di CHRISTINE GOSDEN
Il 16 Marzo del 1988, Halabja, una città curda
del nord Iraq di 45.000 abitanti, fu sottoposta, nel corso di un’azione
militare irachena, al più massiccio bombardamento con armi chimiche
che sia mai stato usato nei confronti di civili.
Gli agenti chimici
usati erano un “cocktail” di iprite (dannosa per la pelle, gli occhi e
le membrane dell’apparato respiratorio) e di gas asfissianti nervini denominati
“sarin”, “tabun” e “VX”. I veleni chimici impregnarono la pelle e gli abiti
della gente, ne attaccarono le vie respiratorie e gli occhi, e contaminarono
acqua e cibo. Molte persone caddero uccise all’istante, lì dove
si trovavano in quel momento, prime vittime dell’attacco. Si stima che
morirono così circa 5000 persone. Alcuni vennero trasportati immediatamente
negli Stati Uniti, in Europa o in Iran per essere curati. La maggior parte
fece presto poi ritorno ad Halabja.
Nessuna indagine medica
Da allora nessuna
équipe medica, irachena, europea o americana, nessuna agenzia internazionale,
ha valutato gli effetti a breve termine o le conseguenze a lungo termine
che hanno avuto i bombardamenti chimici. Gwynne Roberts, un regista, girò
nel 1988 un film sull’attacco chimico che fu premiato. Il film si intitolava
“Venti di Morte” (“The Winds of Death”). Vidi questo film, che mi colpì
profondamente.
Gwynne
è ritornato ad Halabja lo scorso anno (1997), ed è rimasto
impressionato dalla quantità di sopravvissuti che, già a
prima vista, apparivano in pessime condizioni di salute. Non riusciva a
capire come mai nessuno avesse mai cercato di verificare cosa stesse accadendo
a quelle persone. Mi ha convinto che avrei dovuto fare qualcosa. Perché
mai una donna, docente di genetica, ha voluto intraprendere un viaggio
come questo? Sono andata per imparare ed aiutare.
Era la prima volta che una
terribile mistura di armi chimiche veniva impiegata contro una così
vasta popolazione civile. Volevo vedere la natura e l’entità dei
problemi che aveva la gente, ed ero sconcertata che in dieci anni dall’attacco
nessuno, incluse le principali organizzazioni umanitarie, avessero visitato
Halabja per determinare esattamente gli effetti che avevano avuto quei
bombardamenti.
Ero preoccupata di possibili
effetti, quali malformazioni congenite, sterilità e cancri, indotti
non solo in donne e bambini, ma nell’intera popolazione. Temevo anche che
potessero esservi altri effetti gravi a lungo termine, come cecità
e danni neurologici, per i quali non esiste nessuna terapia conosciuta.
Danni al sistema nervoso,
alla vista, all'apparato respiratorio
Quello che ho
trovato è stato di gran lunga peggiore di quanto avessi mai potuto
immaginare. Le sostanze chimiche avevano seriamente danneggiato il sistema
nervoso e respiratorio e gli occhi della gente. Molti erano diventati ciechi.
Frequenti le malattie della pelle, con gravi piaghe che spesso degenerano
in cancri della pelle.
Lavorando insieme ai medici
del posto, ho confrontato l’incidenza di sterilità, malformazioni
congenite e cancri (includendo cancri alla pelle, al cranio, collo, sistema
respiratorio, tratto gastrointestinale, seno e tumori infantili) tra coloro
che allora si trovavano ad Halabja con quella di una popolazione di una
città situata nella stessa regione e non interessata dai bombardamenti
chimici.
Ho trovato che la frequenza
di queste patologie risultava ad Halabja tre o quattro volte maggiore,
anche a distanza di dieci anni dall’attacco.
Tumori e malformazioni
congenite
Un numero sempre
crescente di bambini muore ogni anno di leucemie e linfomi. I tumori tendono
a manifestarsi ad Halabja in popolazioni molto più giovani che altrove,
e molte persone hanno tumori aggressivi, per cui i tassi di mortalità
sono molto alti. Nella regione non è disponibile né chemioterapia
né radioterapia. Ho verificato anche che la chirurgia pediatrica
è del tutto carente, e sarebbe fondamentale per poter intervenire
sui principali difetti cardiaci congeniti, labbro leporino, gola lupina
e sulle altre gravi malformazioni dei bambini. Questo significa che ad
Halabja stanno morendo di malattie cardiache bambini che potrebbero essere
operati e con buona probabilità sopravvivere se vivessero in Gran
Bretagna o negli Stati Uniti. E’ stato per me molto penoso vedere volti
di bei bambini sfigurati da labbra leporine o palato lupino, sapendo che
esperti chirurghi in Europa e nel nord America correggono ogni giorno questi
difetti.
Mancano i mezzi per curare
la gente
Quasi in ogni
strada, in ogni casa, in ogni reparto ospedaliero si assiste ogni giorno
alla tragedia umana delle conseguenze neuropsichiatriche dei bombardamenti
chimici. La gente piange ed ha gravi disturbi depressivi. Le tendenze suicide
sono palesemente evidenti. Spesso i chirurghi si trovano a dover asportare
proiettili dal corpo di persone che hanno tentato il suicidio.
Molti hanno danni neurologici
o effetti neuromuscolari a lungo termine. Molte persone non possono permettersi
nemmeno i più economici trattamenti terapeutici o farmaci, e perciò
sono riluttanti a recarsi all’ospedale. Al momento ad Halabja non esistono
terapie efficaci per nessuna di queste patologie, anche nel caso di trattamenti
“salva-vita”.
Il fatto che
si riscontrino gravi malformazioni congenite di origine genetica in bambini
nati anni dopo l’attacco chimico indica che gli effetti di queste sostanze
chimiche vengono trasmessi alle generazioni successive.
Una comunità che
non può riprodursi
La presenza
di alto tasso di aborti, di morti infantili e di sterilità significa
che in questa comunità la vita non può più riprodursi.
Gli abitanti speravano che dopo l’attacco avrebbero potuto ricostruire
le famiglie e le comunità distrutte. L’impossibilità della
ricostruzione ha portato la gente alla disperazione. Ne ha frantumato la
vita e le speranze.
Un sopravvissuto
racconta di essersi rifugiato in uno scantinato con circa un centinaio
di altre persone, tutte morte durante i bombardamenti. I sopravvissuti
non solo devono confrontarsi con il ricordo dei loro cari morti all’improvviso
tra le loro braccia, ma devono anche sopportare malattie dolorose che colpiscono
loro stessi, amici e parenti. Molti hanno più d’un problema grave,
come malattie respiratorie, nervose, dermatologiche, degli occhi, tumori
e figli disabili con malformazioni congenite, deficit mentali, paralisi
cerebrale e sindrome di Down.
Dieci anni
dopo l’attacco chimico, la gente sta soffrendo di molteplici effetti, tutti
attribuibili a danni a lungo termine del DNA.
Servono aiuti immediati
Il giorno prima
del nostro arrivo era stato lanciato un appello radiofonico in cui si chiedeva
alle persone con problemi di salute di recarsi in ospedale per una ricognizione.
Il primo giorno si sono presentate 700 persone, di cui 495 avevano due
o più gravi problemi di salute. Ci siamo imbattuti in casi estremamente
tristi.
La popolazione di Halabja
necessita di aiuti immediati. Sono necessari specialisti (come chirurghi
pediatrici), apparecchiature e farmaci. Ancor più essenziale provvedere
a bisogni primari, come riscaldamento, acqua pulita e sforzarsi di salvaguardare
la popolazione da ulteriori attacchi futuri.
Dobbiamo renderci
conto che le conoscenze mediche e scientifiche di cui disponiamo su quali
siano i metodi più adeguati di trattamento delle vittime di un attacco
chimico di tale portata sono davvero esigue. E’ necessario ascoltare, pensare
e valutare con grande attenzione, poiché molte di queste persone
sono state esposte a strane combinazioni di gas tossici. Molti presentano
quadri clinici mai visti o documentati prima d’ora.
Non si sa come affrontare
i danni
Di fatto non
abbiamo alcuna conoscenza su come trattare i problemi derivanti da armi
così devastanti, con conseguenze di tale atrocità mai riscontrate
in passato.
Le immagini che girarono
il mondo dopo l’attacco del 1988, diffuse dai giornali e dalle televisioni,
erano raccapriccianti. Una foto riproduceva un padre che moriva stringendo
a sé due gemelli neonati, nel tentativo di far loro da scudo con
il corpo. Una statua che riproduce quell’immagine è all’ingresso
di Halabja. Non è la tradizionale statua di un eroe che si erge
fiero, scolpito in pietra o bronzo a rappresentare il successo ed il trionfo
dell’uomo, ma è l’immagine di un uomo prostrato ed agonizzante,
che muore nell’atto di proteggere i suoi bambini.
Un profondo
brivido mi ha attraversato quando sono entrata nella città ed ho
visto quella statua..E’ stato come una nube tossica psicologica che si
è calata su di me, difficile da scacciare. Si è fatta più
intensa quando ho incontrato la gente, ho ascoltato le loro storie ed ho
visto l’entità degli effetti patologici a lungo termine.
Le immagini
terribili della gente di Halabja e la loro situazione ritornano di notte
nei miei incubi e riappaiono di giorno nei miei pensieri. Forse il persistere
di questi vividi ricordi mi è di monito che ora l’impegno più
importante deve essere quello di tentare di portare aiuto a questa gente,
con tutte le nostre forze.
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Christine
Gosden
è
docente di genetica medica all’Università di Liverpool.
Nella
totale assenza delle agenzie internazionali, la Gosden è l'unico
esperto che ha studiato gli effetti dei bombardamenti chimici iracheni
sul Kurdistan
La
denuncia sull'assenza di indagini mediche da parte di agenzie internazionali
e sulla necessità di organizzare un intervento sanitario resta valida
anche a due anni
dalla
prima pubblicazione di questo articolo: al momento l'unica organizzazione
presente nel Kurdistan iracheno è Emergency, che si occupa soprattutto
dei bambini che ogni giorno sono vittime delle mine di fabbricazione italiana
disseminate più di dieci anni fa dall'Irak. Si calcola che ogni
mese siano 200 i piccoli a rimanere feriti o mutilati, oppure a perdere
la vita a causa di questi ordigni che sono venti milioni di cui solo una
decina di migliaia l'anno vengono individuati e rimossi, anche in questo
caso per la totale marginalità - per non dire assenza - che la questione
curda ha nell'ordine del giorno internazionale.
Il
presente articolo, tradotto dall'inglese da Iole Pinto,
è
apparso sul quotidiano
International
Herald
Tribune nel 1998,adattato
da
un articolo più lungo pubblicato dal Washington Post.
Il
viaggio
in
Kurdistan
di
Iole Pinto
L'appello:
no
all'embargo
ma
anche
alle
connivenze
con
il regime
Il
voto
vergognoso
della
Camera
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