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Bosnia, verso l'inizio della fine per i "Signori della guerra"
Nel voto amministrativo segnali di risveglio democratico. Ma l'Occidente rema contro...
 


di MICHELE NARDELLI*

   Le elezioni amministrative svoltesi in Bosnia Erzegovina sabato 8 aprile rappresentano, pur nella loro contraddittorietà, un segnale di controtendenza in quella polveriera che continuano ad essere i Balcani. Vi si può leggere la voglia di scrollarsi di dosso la pesante eredità della guerra, ed insieme i tratti più o meno residuali della fenomenologia balcanica, i villaggi contro le città, la taverna contro l’agorà, l’ossessione contro l’apertura...
   Elezioni che avrebbero forse meritato un po’ più di attenzione, non solo da parte dell’informazione nostrana, ma anche da parte di una politica italiana che ha perso un’altra occasione per abitare la vicenda balcanica non solo nelle pieghe dell’emergenza.

   Dopo la caduta del regime dell’Hdz in Croazia, anticipata come nel più classico dei copioni dalla definitiva uscita di scena del “supremo”, l’esito della tornata amministrativa in Bosnia Erzegovina lascia intravedere scenari nuovi, l’inizio della fine dei “signori della guerra” e dei partiti che sulla divisione etnica avevano costruito le loro fortune nel dopoguerra bosniaco. Certo l’Hdz erzegovese è ancora il baluardo di un cieco nazionalismo che vedendosi franare il retroterra della madrepatria tenderà ad accentuare la sua natura mafiosa e xenofoba, l’Sda continua a raccogliere forti consensi nei centri minori ed insieme allo Sbhi dell'ex premier Silajdzic ad avere una maggioranza dei voti, l’Sds è ancora il primo partito nelle città lasciate in balia del nazionalismo profondo, ma tanto nella “Federacija” che, a guardar bene, anche nella Republika Srpska, i risultati indicano una tendenza al ridimensionamento dei partiti nazionalisti e al rafforzamento di una dialettica aperta e democratica.
Alla sconfitta dello Sda del premier Izetbegovic nelle principali città della Federazione musulmano-croata a favore dell’opposizione democratica e di sinistra, corrisponde una spaccatura in due della Republika Srpska, fra l’area nordoccidentale (la regione di Banja Luka) dove l’Sds perde ovunque la supremazia e si profilano alleanze di governo locali alternative al partito nazionalista di Radisic (ma soprattutto di Karazdic e di Mladic), in virtù di un clima di apertura e di dialogo (e che fa da sfondo ad un crescente ritorno dei profughi) poco incline al radicalismo nazionalista, e la regione orientale dove invece si fa ancora sentire il richiamo “grande serbo”. 

   E questo nonostante le politiche scellerate di una comunità internazionale che con la guerra del ‘99 ha fatto ripiombare l'entità serba in un clima di assedio, con conseguenze pesanti anche sul piano sociale; che da un lato cancella la Bosnia Erzegovina dalla sua agenda non rientrando negli standard della prima emergenza per poi accorgersi che gran parte degli aiuti alla ricostruzione dell’economia del paese sono finiti nelle mani di mafie di ogni tipo; che non sa far di meglio che arrestare Momcilo Krajisnik, cosa sacrosanta sia chiaro ma non a quattro giorni dal voto, dopo aver avuto la brillante idea di escludere dalle elezioni amministrative il partito dei radicali ultranazionalisti, con il solo effetto di regalare un 6 - 7% di voti all’Sds.
Stupidità o disegno politico? Superficialità o scelte suggerite da qualcuno che ha più interesse che l’area balcanica continui ad essere destabilizzata e sorretta da leadership nazionaliste piuttosto che favorire una nuova stagione democratica?
Che senso ha arrestare in mutande alle tre del mattino l'ex rappresentante serbo nella presidenza collegiale della Bosnia Erzegovina, se non quello di far passare ancora una volta l’idea del complotto contro la nazione serba? 

   O, ancora, perché mai il presidente Ciampi va ad incontrare Izetbegovic il giorno prima del voto, nel pieno di una campagna elettorale tanto delicata per il futuro di questo paese?
  Il fatto è che malgrado le sciagurate scelte della Nato e gli “svarioni” della diplomazia internazionale, il crollo annunciato con la fine di Tudjman di nazionalismi che si reggevano l’un l’altro trova conferma anche qui, in questa fredda primavera bosniaca.
   È un processo ancora fragile, che avviene nonostante l’Europa, ancora una volta profondamente estranea alla vicenda balcanica quand’anche non priva di responsabilità.
Se oggi ci appare quasi naturale che città come Sarajevo o Tuzla esprimano nel voto la volontà di mettere fine all’incubo in cui sono piombate con la guerra e nell’irreale dopoguerra, che questo avvenga a Banja Luka o a Prijedor, un tempo città simbolo della pulizia etnica con i suoi tragici campi di Omarska, Trnopolje, Keraterm ed oggi la città del ritorno, scontato lo è già un po’ meno. E se questo avviene vuol dire che qualcosa di profondo sta cambiando, che si fa largo la volontà di una nuova stagione politica, che può e deve essere aiutata mettendo in gioco l'Europa, parola chiave per il futuro della Bosnia e dell'intera regione balcanica.

   No, non possiamo permetterci che i segnali di questa nuova primavera siano annichiliti dal cinismo e dal vuoto progettuale di un’Europa che nei Balcani gioca con il suo stesso futuro.


o Un'analisi della situazione balcanica attraverso la lente del recente voto amministrativo in Bosnia, pressoché ignorato da media e politici nostrani, dal quale sono emersi segnali interessanti su una possibile svolta postnazionalista. Nonostante l'Europa e l'Occidente sembrino fare di tutto - per calcolo o per stupidità - per alimentare tensioni etniche e mafie politiche.
 
 

* Michele Nardelli 
è tra i fondatori   dell'Osservatorio 
sui Balcani 
 

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