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Un
nuovo movimento di lotta lillipuziano e nonviolento
Alcune ragioni per scegliere un metodo
di lotta consapevole fondato sul dialogo
di PASQUALE PUGLIESE
In
questi ultimi anni, a cavallo tra due secoli, molti nodi stanno venendo
al pettine.
Da un lato, gli esperti indicano ormai come prossimo il muro dell’insostenibilità ambientale contro il quale il treno in costante accelerazione dello sviluppo capitalista si sta per schiantare, con l’innesco entro qualche decennio – se nessuno frena bruscamente - di una crisi sistemica globale che aprirà scenari di miseria per tutti e di guerre per l’accaparramento delle ultime risorse petrolifere ed idriche(1). Dall’altro lato, dopo un lungo periodo di tessitura isolata di filamenti di resistenza, gruppi sempre più numerosi di cittadini in tutti i paesi del mondo - al Nord come al Sud - stanno collegandosi in un movimento internazionale di opposizione e costruzione delle alternative a questo modello. Seattle, nel cuore dell’Impero, rappresenta ormai il luogo reale e simbolico di avvio della resistenza organizzata; Porto Alegre, alla sua periferia, rappresenta, con il Forum Sociale Mondiale di gennaio scorso, il luogo di avvio dell’elaborazione del programma costruttivo comune per la realizzazione del "mondo diverso possibile". Per entrambi i percorsi la prossima tappa sarà l’appuntamento del 20/21/22 luglio a Genova con i responsabili politici degli otto paesi più ricchi del mondo. I rischi All’interno di questo scenario di rinnovato conflitto sociale condotto in modo ampiamente pacifico e creativo, ed a volte decisamente nonviolento (2), da parte della maggioranza dei partecipanti – e per questo collettore di simpatia anche di persone e gruppi non usi a mobilitazioni di piazza – alcuni segnali indicano un rischio di involuzione verso il cul de sac, già visto, della guerriglia urbana e della repressione poliziesca. Un movimento che a Seattle ha raggiunto il massimo di risultato – blocco e fallimento dell’assemblea del WTO – con l’imprevedibiltà e l’assenza (quasi) totale di violenza, si è via via avvitato nelle successive mobilitazioni pubbliche in un doppio circuito negativo: la ripetitività e l’aumento degli atti di violenza. Ogni incontro pubblico di organismi internazionali, formali o informali, vede ormai il rito delle, ampiamente prevedibili, manifestazioni contrarie con la conseguente militarizzazione delle città; ogni manifestazione o corteo vede ormai il rito dello sfasciamento delle vetrine dei McDonald e delle banche da parte di alcuni gruppi organizzati con la conseguente repressione, sempre più dura, delle polizie nei confronti di tutto il movimento. Gli avvenimenti di Napoli in marzo hanno dato la percezione di una vera e propria escalation della violenza e il preciso segnale del rischio involutivo del nuovo conflitto verso forme vecchie di lotta, già sperimentate negli anni ’70, che hanno prodotto come estrema, ma inevitabile, conseguenza il terrorismo, la repressione e la stabilizzazione del sistema. Le possibilità Eppure, le condizioni di malessere sociale ed esistenziale, di incertezza di fronte al futuro, di diffidenza rispetto alla pretesa razionalità del sistema, percepite più o meno distintamente da una grande maggioranza di persone – frastornate da mucche pazze, uranio impoverito, cibi geneticamente modificati, disoccupazione, immigrazione, inquinamento, alluvioni, aumento del costo del petrolio ecc. ecc. - potrebbero oggi favorire la trasformazione del disagio diffuso in dissenso e del dissenso in lotta. Ma perché questa alleanza con i cittadini del Nord del mondo, ricco e malato, possa avvenire è necessario che l’azione politica dei movimenti si indirizzi sempre più verso una pratica che sveli, nella struttura e nei metodi, la violenza del sistema mettendone a nudo i meccanismi perversi che producono miseria, insicurezza, devastazione culturale e ambientale e guerre. Non può avvenire invece attraverso manifestazioni di piazza che, trasformandosi in prove di forza con la polizia, allontanano le persone dalle nostre ragioni a causa della militarizzazione del conflitto. Tra la violenza grande, ma nascosta ai più, del potere e la violenza pur piccola, ma amplificata dai media, dei contestatori è sempre la seconda che suscita tra la gente spavento e richiesta di protezione allo stesso potere di cui essa è, per molte ragioni, suddita e vittima. La nonviolenza Per minare le basi del consenso su cui si fonda il potere pervasivo del nostro sistema di consumo e sfruttamento, per trasformare il disagio da esso generato in lotta consapevole, bisogna perciò imboccare, come scelta strategica del movimento di lotta in costruzione, la strada nuova – ma antica come le montagne – della nonviolenza. Non della generica e tattica non violenza che, in negativo, si astiene dal compiere atti violenti, ma della specifica nonviolenza che, in positivo, assume l’insieme dei principi e delle caratteristiche che definiscono il metodo nonviolento a partire dalle campagne gandhiane. E’ questo il metodo di lotta che mira alla comunicazione trasformatrice tanto con l’avversario che con le terze parti, ossia, appunto, con i cittadini da coinvolgere dalla nostra parte. E’ questo il metodo che mira non alla presa del potere, e quindi allo scontro con esso sul piano della forza, ma alla trasformazione di quello da potere dei pochi sui molti a potere di tutti. Del resto, anche l’ultima rivoluzione armata del ‘900, l’insurrezione zapatista (che, con la sollevazione del 1° gennaio 1994 in Chiapas, ha anticipato molti dei temi dei movimenti di resistenza anti-globalizzazione) ha compreso la necessità di abbandonare progressivamente le caratteristiche della guerriglia, al fine di favorire la propria capacità di radicamento e dialogo con l’intera società messicana, evolvendosi verso forme di mobilitazione nonviolenta (3). La novità Nel panorama italiano dei movimenti c’è in questo senso un elemento nuovo, potenzialmente capace di produrre la trasformazione in senso nonviolento del conflitto sociale ed ecologico: è la Rete di Lilliput per un’economia di giustizia (4). Sono le centinaia e centinaia di associazioni che in tutta Italia, collegandosi in oltre cinquanta nodi locali, hanno scelto con nettezza e definitivamente la strada della nonviolenza nella lotta di resistenza alla globalizzazione neoliberista e per la costruzione di un’economia sostenibile e di giustizia. Sono ormai numerosi i pronunciamenti e le riflessioni, dal Manifesto di costituzione in avanti, sia a livello locale che nazionale, che indicano nel metodo nonviolento il punto di riferimento irrinunciabile delle Rete di Lilliput. L’ultima approfondita e articolata riflessione sulle strategie lillipuziane di mobilitazione, a cura del Tavolo intercampagne, definisce la nonviolenza "il principio etico/valoriale insito nella stessa costituzione della Rete di Lilliput" e insiste sulla necessità politica - per superare la "sindrome di ripetitività" nella quale le manifestazioni del popolo di Seattle rischiano di cadere – "di attivare tutta la ricchezza di una strategia nonviolenta" (5). Probabilmente mai prima d’ora un ampio e variegato movimento, capace di mobilitare migliaia di persone sui temi sociali ed economici, aveva compiuto una scelta di campo così esplicita per la nonviolenza. Conclusioni Naturalmente non sono sufficienti le dichiarazioni d’intenti. E’ necessario fare ancora chiarezza intellettuale su ciò che tra i lillipuziani si intende per nonviolenza. Sarebbe sicuramente utile, in tal senso, riferirsi esplicitamente al metodo satyagraha per evitare il rischio che le interpretazioni di questo principio siano talmente elastiche da accogliere in sé approcci di lotta estranei alla tradizione nonviolenta. E’ necessario dare sostanza alle affermazioni di principio avviando percorsi di formazione teorico-pratici alla nonviolenza specifica, per prepararsi alle azioni già in vista del contro-vertice di Genova. E’ necessario infine puntare molto sul "programma costruttivo", che è il sale di ogni lotta nonviolenta, da cominciare a realizzare qui ed ora. Ma perché tutto ciò possa realizzarsi appieno è necessario soprattutto il contributo partecipe e fattivo dei movimenti nonviolenti - e della loro esperienza maturata sul campo in decenni di lotte antimilitariste ed antinucleari – affinché, con la Rete di Lilliput, si possa costruire il primo esperimento in Italia di lotta nonviolenta di massa nel campo della violenza strutturale. Prima che sia troppo tardi. ___________________________ Vedi
Alberto di Fazio Le grandi crisi ambientali globali: un sistema in agonia,
il rischio di guerra, si trova in Scienziate e scienziati contro la guerra
Contro le nuove guerre, ODRADEK edizioni 2000;
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o | Il
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(30
marzo 2001)
- Altri
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