli USA, in Europa e in Giappone; la supremazia dei primi può essere possibile (dal punto di vista economico) esclusivamente controllando la liquidità monetaria mondiale.

Dopo la Guerra del Golfo, la guerra del Kosovo ha avuto la stessa motivazione, permettendo lo stabilirsi di truppe americane nell'area, spazzando via classi dominanti di paesi come la Jugoslavia che puntavano a negoziare il controllo dei corridoi di passaggio delle materie prime energetiche, e impedendo che L'Unione Europea stabilisse la propria presenza su questi ultimi.

Tornando all'Asia Centrale, è chiara la volontà degli USA di rafforzare la loro presenza militare e la loro influenza politica nell'area, in modo da controllare le fonti energetiche del Caspio, i corridoi di passaggio di queste, e i possibili stati concorrenti dell'Eurasia.

Fin dal1993 gli USA hanno dato inizio a una vera e propria "guerra degli oleodotti", sostenendo le compagnie petrolifere anglo-americane contro i concorrenti franco-tedeschi che cercavano di accordarsi con le compagnie statali russa e iraniana.

Il progetto, come abbiamo visto è quello dell'oleodotto Turkmenistan-Afganistan-Pakistan, e "l'operazione Taleban" aveva la sua costruzione come fine.

Quello che è intervenuto nel suo svolgersi, e che è alla radice dei vari attentati americani degli ultimi due anni, culminati nell'attacco alle Twin Towers, è il contrasto sempre più marcato tra gli interessi degli Stati Uniti e quelli delle élite arabo-musulmane, proprietarie delle ricchezze energetiche, ma escluse dal loro controllo.

Osama Bin Laden non è un "pazzo di Dio", ma il più terreno rappresentante di una guerra che le classi dominanti dei paesi arabi non possono muovere agli Stati Uniti per evidenti motivi di ordine militare, ma che permettono venga svolta in modo non ortodosso dalla galassia fondamentalista. Come si può vedere, la religione ha sicuramente un ruolo nella costruzione del consenso, ma quello che muove lo scontro che sta culminando in questi giorni con l'assalto americano all'Afganistan, sono ben corposi interessi materiali. Inoltre, la religione ha, nei paesi in questione, un ruolo tutt'altro che accessorio di coesione sociale attorno alle classi dominanti e di giustificazione del loro ruolo. La progressiva penetrazione americana all'interno di questi paesi, con evidenti rischi di secolarizzazione, pone alle classi dominanti di paesi come l'Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo o il Pakistan, il problema della rottura delle strutture gerarchiche tradizionali, con conseguenze disastrose per il loro potere. Il riconoscimento dell'Afganistan dei Taleban, lo scarso entusiasmo nel sostenere la guerra americana, il mantenimento fino all'ultimo di canali finanziari aperti per l'organizzazione di Bin Laden, si spiegano così.

Inoltre, la preferenza mostrata dagli americani per l'asse nato nel 1998 tra Israele e Turchia, come "alleato preferenziale" nell'area, toglie il terreno sotto i piedi a queste élite che rischiano in prospettiva di essere liquidate come inutili al progetto strategico americano. Oltretutto il potenziale attrattivo di questa alleanza è enorme, verso paesi come Iran e Iraq, per ora reclusi nella lista dei "cattivi" (almeno finché non si rassegneranno a accettare completamente il controllo americano e insisteranno a cercare di fare affari separati con i paesi europei), ma un domani interessantissimi partner regionali, dal momento che le loro economie sono le uniche nella zona che potrebbero essere complementari a quelle turca e israeliana.

La guerra, quindi, era inevitabile; il progetto di controllo dell'Eurasia da parte degli USA si sta perfezionando con la guerra all'Afganistan e con il massiccio spostamento di truppe e strumenti di controllo nell'area. Inoltre, i possibili concorrenti americani no sembrano poter articolare nessuna strategia alternativa a quella di Washington. Così gli europei si accodano, sperando di ottenere qualche vantaggio rinnovando la propria subordinazione e cinesi, indiani e russi approvano l'operato americano, ognuno cercando di ottenere l'appoggio americano contro le guerre a bassa intensità mosse dalla stessa galassia fondamentalista alle loro periferie (Sinkiang, Kashmir e Cecenia).

Oltre a questo vi è un altro motivo che rende più che positiva per gli USA la dichiarazione dello stato di guerra, ed è quello legato alla situazione economica del gigante americano: la strategia di accumulazione delle risorse monetarie mondiali in casa propria ha permesso agli Stati Uniti la supremazia sui possibili concorrenti ma ha anche creato una situazione alla lunga insostenibile. La concentrazione di liquidità ha, infatti, reso necessario un dollaro forte con conseguenze facilmente immaginabili sulla bilancia dei pagamenti con l'estero. Questo dato era tranquillamente tollerabile dagli USA finché il mercato interno "tirava"; nel momento in cui il mercato americano si è saturato per raggiunti limiti di possibilità di acquisto, la concentrazione di moneta mondiale è diventata un limite all'espansione economica.

Da questo punto di vista la guerra è stata una manna dal cielo per l'economia americana, permettendogli in primo luogo un'espansione finanziata dal pubblico (per un totale di 220 miliardi di dollari) non solo nel settore militare. In secondo luogo, i programmi di aiuto ai paesi coinvolti "nell'alleanza contro il terrorismo", dovrebbe permettere una prima redistribuzione della liquidità concentrata negli Stati Uniti, rilanciando le esportazioni USA. A differenza della Guerra del Golfo che gli americani fecero pagare a arabi, europei e giapponesi, costringendoli anche alla partecipazione, questa guerra verrà pagata interamente dagli USA che, anche sul piano militare preferiscono per ora fare da soli, con la sola compagnia dei fidati inglesi. Quella guerra apriva un processo di ristrutturazione che, ora, quest'altra chiude, imponendo agli stessi padroni del gioco regole e necessità diverse.

18 ottobre 2001

Tratto da Umanità Nova n.35 del 14 ottobre 2001)

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