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pensieri

I Balcani e la fame dell'Occidente
Gli effetti economici delle guerre "umanitarie" e delle altre ingerenze euroatlantiche
 

di LUKA ZANONI

    In questi giorni di fine autunno l’agenda della grande Europa ha visto susseguirsi importanti appuntamenti, quali il vertice di Zagabria e quello di Nizza. Si parla di Patto di stabilità per i Balcani, di allargamento della UE all’Est europeo, di sottoscrivere una comune Carta dei diritti, ecc. Grandi proposte fatte dai grandi paesi della UE. Tuttavia oltre confine, un confine così prossimo che dovrebbe sparire tra qualche anno (2003?), le cose non vanno poi così bene. Dietro l’entusiasmo di facciata che accompagna sempre i vertici europei, permangono zone d’ombra, dubbi, perplessità, ma anche situazioni e conflitti irrisolti. Basti pensare alle recenti elezioni in Bosnia-Erzegovina, dove, nonostante le "migliori" intenzioni della UE, si respira ancora un’aria che ha il tetro odore di guerra o che quantomeno ricorda molto da vicino quegli anni, quando appunto i partiti che di recente hanno vinto le elezioni inneggiavano alla pulizia etnica.  La Romania, di prossimo ingresso nell’Unione Europea, vede alle presidenziali una discreta crescita dei nazionalisti di Tudor. Ma forse l’aspetto paradossale di tutto questo è riscontrabile in quel luogo che per certi versi è divenuto il barometro balcanico, strumento cioè in grado di misurare la pressione delle tensioni di quest’area geografica, ovvero il Kosovo. 
   Già, perché dopo aver scatenato una guerra umanitaria con l’intento di fermare un "genocidio" programmato e una razionale pulizia etnica, ma anche dopo aver messo da parte definitivamente l’ONU, avere ridisegnato il concetto strategico della NATO, aver violato il diritto internazionale e quant’altro, le grandi potenze non sanno proprio cosa fare con un Kosovo ancora incandescente. 
La RFJ del nuovo presidente Koštunica chiede ripetutamente, dopo il pieno riconoscimento, le strette di mano e gli incoraggianti ammiccamenti dei leader occidentali, un intervento internazionale al fine di fermare le aggressioni da parte dell’UCPMB (Esercito di liberazione di Preševo Medvedja e Bujanovac) nel sud della Serbia. Aggressioni che sono rivolte non solo contro serbi e rom, ma anche contro quella popolazione albanese vicina alla Lega democratica del Kosovo (LDK) di Ibrahim Rugova. Curiosamente il settore da dove partono gli attacchi è quello gestito dagli americani, gli stessi quindi che, con ogni probabilità, hanno bene addestrato i miliziani dell’UCK e che ora sembrano non riuscire a controllare.

   Ma che strano, eppure i Balcani da sempre sono al centro degli interessi delle grandi potenze occidentali. Com’è, allora, che tutta questa volontà di democratizzazione e di progetti di cooperazione politica ed economica viene spesso vanificata da gravi instabilità? È dovuto trascorrere parecchio tempo prima di poter ammettere le premature ed errate scelte dei primi anni novanta. Helmut Schmidt, leader storico della socialdemocrazia tedesca ed europea dichiara, infatti, che: «Il riconoscimento di Slovenia e Croazia da parte della Germania è stato prematuro e sbagliato» (cfr. T. Di Francesco, Balcani, il gioco dell’oca, «il manifesto», 5 dicembre 2000, p. 18). Quanto tempo dovremo aspettare per sapere quali sono state le idee che hanno guidato la politica europea nei Balcani, ossia quanto dovremo aspettare per comprendere a cosa sono serviti i bombardamenti umanitari? 

  Certo un guadagno lo si vede, dal momento che «oggi possiamo razionalizzare la rete balcanica per riconnetterla al circuito europeo e creare possibilità di mercato produttivo e di transito, sfruttando le grandi risorse idroelettriche e le forniture russe. In generale si apre nel settore degli approvvigionamenti energetici una stagione di grandi appalti, in cui l’Italia per interessi diretti e competenze tecniche potrebbe giocare un ruolo importante nell’indirizzo e nell’esecuzione dei progetti» (Adriaticus, I nuovi progetti occidentali ridisegnano i Balcani, Limes, 5, 2000, p. 45). Ecco riapparire i progetti e gli interessi sui Balcani. La recuperata centralità della Serbia offre, infatti, una grossa opportunità alla definizione dei corridoi paneuropei. Di qui però si potrebbero scatenare le gelosie della Croazia, ma anche del Kosovo che vedrebbe diminuito l’appoggio alla sua richiesta di indipendenza. 

   È stato detto che i Balcani non valgono un soldato di Pomerania, eppure sembrano valere l’attenzione dei grandi stati. Perché non provare con politiche sociali che mirino all’effettivo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione ed al rispetto delle aeree geografiche in questione, anziché abbracciarle nella stretta morsa del mercato mondiale e dell’indebitamento economico? Ma non è a questo che dobbiamo pensare: la grande Europa pensa e agisce velocemente. Sospende dall’oggi al domani gli accordi di Schengen e ripristina i controlli di frontiera alla vigilia del vertice di Nizza. Poi le occorrono solo due minuti per approvare la Carta dei diritti, considerata una svolta storica nella formazione di una grande Europa. Chissà quanti minuti occorrono per decidere di scatenare una guerra umanitaria? Ma è poi possibile improvvisare una guerra? O forse le decisioni che sembrano affrettate celano invece una adeguata preparazione? Come abbiamo detto, i Balcani sono sotto lo sguardo delle grandi potenze almeno dal 1878, con il Congresso di Berlino e il trattato di Santo Stefano. Da allora si è sempre cercato di evidenziare la ferocia e la trivialità balcaniche celando così le mire espansionistiche  europee. Oggi, a distanza di oltre un secolo dai suddetti congressi, l’espansionismo occidentale si manifesta prima con una guerra eticamente sostenibile e poi come promessa di aiuto economico e futuro ingresso nella UE (previo battesimo da parte della NATO).

   In un recente saggio Danilo Zolo afferma che: «dal punto di vista delle potenze occidentali, la motivazione umanitaria è probabilmente la più adatta al tipo di turbolenze presenti nell’arena internazionale dopo il crollo dell’impero sovietico e la fine del bipolarismo» e che essa «è retoricamente efficace perché consente di contrapporre l’"opinione pubblica mondiale" e l’"etica universale" al particolarismo deviante di un singolo Stato o regime politico» (D. Zolo, Chi dice umanità, Einaudi, Milano 2000, pp. 43-44). Per concludere, sempre Zolo cita dal celebre Le categorie del «politico» di Carl Schmitt la seguente frase: «Il termine umanità è uno strumento particolarmente adatto alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico».

  Occorrerebbe quindi vedere aldilà delle promesse e adocchiare quelle che potrebbero essere le ragioni di una guerra umanitaria e di buona parte delle iniziative rivolte ai Balcani. Forse non sarebbe difficile scorgere che il controllo dei corridoi paneuropei, la volontà egemonica della NATO e il controllo del continente euroasiatico sono tutte interpretazioni estremamente accreditabili, al fine di comprendere gli interessi dei nuovi governi mondiali. 
 


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