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Kurdi e turchi, la libertà di stampa violata
Le opinioni represse a Istanbul: le voci della comunità kurda e il caso di Nadire Mater
 

di CHIARA VERGANO

  "Questo è il mio villaggio. Si chiama Qurze". Sengul (che vuol dire rosa ridente), 26 anni, avvicina due fotine un po' sbiadite, e indica che Qurze è proprio lì, dove le due immagini si toccano. Ma per quanto ci si sforzi di  vedere, le foto restituiscono solo sassi, rocce e alberi in bilico su  profili montuosi. Nessuna traccia del bipede uomo, tantomeno di case. Un paesaggio quasi lunare.
"E' stato distrutto dai militari" racconta rosa ridente. "Avevo 13 anni quando sono arrivati. Si sono portati via mio padre, l'hanno tenuto per un anno in prigione, picchiandolo e torturandolo. Poi l'hanno liberato, lui è tornato a casa. Un mese dopo è morto". Sengul morde un pezzetto dal quadratino di zucchero, ingoia un sorso di the scuro ("Come si usa in  Kurdistan") e continua il ripescaggio nella memoria. "Io, mia madre e le mie due sorelle abbiamo deciso di andarcene. Cosa potevamo fare lassù, sole tra le montagne? Così siamo venute a Istanbul".

   Sengul abita in periferia. Ogni giorno macina due ore di bus per andare a lavorare. Appena può viene al Centro di cultura mesopotamica, accorciato  familiarmente in Mkm. Il nome non deve ingannare: sui muri nessuna cartina racconta le terre dove Tigri ed Eufrate danno acqua, mentre gli Assiri  guerrieri e i Babilonesi astrofili sono un reperto del tempo che fu. Al Mkm ci si ritrova a bere un the, un caffè, a fare due chiacchiere tra amici, mentre la filodiffusione trasmette i Koma Amed, il gruppo musicale curdo più famoso. Spas (grazie) al posto del turco sagol: il Mkm è forse l'unico posto a Istanbul dove la lingua indoeuropea, nella variante dei suoi quattro, 
cinque dialetti, si può parlare con relativa tranquillità. Ogni tanto la polizia fa i due piani di scale a chiocciola, con i gradini in marmo un po' sbilenchi, tanto sono consumati. Arriva tra gli Hay nik na nik na / Niki niki nanna dei Koma Amed, prende chi c'è, lo mette il prigione, il giorno dopo lo ributta fuori. 
   Sengul fa parte dei circa due milioni di curdi che hanno abbandonato il Sud Est del paese e oggi vivono nella metropoli di Istanbul. Molti di loro sono ormai turchizzati. Lo testimonia il fatto che Hadep, il partito democratico curdo, ottenga circa il 60% dei consensi a Dyarbakir, nel cuore del  Kurdistan turco, mentre a Istanbul raccatti al massimo l'1 %. Sui monti restano i vecchi. Come Zelo, protagonista nel cortometraggio Ax ("Terra"), ventotto minuti belli e terribili insieme. L'uomo prima seppellisce la moglie, poi il cane, ucciso dai militari. I nipoti se ne 
vanno con le loro poche cose, senz'altro verso un porto, per montare su un guscio colabrodo pagato profumatamente. Al vecchio restano solo terra e ricordi.

   "A Qurze l'elettricità non arrivava" racconta Sengul. "Qui a Istanbul ci sono tante comodità. Non so se sarei capace a vivere di nuovo laggiù, dopo tanti anni. Poi penso a quando giocavo tutto il giorno con la mia sorella gemella, su per i boschi, con le nostre pecore. Allora mi dico che ho avuto due vite. E che la prima era migliore".

   Si dice che la situazione, a Istanbul, in fatto di tolleranza verso i curdi, sia migliorata rispetto a qualche anno fa. Ma di solito le origini vengono nascoste, custodite come un segreto. E rivelate a fatica, solo dopo un po' di tempo che ci si conosce. Come il cameriere della pizzeria vicino al capolinea di Sultanahmed, la città vecchia, che ha taciuto al proprietario del locale la sua curdità per paura di non essere assunto. Esiste anche una lista di nomi "vietati", perché rigorosamente curdi. Non lascerebbero dubbi sulla provenienza della persona, come nei Balcani un Goran, indiscutibilmente serbo, o un croatissimo Ivo, o un musulmano Jasmin.

   Il quotidiano curdo c'è e non c'è. Chiuso dalla polizia, ricompare dopo qualche tempo con un altro nome. Il vecchio Ozgur Bakish è stato sostituito da Yeni Gundem 2000. Ma la sostanza è immutata, come il suo direttore, Ragip Zarakolu. La stanza "buona" della redazione, quella di rappresentanza, è una galleria in bianco e nero di colleghi che non ci sono più. Nessuno è morto nel letto di casa. A contarli tutti si rischia di perdere il filo. Ragip commenta l'apertura del giorno, il bombardamento di un villaggio del Kurdistan iracheno, avvenuto a metà agosto. Sono morte una quarantina di civili, quasi tutti pastori. Le foto sono arrivate due settimane dopo. 

   Yeni Gundem 2000 si trova con facilità a Istanbul. Nel Sud Est del paese, 
invece, è praticamente clandestino. "Il cammino per la democrazia, nel nostro paese, passa attraverso Dyarbakir" ripete Alì Isingor, direttore di un settimanale d'informatica. "La Turchia vuole entrare nella Unione europea. Ma prima deve risolvere il problema del Kurdistan. Altrimenti rimarrà tagliata fuori e si ritroverà isolata, lontana sia dall'Europa, sia dal mondo arabo che già la stigmatizza come 
paese troppo laicizzato".

   Non è solo il quotidiano curdo a fare le spese di una libertà di stampa ancora troppo spesso violata. Oral Çalislar, redattore dell'autorevole quotidiano Chumuriet, ha avuto problemi con la legge per una serie di articoli scritti sul caso Ocalan. Ma il caso più noto in quest'ultimo anno è forse quello di Nadire Mater, giornalista turca dell'Interpress e membro dei Reporters sans frontiers. All'inizio del '99 Nadire pubblica "Il libro di Mehmet", raccolta di 42 interviste a ex soldati dell'esercito turco, mandati a combattere tra i monti del Sud Est  dal 1984 al 1998. Gli anni della 
guerra contro il Kurdistan, appunto. "Sono storie di guerra, di ritorni a casa, di sofferenza" spiega Nadire. "E' stato quasi un lavoro da operatore sociale. Per loro, reduci, era un po' una terapia. Mi ricordo bene quando un giorno mi telefonò il padre di uno di questi ragazzi. Il figlio stava male, piangeva. Mi chiese di intervistarlo".

    Il libro, il primo scritto da Nadire, va letteralmente a ruba, tanto che ne fanno alcune ristampe. Poi, il 23 giugno dello stesso anno, il Comando militare per la sicurezza lo mette al bando. Nadire Mater e il suo editore, Semih Sokmen, finiscono sotto processo. L'accusa è di "insulto e vilipendio alle forze militari", entrambi rischiano dai sei ai dodici anni di prigione. Per la sesta volta, il 24 agosto scorso, giornalista ed editore si sono presentati alla Seconda corte criminale di Istanbul. Hanno letto la loro autodifesa, dopo il discorso dell'accusa e dell'avvocato difensore. A sostenere Nadire c'erano i colleghi della stampa turca. C'era molta stampa straniera, più una firma prestigiosa, Peter Arnett della Cnn. C'erano anche 
tre obiettori di coscienza, Ugur, Timucin e Asan, che lo scorso maggio hanno 
dichiarato pubblicamente il loro rifiuto alle armi e ora rischiano la prigione. Ma fuori dall'aula, ad aspettare davanti alla porta sbarrata dalla polizia, c'era anche molta gente comune. Uomini con le maniche della camicia arrotolate e donne in chador. Il giudice ha preferito rimandare ancora al 29 settembre: in questa data, finalmente, Nadire e il suo editore sono stati assolti.


o Questa è una versione aggiornata di un articolo uscito già sul mensile 
Sempre, dell'Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini. 



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(19 ottobre 2000)
 

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