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Nuovi percorsi per l'anarchismo
Libertà, eguaglianza e diversità oltre i paradigmi della razionalità occidentale
 

di THOMAS S. MARTIN


  Il mondo futuro, qualsiasi forma dovesse prendere, non sarà frutto di una netta rottura con il passato; la storia dopotutto è dialettica. I nuovi sistemi si strutturano all’interno dei vecchi. Possiamo presumere che la critica anarchica, rivolta agli errori strutturali della civiltà occidentale, sopravviverà sotto altra forma. 

   Questo saggio azzarderà alcune previsioni sulle configurazioni che questa critica potrebbe assumere. Dato che il cambiamento è ancora all’inizio e prevedere il futuro è pratica notoriamente incerta, ciò che segue potrebbe essere errato. Ma in qualche modo si deve pur iniziare.
 

   Propongo che gli anarchici comincino a ripensare alcune delle loro idee alla luce delle correnti e delle ricerche contemporanee nel campo della fisica post-einsteiniana e della teoria dei sistemi. Negli ultimi vent’anni molto è stato scritto su queste discipline limite. Buona parte è spazzatura New Age, o, all’altro estremo, è accessibile solo agli specialisti. Ma molti elementi di questa ricerca sono direttamente rilevanti per il pensiero radicale. Quello che la fisica  e la teoria dei sistemi suggeriscono sulla natura della realtà è totalmente estraneo all’esperienza quotidiana del pensiero occidentale e per questo non dovremmo sorprenderci se risultasse priva di senso. Probabilmente parte di essa lo è. Ma è fuori di dubbio che la visione del mondo occidentale, condivisa anche dall’anarchismo, sia basata su una serie di premesse palesemente false. Il fatto è che i fisici e i cosmologi ci stanno trascinando, volenti o nolenti, verso una frontiera che pochi di noi sono disposti a superare. Come è noto, il libro di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche descrive i «cambiamenti di paradigma», ovvero quelle periodiche  trasformazioni nel modo di rapportarsi al mondo che scandiscono la storia, creando nuove premesse fondamentali che sono «incommensurabili» con le vecchie. Il termine paradigma viene usato da tutti, e il fatto che se ne siano impadroniti i capitalisti delle multinazionali per descrivere il prossimo passo della loro conquista globale è particolarmente irritante. Ciò nonostante, il termine sembra essere appropriato, e i «radicali» dovrebbero riappropriarsene. A dire la verità Kuhn descrive cambiamenti secondari: la caduta dell’impero romano, il collasso delle teorie medioevali, la cosiddetta rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo. Sono stati mutamenti profondi, ma non fondamentali. Hanno tutti avuto luogo entro il contesto di base della cultura occidentale, così come è stato costruito in Mesopotamia alcune migliaia di anni fa. Nel linguaggio dei sistemi essi sono stati «confermativi» piuttosto che «innovativi», cioè non hanno indebolito la visione del mondo su cui si reggevano, ma l’hanno piuttosto potenziata. Quello che osserviamo oggi, invece, è forse l’inizio del primo cambiamento sostanziale di paradigma dai tempi della rivoluzione neolitica. Non sono esistiti molti paradigmi fondamentali nella storia  umana. Quello cinese è più resistente e stabile del nostro. Il paradigma olistico-animistico condiviso dalle popolazioni indigene di tutto il mondo può ancora essere d’aiuto, se non lo distruggeremo prima. I paradigmi sono sistemi dinamici della coscienza umana, sono inerentemente conservatori e autosufficienti; una volta certi che uno di essi funziona, non lo abbandoniamo più. La nostra sanità mentale e la nostra sopravvivenza, infatti, si basano sulla verità del nostro particolare paradigma. Ecco perché i paradigmi sono così difficili da rimuovere, anche se sono chiaramente nocivi. Le crisi del ventesimo secolo e in particolare gli impulsi ecocidi del tardo capitalismo, hanno spinto il paradigma occidentale verso la sua fine. Tutto è in procinto di crollare, compreso l’anarchismo. Se riusciamo a sopravvivere e a modellare un nuovo paradigma, l’anarchismo come lo conosciamo sembrerà antiquato e inutile come la scrittura cuneiforme.

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Anarchismo, 
teoria dei sistemi e nuova fisica

Il  primo passo verso un atteggiamento mentale post-occidentale è lo studio della fisica come si presenta dopo gli sviluppi inaspettati di Albert Einstein. Più di un osservatore ha notato che la fisica, la religione, la psicologia e anche la linguistica stanno convergendo verso una spiegazione generale dell’universo che assomiglierà poco al modello che tutti noi studiamo a scuola, la visione del mondo creata secoli fa da quella profana trinità di Francis Bacon, René Descartes e Isaac Newton. I nuovi ingredienti sono l’olismo e la filosofia del processo, sviluppate da Henry Bergson, Alfred Whitehead e da molti altri; la meccanica quantistica con i suoi misteriosi paradossi, l’indeterminazione di Werner Heisenberg e i principi di esclusione di Wolfgang Pauli; pochi altri modelli tanto radicali da sfidare le classificazioni: in particolare le ricerche di Gregory Bateson, Rupert Sheldrake, e Ilya Prigogine. Alcuni anarchici ne hanno già intravisto le implicazioni. Murray Bookchin si distingue tra la massa principalmente perché sottolinea i potenziali anti-libertari nelle opere di scienziati non molto interessati alla teoria politica. Non è necessario soffermarsi qui su una discussione approfondita della meccanica quantistica, della teoria dei sistemi o dei loro rapporti. Le loro implicazioni radicali si possono riscontrare nel lavoro di Fritjof Capra, Morris Berman, Timothy Ferris e altri. Possiamo quindi andare al dunque: le recenti teorie di David Bohm e di Geoffrey Chew e le loro implicazioni per un anarchismo post-occidentale. 

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L’idea che la realtà possa essere ridotta a un «campo» di qualche tipo (nel quale gli oggetti sono modellati  dall’ambiente esterno, e a loro volta lo rimodellano) non è nuova, ma David Bohm ha suggerito un campo «olografico» in cui ogni  settore contiene il complesso del campo stesso. 
La nostra idea (presa dalla matematica classica) che tutto possa essere localizzato in un «punto» dello spazio e del tempo diviene priva di senso. Secondo Bohm l’ordine e il caos che percepiamo nel regno della fisica sono epifenomeni dell’«ordine implicito», una struttura che è il fondamento di tutte le strutture e tutti i sistemi e che non è direttamente accessibile alle nostre menti. L’ordine implicito, trascendente e olografico, include tutti i potenziali oggetti ed eventi. E soprattutto è vero, mentre il nostro «mondo reale» è solo l’effetto di superficie di quella realtà: gli oggetti sono astrazioni, sono «sottototalità relativamente indipendenti», come vortici in una corrente. La coppia di errori più grandi e pericolosi che l’anarchismo condivide con altre filosofie occidentali sono quelli che per comodità chiamerò «dicotomia», ovvero lo smembramento del mondo in parti che esistono solo nella nostra mente, e la «reificazione», cioè credere che queste parti siano fondamentalmente reali. Il nostro modo di vedere entità separate dove ci sono solo unità inscindibili è la causa dei tanti problemi della civiltà occidentale e potrebbe invero rivelarsi la fine per noi tutti.

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La «teoria bootstrap» di Chew è così rivoluzionaria da poter essere considerata al di là della linea paradigmatica, non come l’ultimo modello occidentale di fisica, ma come il primo post-occidentale. Si basa sulla «teoria S-matrix», un modello matematico dell’universo proposto per la  prima volta da Heisenberg nel 1943 per spiegare la forte interazione degli adroni a livello subatomico. La «teoria S-matrix» suggerisce che i modelli di movimento delle particelle non siano veramente essenziali: essi hanno origine dalla tendenza di quelle particelle a comportarsi in un certo modo. Secondo Chew l’unica possibile spiegazione del successo della «teoria S-matrix» è che la materia non esiste per nulla e che l’universo è una «serie di eventi dinamici e intercorrelati. Nessuna proprietà delle diverse parti di questa trama è essenziale, esse derivano tutte dalle proprietà delle altre parti. È la coerenza globale delle loro reciproche interrelazioni a determinare la struttura dell’intera rete». In questo modello tutte le leggi, fisiche, chimiche o storiche, sono costruzioni puramente umane, che la nostra mente impone alla realtà che va al di là della nostra comprensione. Le strutture e i processi sono «coerenti» in sé e tra loro, ma non lo sono rispetto a un qualche principio fondamentale che si ponga «fuori» dai processi stessi. 

L’ipotesi «bootstrap» fa crollare l’intero progetto della filosofia occidentale, il cui obiettivo è di  rivelare i principi ultimi che regolano il funzionamento delle cose: si tratta di una ricerca che oggi ci appare come un tuffo in un pozzo senza fondo. Invece di perdere il nostro tempo a cercare postulati fondamentali, dovremmo seguire l’esempio dei mistici, che ricercano una intuizione diretta piuttosto che  una comprensione razionale. Questa intuizione deve essere adottata dall’anarchismo post-occidentale per comprendere direttamente e intuitivamente quale ruolo abbiamo nel mondo. La nuova fisica si accorda con le opinioni «primitive» delle popolazioni indigene meglio di quanto faccia con ciò che esce da un qualsiasi seminario universitario o da un acceleratore di particelle. Lo sciamano dei Pueblo, nella sua polverosa kiva, sul funzionamento del mondo sapeva molto di più di Robert Oppenheimer rinchiuso nel suo laboratorio di Los Alamos. L’ossessione occidentale di ammazzare, espropriare, convertire e nascondere le popolazioni indigene è ora più facile da comprendere. Loro conoscevano la verità, mentre noi ci ostinavamo a vivere nella menzogna: non riuscivamo a guardarli in faccia. Il mondo post-occidentale, qualunque forma assumerà, dovrà accostarsi umilmente, supplicando, al selvaggio dipinto, al mangiatore di mescal che una volta disprezzava. Gli anarchici giustamente disdegnano le «filosofie» New Age e le considerano chiacchiera confusa e superficiale dettata dall’egocentrismo del tardocapitalismo. Ma non dobbiamo gettar via il bambino con l’acqua sporca. Le popolazioni indigene hanno veramente qualcosa di profondo da insegnarci.

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Tutte queste diverse idee si uniscono in modo affascinante nella teoria dei sistemi, prodotta dal contributo di cibernetica, fisica dei quanti, teoria del caos, e molte altre discipline. La teoria dei sistemi non è cosa nuova, ma è stata accettata molto lentamente per ragioni più politiche che scientifiche. Un «sistema» è un aggregrato di elementi correlati, la cui identità non è data dalla natura dei componenti, ma da quella delle loro relazioni dinamiche. Inoltre la teoria assume che nessun elemento del sistema sia autonomo; tutti sono «oloni» (il termine è di Arthur Koestler), ovvero sono fenomeni che sono simultaneamente parte del tutto. È un altro modo di dire che il tutto è maggiore della somma delle sue parti, un concetto molto antico. Molti anarchici obietteranno che la teoria dei sistemi è pregiudicata dalla sua abitudine a descrivere le interconnessioni in termini di gerarchia. Il punto è centrato, sebbene sia basato sulla fusione tra due fenomeni abbastanza dissimili che portano lo stesso nome. Una gerarchia sociale o politica è una creazione umana fittizia, che fa violenza all’ordine naturale delle cose. Le gerarchie dei sistemi sono naturali per definizione, ma probabilmente sarebbe meglio pensarle come trame, come reti. Possono essere visualizzate come orizzontali, piuttosto che verticali, eliminando i valori impliciti di termini quali alto o basso, senza compromettere la sostanza della teoria stessa. Dalle origini della teoria dei sistemi, giudicata meccanica e cibernetica, sorge un’altra valida obiezione. Il linguaggio dei sistemi tende ancora a trattare i fenomeni sociali e culturali come se questi si comportassero come strutture chimiche o fisiche. Questo richiama alla mente il riduzionismo e il meccanicismo a cui ci si dovrebbe opporre. Sfortunatamente la teoria dei sistemi è in gran parte un prodotto della ricerca bellica della seconda guerra mondiale. Fu inventata, come i computer  e la teoria dei giochi, per facilitare l’eliminazione di un numero sempre maggiore di persone. L’idea sta perdendo questa connotazione tipica dei suoi inizi, ma nella mente popolare la parola «sistema» ha ancora una connotazione scientifica e capitalistica. Entrambe queste critiche possono essere superate con un’accurata attenzione alla terminologia e con la consapevolezza che la teoria dei sistemi, come molto altro, possa essere utilizzata per scopi buoni o cattivi.

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La teoria dei sistemi iniziò a prendere forma negli anni Venti, quando i fisici provarono la falsità della visione newtoniana dell’universo, quale collezione di oggetti separati tra loro. L’inaugurazione dell’«era dei quanti» fu la prima incrinatura nei fondamenti del paradigma occidentale. Filosofi, matematici, biologi e molti altri scienziati dovettero riconsiderare la loro idea del mondo come una grande macchina che poteva essere compresa con l’analisi delle sue varie parti costituenti. Mentre si giungeva a una più profonda verità, ciò che prima era dogma divenne mero «meccanicismo» e «riduzionismo»: i fenomeni devono essere intesi come degli insiemi dinamici; quando li si riduce alle loro parti costituenti non possiamo ottenere un loro quadro accurato. Tutte le scienze tradizionali sono allora state considerate utili solo per descrivere la struttura dei fenomeni; per spiegare la loro funzione occorreva invece una nuova metodologia. Si dovette sostituire «il mondo come macchina» con «il mondo come sistema». 
Da questo iniziale cambiamento si sviluppò un gruppo di nuove discipline che non riuscirono a inserirsi nelle vecchie categorie: la semiotica, 
le varie forme di strutturalismo, la teoria dei giochi e della decisione, la cibernetica, la logica fuzzy e cose del genere. 

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Gli eterni quesiti filosofici, come il problema mente-corpo, l’oggettività, la contrapposizione tra il determinismo e il libero arbitrio e quella tra il meccanicismo e l’organicismo, cessarono di avere significato. Abbiamo cominciato a capire che quando manca una risposta soddisfacente, probabilmente c’è qualcosa che non va nella domanda. Senza dilungarsi oltre, è ora ovvio che la nostra intera concezione del mondo è basata su una risposta stupendamente falsa alla domanda «cos’è la realtà?». Come ha fatto la filosofia occidentale, che si basa su una tecnologia e una scienza vincente e omnicomprensiva, a cadere in un errore tanto grave? E come potevano le popolazioni indigene primitive, con i loro sciamani che ballavano intorno al fuoco e indossavano stupide maschere, essere così nel vero sul funzionamento della fisica e della cosmologia? La risposta non è difficile o arcana. Un’appropriata comprensione della natura dell’universo, dei suoi sistemi, della sua indeterminatezza, del suo olismo, è un processo di adattamento, che si evolve seguendo i successi della razza umana. Se i nostri antenati non l’avessero capito, non saremmo mai scesi dagli alberi. Analogamente, la nostra civiltà moderna ha stabilito le sue gerarchie e ha imparato a controllare la natura (incluse le persone) precisamente perché alcuni uomini hanno dimenticato ciò che l’evoluzione aveva loro insegnato. Grazie all’eccezionale flessibilità delle nostre menti (e delle nostre mani), siamo stati in grado di continuare quest’opera di aberrazione per molte migliaia di anni. Ma nella fisica come nell’evoluzione tutto deve avere una controparte, ci vuole un riequilibrio della bilancia. La sintropia si paga con un incremento dell’entropia. Si è chiesto un prestito, e ora bisogna pagare  le rate.

Il prezzo potrebbe essere altissimo: l’annientamento della nostra specie. La prima rata è già stata pagata sotto  la forma dei sistemi totalitari del nostro secolo, con le loro politiche di genocidio ed ecocidio, senza parlare delle guerre più distruttive della storia umana, nonché dell’attuale tasso di estinzione delle specie, senza precedenti nel passato. Gli anarchici non hanno adeguatamente affrontato il significato della storia del ventesimo secolo. Servendosi delle nuove metodologie di comprensione del mondo, si dovrebbe tuttavia capire, se si vuole andare avanti, che cosa sostenere o rifiutare. La visione occidentale del mondo ci ha lasciato molti bagagli inutili e ad alcuni siamo molto legati. Ciò nonostante, dovremo abbandonarli.

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Dicotomia e reificazione

Che cosa dovrebbero esattamente ripensare gli anarchici alla luce della nuova fisica e della teoria dei sistemi? La lista è già molto lunga e promette di allungarsi ulteriormente. Qui considereremo solo due delle illusioni occidentali che dovrebbero essere corrette: la dicotomia e la reificazione. Sono connesse l’una con l’altra e penso siano le più importanti. Il termine «dicotomia» ha origine da una parola greca che significa «tagliare in due», e ora è spesso usata per indicare la costruzione di false barriere che separano due o più cose in realtà unite. La dicotomia occidentale più pericolosa, già identificata dagli ecologi sociali, è quella tra physis (natura, realtà fisica) e nomos (legge, ordine stabilito dagli uomini). Il pensiero occidentale separa gli esseri umani (almeno i migliori) dal resto della natura. Questa convenzione risale probabilmente all’invenzione dell’agricoltura e all’incivilimento, ma non fu descritta in termini filosofici o teoretici fino al tardo periodo presocratico in Grecia. Nell’Antigone di Sofocle, il tema centrale analizza il conflitto tra la legge umana e le pretese degli dei. Il sofista Antifone, a volte considerato un proto-anarchico, dichiara che l’interesse personale è la legge base della natura. Le leggi della società richiedono invece di sottomettersi al bene della comunità, e sono quindi contro natura. Platone si occupò di questa interessante dicotomia nella Repubblica e in altri dialoghi, rendendola la caratteristica centrale e permanente della filosofia occidentale.

Non si è sicuri su chi utilizzò per primo i termini physis e nomos in opposizione l’uno all’altro. Tutti i filosofi dell’età classica si pronunciarono però sull’argomento. Una serie di regole (nomos) si applica a noi, l’altra (physis) al resto del cosmo. Questo è un buon esempio di quello che i Greci usavano chiamare hubris (arroganza), anche se non ne capivano l’ironia. La dicotomia presocratica tra physis e nomos fu probabilmente il primo e il più forte cambiamento confermativo all’interno del paradigma occidentale. Separandosi dal mondo, la cultura occidentale si arrogò il diritto di comandare, manipolare, sfruttare e forse anche distruggere quel mondo. Nella scienza tutto questo produsse l’universo a orologeria di Newton. Il risultato finale fu la famosa osservazione Oppenheimer: «Al diavolo la vostra etica. Questa è grande fisica». Nella religione produsse la distinzione fatta  da Agostino tra l’eterea Città di Dio e la fogna nota come Città dell’Uomo. Dio è considerato esterno all’universo, anche se prima di andarsene concesse ad Adamo ed Eva (che erano logicamente europei bianchi) di fare quello che volevano. Sino a poco tempo fa nessun serio sistema etico aveva discusso questa dicotomia di base. Anche gli anarchici classici ritenevano che l’uomo dovesse conquistare la natura. Il biocentrismo (o meglio l’ecocentrismo) dell’ecologia profonda è il primo segno che l’opposizione tra physis e nomos sta  venendo meno.

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Se sosteniamo che tutte le dicotomie sono false, da ciò consegue immediatamente che ne ritroviamo una in tutti i paradossi e in tutte le contraddizioni. Se diciamo «tutte le dicotomie», concludiamo con il suo contrario (olismo, unità?) e questa è di per sé una dicotomia. E «falso» presuppone «vero»: eccone un’altra. Non è difficile capire perché nascano tutte queste incongruenze. La struttura della logica e della ragione occidentale, implicita nelle nostre lingue indoeuropee (specialmente greco e latino) ci rende incapaci di parlare di qualcosa o di pensarla senza utilizzare dicotomie. Questa struttura logica è uno dei primi componenti del nostro paradigma culturale, forse è anzi la sua pietra di fondazione. È quasi del tutto impossibile cercare di operare senza usarla. Fino a ora solo i fisici quantistici, i mistici e alcuni filosofi che hanno utilizzato un modo di ragionare dialettico sono riusciti a farlo, ma anche loro non riescono a convertire i loro pensieri in un linguaggio comprensibile a tutti. Chi scrive non è così vanitoso  da pensare di riuscire a fare di meglio.

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La difficoltà dell’impresa non può però essere addotta come scusa. Si dovrebbe rigettare questa dicotomia e tutto ciò che vi è connesso. Si potrebbe scegliere di essere filosofi puri, e quindi considerare la questione da un punto di vista cosmologico; ma potrebbe essere meglio lasciare da parte per il momento questa possibilità per concentrare l’attenzione sul nostro pianeta e le nostre specie. Abbiamo una sola ecosfera ed è questa la cosa più importante. Il sistema sociale o politico che non riesce a riconoscerlo non può essere considerato genuinamente libertario. Tutte le dicotomie sono false, inclusa  quella tra la dicotomia e l’olismo. Qui l’anarchismo ha un vantaggio: è inerentemente dialettico, si oppone ai confini e alle barriere ed è flessibile. Come in tutte le filosofie occidentali, c’è una certa tendenza al dogmatismo, ma gli anarchici almeno ne riconoscono i pericoli. Si deve iniziare a considerare seriamente quello che intendeva Lev Tolstoj quando sostenne che la regola aurea era l’unica legge di cui l’umanità avesse bisogno. Ascoltare ciò che Pëtr Kropotkin aveva da dire sui vantaggi della cooperazione sulla competizione e ciò che Bookchin afferma sull’unità degli uomini con la natura. Gli anarchici hanno già assorbito molto dall’ecologia, dal femminismo e dalle tradizioni non-occidentali: questa tendenza deve continuare. Quello che non hanno ancora fatto è guardare ai nuovi sviluppi nelle scienze matematiche e nel regno della psicologia. Senza cadere nelle trappole della New Age o dell’ecofascismo. La strategia sta nel tener ben a mente tutte le falsità di tutte le dicotomie. La cosa successiva da fare è mettere in discussione il progetto centrale di reificazione degli occidentali: cosa più difficile da un punto di vista teorico. Il mondo è fatto di processi, non di cose: a questo deve adattarsi la strategia anarchica. Suggerisco che il punto dal quale partire sia una completa analisi anarchica del linguaggio. 
Si dovrebbe sapere di più sulle lingue non-occidentali, su come esse organizzano la realtà nelle menti di coloro che le parlano. Non voglio dire che l’anarchismo salverà il mondo imparando il nootka, ma è essenziale essere consapevoli del ruolo primario delle lingue per la conoscenza e la coscienza. Non si cambierà il mondo senza cambiare il modo in cui la gente pensa, e questo non succederà senza mutare la lingua in cui essi pensano. Al livello più semplice molto lavoro è già stato fatto: ora comprendiamo la discriminazione tra i sessi implicita nella lingua inglese e nelle sue cugine. Sappiamo che la connotazione negativa della parola «nero» ha contribuito al razzismo. Sull’altro versante, Noam Chomsky ha studiato la grammatica comune a tutte le espressioni linguistiche; non è un caso che il maggior filosofo del linguaggio del mondo sia anche anarchico. Ma ci sono molte altre strade da esplorare. L’etimologia è relativamente accessibile a tutti. Un esempio: la parola consciousness (coscienza) ha una grande varietà di usi contraddittori, sia nella lingua di tutti i giorni sia in quella tecnica. La radice viene dal latino scire (conoscere), che non aiuta molto finché non andiamo a riguardare l’indoeuropeo skei- (tagliare, dividere).Questo verbo riguarda oggetti che sono stati tagliati da un corpo più grande. L’irlandese scìan (coltello) è un cugino, come lo sono anche schism (scisma), schizoid (schizoide), shed (spartiacque), shield (scudo), sheaf (fascio) e anche shit (merda). Se skei- ha attinenza con sek-, come pensano i paleolinguisti, allora altri cugini sono scythe (falce), sword (spada), skin (pelle) e una grande famiglia di parole latine che derivano da secare, come anche sassone, ovvero «un guerriero con un coltello». La connessione profonda e inconscia  tra conoscere e tagliare è di grande importanza per il pensiero occidentale. Fin dall’inizio conoscere qualcosa significa separarlo dalla massa indifferenziata della realtà, tagliarlo, isolarlo, strapparlo dal posto che occupa nell’ordine olistico. Data questa inconscia connotazione di «conoscere», come poteva la nostra cultura evitare la dicotomia e la reificazione?

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In breve, si potrebbe bandire la reificazione se acquistassimo più coscienza del potere e della grande fluidità del linguaggio. Dobbiamo essere in grado di guardare la nostra tazza di caffè e capire che la sua oggettività separata è in gran parte un prodotto del nome reificante che utilizziamo per descriverla. 
Forse una delle ragioni primarie dell’insuccesso dell’anarchismo nell’attrarre l’attenzione del mondo è la sua inappropriata comprensione della reificazione. L’ideologia si oppone allo sfruttamento e al dominio, al mettere l’etichetta del prezzo su tutto, alla generalizzazione e allo stereotipo. Sostiene la cooperazione e l’interconnessione, il rispetto e l’accettazione. Ma è sostanzialmente  incapace di giustificare perché sostiene questi valori. Se lo scopo è mettere fine al dominio di una persona sull’altra, o degli uomini sulla natura, bisognerebbe dimostrare la fallacia della reificazione. Scegliamo una manciata di processi dal grande flusso e gli diamo un nome: così facendo creiamo l’Altro. L’errore della reificazione sta nell’indicare un «quello», un «lui», una «lei» come se fossero Altro da Noi. È questo il fondamento di ogni ideologia, di ogni dicotomia e di ogni credenza nel fatto che «Noi non siamo Loro». E questa è anche la giustificazione per tutte le forme di dominio.

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I DIRITTI DELL’ECOSISTEMA

Quali sono le implicazioni per un anarchismo inteso come un progetto vivo e dinamico? Anche nei suoi stadi contemporanei, il paradigma post-occidentale implica alcune difficili concessioni. La prima, la più dolorosa, è il concetto di autonomia individuale, insieme a tutti i suoi corollari. Quelli che una volta erano considerati diritti individuali dovranno essere riconosciuti come diritti dell’ecosistema. Noi li possediamo non perché siamo degli individui, ma perché facciamo parte dell’universo olistico. Confronto ad altri sistemi sviluppati dal liberalismo o dal socialismo ottocenteschi, l’anarchismo è più preparato per affrontare questo cambiamento. Altre ideologie si focalizzano sull’autonomia individuale o sulla comunità indifferenziata; solo l’anarchismo si avvicina al modello che permette l’esistenza di un individuo libero all’interno di una autentica comunità. È possibile migliorare questo modello, sia nella teoria sia nella pratica, incorporandovi i concetti post-occidentali. Per ora gli approcci più promettenti sono quelli di filosofi come Kenneth Goodpaster, Christopher Stone, Tom Regan e Peter Singer, che si interessano in primo luogo ai «diritti» degli animali e di altre entità non umane. L’idea che gli individui abbiano dei diritti inalienabili è chiaramente un concetto umano, incomprensibile e irrilevante per le vacche, le lumache di mare e le petunie. Allo stesso tempo è chiaro che tutti gli esseri viventi condividono con noi certi interessi quali la sopravvivenza, la riproduzione, la libertà dal dolore, e che gli anarchici fondano la definizione di diritti proprio su questi interessi. L’enigma che ne segue non trova soluzioni all’interno dei confini del pensiero occidentale. Quindi ci si deve rivolgere altrove per trovare risposte radicalmente nuove. Non si può sapere cosa se ne conseguirà, ma gli anarchici faranno meglio a starci molto attenti. 

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In secondo luogo, si deve rendere l’anarchismo sia post-ideologico sia post-occidentale. Si potrebbe cominciare dall’abbondanza di letteratura esistente su cosa significa essere post-ideologici. La maggior parte di essa  deriva dal decostruzionismo ed è perciò piuttosto oscura e pretenziosa, ma forse si è sulla strada giusta. Si potrebbero anche considerare i principi del bioregionalismo, della risoluzione di mediazione e conflitto, delle cooperative, della politica dell’identità, della medicina olistica, e persino quelli degli hackers, nonché di altri concetti del genere orientati a migliorare la qualità della vita quotidiana senza l’aiuto del governo. Comunque la strategia antideologica più promettente ha profonde radici nella storia dell’anarchismo. È il principio della grandezza della comunità. Se pensiamo alle società umane (siano esse cooperative alimentari di quartiere o imperi) come a sistemi in equilibrio dinamico, diviene evidente che il modo in cui sono organizzate ha meno importanza, per la loro sopravvivenza a lungo termine, della loro dimensione. Gli «zappatori» e William Godwin capirono questo principio e così fecero la maggior parte degli anarchici classici. Anche oggi si dà molta importanza alla grandezza ideale di una comune, di una collettività, insomma dell’unità base della società anarchica. Cosa direste se doveste intervenire in un dibattito e il gruppo fosse troppo ampio? Una delle regole di base della società occidentale è che «grande è bello» e gli anarchici l’hanno respinta molti anni fa. Ma l’anarchismo è pur sempre un’ideologia e ha sempre affrontato il problema della dimensione come un problema ideologico. Ovvero, ci si preoccupa più di sapere se l’unità politica è capitalista, marxista o fascista, che di sapere se è grande o piccola. 

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Nel mondo post-occidentale potremo trovare comunità di nazisti, di satanisti, di repubblicani: ma che pericolo ci sarà se nessuno verrà costretto a farne parte e se esse saranno troppo piccole e decentrate per minacciare tutti gli altri? Hakim Bey (Peter Lamborn Wilson) ha persino affermato che la monarchia non è necessariamente incompatibile con l’anarchismo. Questo genere di elaborazioni sicuramente allarmerà molti anarchici, ma bisogna essere di ampie vedute. 
La teoria dei sistemi è un valido aiuto. Tutti i sistemi sono correlati e interconnessi con altri, in una rete complessa che si estende dall’ecologia di una pozza d’acqua alle più lontane frontiere dell’universo. I sistemi individuali primari tendono comunque a essere molto semplici. Se hanno pochi elementi non durano molto; se ne hanno troppi crollano sotto il loro stesso peso, producendo spesso danni gravi. Una dimensione ideale che crea le  maggiori possibilità di stabilità e di longevità esiste. I sistemi sono destabilizzati dalla presenza di «attrattori caotici», ovvero elementi non  previsti che non si armonizzano con il resto del sistema e tendono a fargli perdere equilibrio. Un numero sufficiente di questi attrattori possono distruggere tutto il sistema. Più questo è grande e più è propenso alla distruzione. L’odierna disintegrazione della civiltà occidentale è un esempio calzante. Questo non è un argomento contro la diversità e in favore dell’uniformità. Infatti, più un sistema è diversificato e più è stabile: questa intuizione è il grande contributo della scienza ecologica alla teoria politica. Stiamo parlando di quantità, non di qualità. La generazione di anarchici successiva dovrà risolvere questo insieme di idee piuttosto complicato. Quelli di oggi non ci riescono perché non possono pensare senza utilizzare dicotomie e reificazioni, ma forse quelli che verranno potranno fare di meglio.
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In terzo luogo, bisogna prendere seriamente in considerazione l’idea di uguaglianza. Questo significa opporsi a tutti i movimenti o le tattiche che separano o alienano le persone l’una dall’altra: il razzismo, la discriminazione sessuale, il bigottismo in tutte le sue forme, lo sciovinismo sia maschile sia femminile, ogni situazione elitaria, dai bagni dei dirigenti alle confraternite dei college. Anche la distinzione tra anarchici e non anarchici è un errore. I governi e le élite di potere sanno che svanirebbero come la rugiada in una mattina d’estate se utti all’improvviso cominciassero a pensarsi uguali. «Dividi per dominare» è la regola numero uno del bigino dell’establishment. Si devono distinguere e quindi combattere tutte le distinzioni di classe, ed evitare ciò che artificiosamente separa una persona dall’altra. Chiedete a un proprietario di una Cadillac perché guida una macchina così costosa e pretenziosa in un mondo di povertà e di risorse energetiche in diminuzione, e la risposta probabilmente sarà per «comodità» e «affidabilità», come la pubblicità l’ha istruito a fare. La sfida sta nel riuscire a rivelare a tutti le vere motivazioni che stanno dietro alle cose. Andare ad Harvard è fantastico, ma non si deve pensare di essere «migliori» di una matricola di una università minore. Leggete Thorstein Veblen quando parla della «classe agiata». Il suo stile è un po’ rigido e il suo spirito è troppo sottile per molti, ma ha ragione. Sicuramente devono essere poste molte altre questioni. Come potrà l’anarchismo post-occidentale incorporare la teoria dei sistemi nella sua pratica educativa, nella sessualità, nell’arte e nella musica, nell’azione diretta, nell’effettiva democrazia, negli stati di coscienza alternativi? Tutto ciò potrà essere attuato se l’’anarchismo accetterà il compito di spiegare perché la natura della realtà e della coscienza non permette l’oppressione  di un essere umano sull’altro. La sua prassi sarà di definire  le relazioni umane in modo da assicurare la cooperazione, la produttività e la crescita senza l’esercizio del dominio. Per raggiungere questo scopo l’anarchismo dovrà adattarsi a nuove discipline (non solo all’ecologia, ma anche alla fisica e alla psicologia), e integrarle al suo interno. 

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I sistemi complessi e dinamici funzionano meglio quando il coro canta all’unisono. Questo non significa un grigio conformismo, come sarebbe sotto il gerarchico e meccanicistico paradigma occidentale, ma implica piuttosto una dialettica vigorosa di idee in movimento. Per questo gli anarchici devono sostenere lo sfaldamento delle tradizionali frontiere fra le discipline intellettuali; questo sta già avvenendo e gli anarchici sono rimasti indietro. L’anarchismo del futuro sarà, come immaginò Kropotkin, una  completa e coerente visione ecologia e scientifica del mondo, non solo un’ideologia politica. Devono essere gli anarchici, e non i fisici e gli ecologi, a stabilire ciò che questo significa.
 
 

(traduzione di Elisabetta Nifosi)


 
o (18 giugno  2001)

Questo articolo
è tratto da Libertaria, ringraziamo l'autore
e la redazione 
della rivista 
per la gentile concessione.

INTRODUZIONE

Il pensiero 
anarchico, 
come è andato 
affermandosi, condivide, pur 
nella radicalità della critica 
alla società 
del dominio,
i paradigmi 
della razionalità
occidentale. 
E oggi c’è chi 
sostiene che 
gli sviluppi 
della fisica dopo Albert Einstein, 
la teoria 
dei sistemi, 
la meccanica quantistica 
e altre nuove 
acquisizioni scientifiche, 
coniugate 
con la sensibilità 
e le intuizioni sul funzionamento del mondo 
dei popoli 
cosiddetti 
primitivi, possano aprire nuove 
frontiere 
alla pratica 
della libertà, 
dell’eguaglianza 
e della diversità. 
Un approccio 
sicuramente 
originale, 
ma da non 
confondere con la 
«moda New Age». È una strada 
percorribile? Sì, secondo Thomas 
S. Martin, 
collaboratore fisso della rivista 
americana 
Social Anarchism che sul 
numero 23, 
ha pubblicato questo saggio,
titolo originale: Steps Toward 
a Post-Western 
Anarchism.



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