ii percorsi

 L’Europa delle regioni contro le ragioni dell'Europa
 
di MAURILIO BAROZZI

Teniamoci stretta la cassa: l’Europa dei popoli
 


La proposta formulata dai democristiani tedeschi nel 1994 per avere un’Europaa nucleo forte per dare vita all’Unione europea a due velocità non è passata. La decisione di ammettere anche l’Italianel primo gruppo di Stati che parteciperanno all’euro-Europa a partire dal 1999[1] pare aver scongiurato lo scenario Kerneuropa[2]. L’esclusione dall’Unione avrebbe infatti rafforzato le spinte disgregative e centrifughe che minano l’unità dello Statoitaliano[3]. La sua ammissione, viceversa, raffredda la pulsione e limita il potenziale ricattatorio delle forze politiche dichiaratamente separatiste (come la Lega Nord). Che – di conseguenza – hanno dovuto rivedere alcune parole d’ordine, oggi fuori luogo: parlare di secessione all’indomani di una “promozione” virtuosa appare più problematico[4]. E difatti lo stesso leader della Lega Nord Umberto Bossidal congresso del Palavobis di Milano[5] bandisce quel termine dai suoi interventi nonostante se ne fosse riempito la bocca fino a pochi giorni prima (e ne rivendichi comunque la legittimità nei giorni successivi). Oggi cerca di rientrare in gioco nella politica nazionale italiana. Cerca alleati. Qualcuno che possa garantire ai lumbard alcune minime prebende. Magari in sede di riforme costituzionali.
Per il TrentinoAlto Adige/Südtirol il discorso è solo un po’ diverso. In regione tali prebende già ci sono. Ed è per questo (oltreché per i numeri) che la parola secessione (meglio: autodeterminazione) molto utilizzata da alcuni partiti altoatesini (o sudtirolesi: i Freiheitlichen, l’Union für Südtirole alcune frange della Südtiroler Volkspartei, che rivendica a tutt’oggi il diritto nel proprio Statuto) non impensierisce troppo chi ha a cuore l’unità dello Stato. Chi altro potrebbe garantire trasferimenti di migliaia di miliardi ad una popolazione di meno di mezzo milione di abitanti? La politica di questi partiti è essenzialmente mirata al mantenimento di alcune prerogative conquistate nel tempo e mantenute a suon di aiuti pubblici.

L’ingresso nell’euro-Europacomplica il quadro. In un’Europa intesa in senso liberale, costituita politicamente per perseguire la pace ed economicamente per rendere più difficile ai grandi gruppi economico-finanziari di speculare sulle monete e di influenzare le politiche statali[6], risulta più difficile far sentire una voce particolarista. Se, ad esempio, in Italia, in termini di popolazione, il TrentinoAlto Adige/Südtirol conta l’1,6%, nell’Unione conterà per tre millesimi. Sarà una goccia nell’oceano europeo. Ciò costituisce una vera disdetta per partiti (come la Volkspartei) abituati a ottenere notevoli concessioni grazie alla straordinaria abilità contrattuale. L’eccezionale dote di saper aprire contemporaneamente diversi tavoli di confronto istituzionale, senza mai chiuderne uno, rendendolo definitivo[7] (ad uopo si ora è coniata anche la locuzione autonomia dinamica).

Eppure, la speranza è l’ultima a morire. Nella retorica degli autonomisti, l’accento del dibattito europeista è spostato completamente – anziché sull’apertura – su un concetto suggestivo, ma politicamente inesistente: l’Europadelle regioni[8]. Come a sottolineare che, nonostante numericamente il TrentinoAlto Adige/Südtirol sia un microbo, se alleato istituzionalmente con il vicino Tirolo, potrebbe fare sentire la sua voce a Bruxelles[9]. E diventare un’isola felice, anche e soprattutto in ragione del fatto che quest’area sarebbe assimilabile per destino storico. L’ultima campagna di tesseramento del partito autonomista trentino tirolese (Patt)[10], punta tutto su poche parole d’ordine: trentinitàEuroregioneEuropa delle regioni. Secondo i manifesti pubblicitari affissi in provincia di Trento, il Patt sarebbe «l’autentico partito del Trentino per dare forza al Trentino e all’Euroregione trentino-tirolese». Ed il pay-off indica il progetto: «Per continuare il nostro impegno e costruire l’Europa delle regioni».

Eppure, nella versione più radicale dell’ipotesi, quella dei Freiheitlichen, dell’Union für Südtirol, dell’anima dura della Südtiroler Volkspartei (Svp), per definire i tratti comuni sarebbe necessaria anche la comune lingua: è infatti noto che una certa idea di Euregio Tirolo(l’architettura etimologica che offre il domoV alla proposta geopolitica) prevederebbe l’inclusione solamente dell’Alto Adige/Südtirol, con il Trentino– reo di poterne annacquare la purezza linguistica – fuori. 

In questa concezione l’Europadelle regioni(o dei popoli, o delle piccole patrie, così come viene definita dai propugnatori di tale disegno) altro non sarebbe che un’Europa che torna allo stato ferino, secondo il concetto individuato da Karl Poppernella Società aperta[11], uno stato primordiale che cancella tutta la tradizione del pensiero democratico e liberale: sarebbe folle dimenticare che solo la nascita del moderno Statonazionale ha portato – pur non cancellando le guerre – i diritti di cittadinanza e li ha estesi a gruppi di individui che non possedevano i tratti ascrittivi della maggioranza degli abitanti. 

Risulta comunque evidente che, dietro la facciata culturale[12], l’Euregio Tiroloo, più latamente, l’Europadelle regioni, sottende il desiderio di formare dei piccoli compartimenti stagni che limitino i costi sociali della solidarietà, estendendone i vantaggi al minor numero possibile di beneficiari. E, nel contempo, cerca di mantenere in vita i privilegi di un’autonomia speciale che, in un democratico impianto europeo, non avrebbero ragione di esistere.

La parola magica che sta alla base di questo approccio è autodeterminazione. Cioè il lemma – proposto all’attenzione pubblica all’inizio del secolo, a longitudini diverse, da Lenin e Wilson – secondo il quale ogni popolo avrebbe diritto di rivendicare la sovranità su di un determinato territorio[13]. Carlo Andreotti, allora presidente della giunta provincia di Trento, ha provato a declinare l’idea in salsa trentina: «Il superamento degli stati nazionali ci obbliga a chiederci con ancora maggior forza: chi siamo? La risposta arriva solo dal nostro passato: noi siamo ciò che siamo stati, noi siamo ciò che erano i nostri padri. Ma noi dobbiamo anche essere ciò che vogliamo essere. In questo sta il fondamento del diritto all’autodeterminazionedei popoli»[14]. Il problema nasce dal fatto che la definizione di «popolo» – come si evince anche dalle parole di Andreotti – non è oggettiva: i popoli costituiscono delle realtà soggettive e storicamente contingenti. Pertanto questo richiamo non può che figurare scenari bellicosi. Come scrisse Karl Popper: «L’assoluta assurdità del principio di autodeterminazione nazionale deve essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale alla esigenza che ogni Statosia uno Stato nazionale, che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la naturale dimora di un gruppo etnico; sicché dovrebbe essere il gruppo etnico, la “nazione”, a determinare e a proteggere i confini naturali dello Stato. Ma degli Stati nazionali di questo genere non esistono»[15].

Non solo i razionalisti sono critici nei confronti dell’autodeterminazione. Un sociologo idealista come Joan Galtungha spiegato come in questo momento al mondo ci siano 225 stati e 2.000 nazioni: «Se ogni nazione rivendicasse uno Stato, per arrivare ad una situazione di equilibrio mancherebbero ancora quasi 1.800 guerre»[16].

Le controindicazioni dell’autodecisione, che se applicata arbitrariamente darebbe la possibilità ad ogni gruppo sedicente tale di formare una propria isola di governo, sono rese evidenti dalla recente presa di posizione delle Faer Oer, un piccolo arcipelago danese (posizionato tra la Gran Bretagna e l’Islanda) di 44 mila abitanti che dal 1948 gode di Statuto autonomo. La vittoria alle elezioni del 30 aprile del partito repubblicano indipendentista Folkeflokkenha fatto decollare la richiesta di indipendenza dalla Danimarca. Il premier incaricato di formare il governo locale, Afinn Kallsberg, ha infatti dichiarato che intende aprire un negoziato per ottenere l’indipendenza totale[17].

Più vicine a casa nostra sono inoltre le rivendicazioni di Carl Willeit, consigliere regionale dei Ladins[18], che manifesta un sentimento di sconforto nei confronti del «neocentralismo» delle province di Trentoe Bolzanoche non decentrano «i propri poteri» né rispettano «i diritti fondamentali delle popolazioni», ma mettono «in atto una politica di prepotenza e di servile dipendenza»[19]. E questo per il fatto di aver inserito nella legge elettorale regionale una soglia di sbarramento (5% a Trento e 2,8% a Bolzano; poi cancellata dalla Consulta) che potrebbe minacciare la conquista di un seggio (fatta eccezione per quello garantito dallo Statuto speciale) ai Ladins. Partito che ha come suo obiettivo quello di riunificare le genti ladine oggi divise in tre diverse province: Belluno, Bolzano e Trento. Insomma: in ultima analisi una formazione che persegue un progetto geopolitico fondato sulla lingua[20].

Sussidiarietà

Il fondamento dottrinale al quale si aggrappano i think thank regionalisti è quello della sussidiarietà. Citato esplicitamente nel Trattato dell’Unione e tuttavia applicato dai sostenitori dell’Europadei popoli con una certa disinvoltura. Secondo tale presupposto, «nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri»[21]. Come si evince già dalla semplice lettura di questo articolo del Trattato, l’Unione Europea non cita la sussidiarietà per dare spazio istituzionale e politico alle Regioni, ma per preservare l’azione degli Stati.

Secondo molti osservatori e studiosi, la risposta alla questione del decentramento in contrapposizione alla centralizzazione o alla globalizzazione è data – nel dibattito europeo e autonomista – proprio nei termini di sussidiarietà. «L’unico modo per non rimanere vittime della globalizzazione è la fedeltà a un principio regolativo della vita associata che il pensiero sociale cristiano ha da tempo elaborato e proposto, il principio della sussidiarietà»[22], ammonisce i trentini il senatore Renzo Gubert, con una prosa leggermente deterministica (in hoc signo vinces). Eppure c’è chi ha sostenuto con dovizia di particolari che tale concetto – proprio in relazione all’idea di sovranità – sia una costruzione cervellotica e impolitica. John Laughland, commentatore del «Wall Street Journal Europe», nel suo ultimo libro sull’Unione europea, The Tainted Source, ricorda che «questo principio, che è pure inserito nella costituzione della Germania, è tenuto ad assicurare che un ‘più alto’ livello di governo agisca solo quando la sua azione sia più ‘efficace’ rispetto a un ‘più basso’ livello». Ma ciò avrebbe prodotto in Germania «una sempre maggiore centralizzazione, proprio come risultato della sua clausola di sussidiarietà». Secondo Laughland, infatti, questa concezione mal si sposa con il concetto liberale di divisione dei poteri e l’adattamento del processo politico, governativo e giurisdizionale ai cambiamenti delle circostanze umane. Puntare tutto sull’efficacia significa che il compito di uno Statoè essenzialmente quello di «fare cose». Ovviamente un governo deve essere in grado di agire, ma non va dimenticato che nella tradizione liberale rimane intatto il ruolo della legge e della giustizia. Viceversa, «la sussidiarietà – ricorda l’editorialista britannico –, con il suo assunto di un’unitaria, piramidale gerarchia delle funzioni esecutive, è basata su un modello in disaccordo con quello di un ordinamento legale liberale, basato sulla giustizia» più che sulle gerarchie. E invece, «la centralizzazione non è sempre e necessariamente negativa. Al contrario, il centralismo dell’autorità legislativa e la legge sono un prerequisito per la democrazia, fino al punto che il decentramento legislativo permette che i potentati locali costituiscano tra loro stessi dei feudi politici», secondo la prassi concordataria[23]. E non è un caso, aggiunge Laughland, «che la sussidiarietà sia una dottrina corporativa, elaborata dal Vaticano agli albori del fascismo italiano», messa su carta per la prima volta nell’enciclica Quadragesimo anno del 1931 da parte di Papa Pio XI[24] per gestire la possibilità di garantire alla chiesa una certa competenza nell’ambito dell’educazione dei giovani nonostante il regime fascista fosse totalitario.

Niente di taumaturgico, dunque: in origine la sussidiarietàera il grimaldello per penetrare l’assolutismo fascista. La logica adatta per trovare un filo di unione tra il fascismo e la chiesa in uno spirito corporativista, che rimuove la pratica conflittuale[25]. Un corporativismo inteso in senso dirigista che riporta alla memoria la concezione deteriore del comune medievale totalizzante – predemocratico –, teso a monopolizzare ogni istante della vita quotidiana, comprese le arti e i mestieri: tanto che ogni tipo di produzione era vietata agli estranei.

Anche sotto il profilo della concorrenza economica, comunque, la sussidiarietàtrova difficoltà ad essere valutata univocamente in modo positivo. La Commissione europea, nel già richiamato documento[26], sostiene che tale principio non comporterà modifiche sostanziali perché «da tempo ormai quest’idea è alla base della politica di concorrenza». Tuttavia, prosegue, in materia di concorrenza è importante «distinguere tra le regole applicabili agli Stati e quelle applicate alle imprese». Infatti le stesse autorità cessano di essere competenti quando la Commissione decide di aprire determinate procedure. Di conseguenza «invece di parlare di sussidiarietà, la Commissione pensa che in materia di concorrenza, sia necessario dar vita ad una cooperazione efficace tra autorità nazionali e Commissione e praticare un decentramento adeguato». Parole un po’ vaghe, che comunque tendono a svuotare il senso forte del concetto che hanno in mente i regionalisti. E ciò è confermato anche dai pareri formulati dal Comitato economico e sociale europeo. Il quale ha ribadito che «applicare, in nome della sussidiarietà, il diritto nazionale per risolvere problemi di interesse comunitario e decentrare l’applicazione del diritto comunitario incentivando l’intervento delle autorità e dei tribunali nazionali basato su tale diritto, costituiscono obiettivi meritori. Tale processo non deve però mettere in causa l’applicazione uniforme del diritto comunitario, né permettere che si generino situazioni in cui le autorità degli Stati membri lasciano sussistere comportamenti manifestamente contrari alle regole di concorrenza del trattato»[27].

La via pakistana alla globalizzazione

Nessuno può negare che ognuno abbia dei buoni motivi per chiedere di essere salvaguardato. Nessuno lo mette in dubbio. L’autotutela è uno dei principi che ha spinto l’uomo a privarsi di alcune libertà pur di garantirsi salva la vita. È il substrato del patto sociale hobbesiano. Ma dalla tutela al privilegio la linea di confine non sempre è chiara.

Va dato atto ai politici trentino-altoatesini di essere stati lungimiranti. Già nei primi anni Ottanta avevano intuito le ricadute che avrebbe avuto il processo di globalizzazione ormai inesorabilmente in atto. L’intero globo tende sempre più ad essere considerato come un unico sistema e, nell’approccio economicistico, ad esso si associa un tentativo di (ri-)costruire un sistema-mondo di stampo liberista, cioè un sistema di perfetta circolazione dei capitali e delle merci. Di qui la corsa ai ripari.

L’approccio alla globalizzazione economica (la tendenza del Duemila) del Trentino-Alto Adige/Südtirol è basato sul modello pakistano. È una sua evoluzione decisamente più sofisticata. Ma la logica è esattamente la medesima: «creiamo delle condizioni tali per cui gli investitori – siano essi della zona oppure no – trovino opportuno impiegare qui le proprie energie imprenditoriali», hanno pensato i moderni pitagorici. Solo che anziché garantire le condizioni ideali di investimento: le infrastrutture – evidentemente compatibili con l’ambiente e la consistenza della popolazione, come prescrivono l’Unione europea e le regole di concorrenza perfetta –, si è scelta una via più levantina. Una via per così dire pakistana: offerte speciali al limite della legalità del panorama normativo internazionale.

In Pakistanl’offerta è la manodopera a prezzi stracciati compresi bambini che lavorano dodici ore al giorno, giacché là è legale. In Trentino-Alto Adige/Südtirol invece la proposta-saldo è stata costituita dai contributi pubblici esorbitanti che i politici locali hanno concesso senza troppe premure, poiché qui sono legittimi e regolati da generose normative provinciali[28]. Ma che in tutte le altre regioni d’Italiaa Statuto ordinariosono giudicati eccessivi[29] e talvolta pure dalla Commissione sulla politica di concorrenza dell’Unione europea. Insomma: la via pakistana consiste nello sfruttare una favorevole normativa interna e decisamente peculiare per ottenere dei vantaggi dalla globalizzazione dei mercati che presupporrebbe invece – per funzionare bene e diventare fonte reale di chance per tutti – regole solide e comuni[30].

Le possibilità però non sono infinite. Difatti: le buone performance economiche ottenute finora in regione sono legate intimamente ai trasferimenti pubblici. Che hanno comportato un aumento della “quantità dei fattori” (lavoro e capitale), a scapito della produttività. Nel 1995 il PIL prodotto da ciascun lavoratore nel TrentinoAlto Adige/Südtirol è nettamente inferiore alla media italiana (fatto 100 quest’ultimo, in regione siamo a 97; nel Nordest a 107). E il divario è soprattutto nel terziario, dove la forbice raggiunge i 15 punti percentuali nei servizi vendibili[31].

Purtroppo in questo modo si crea una dipendenza dal flusso iniziale, dall’input originale: con il rischio di shock nel momento in cui i trasferimenti dovessero rallentare. Per restare al confronto – paradossale – con l’Asia, rischia di verificarsi anche qui la tesi dell’economista Paul Krugmanche, commentando il miracolo delle tigri asiatiche, già nel 1994 aveva messo in guardia dai facili entusiasmi. In un articolo pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs» nel novembre di quell’anno (poi ripreso da tutti i giornali del mondo), Krugman ammonì: se il miracolo economico è basato sull’aumento della manodopera e non della produttività, esso avrà vita breve. E portò ad esempio quello dell’Unione sovietica degli anni Cinquanta. Pare che abbia avuto ragione.

Ma non basta ancora. Pure Carlo Andreotti, allora presidente della giunta provinciale del Trentinoed esponente di spicco del locale partito autonomista, si è reso conto di quanto sia artificiosa la situazione economica locale. A Rovereto, parlando ad un convegno, ha esplicitamente criticato la mentalità imprenditoriale trentina che si è adagiata sulle sovvenzioni pubbliche. «Abbiamo avuto una mentalità pigra: in Trentino per l’economia ci siamo sempre adeguati alle risorse che ci arrivavano dall’ente pubblico e così ora siamo in ritardo»[32], ha ammesso Andreotti. Che qualche ora prima, ad un forum sul terziario, aveva addirittura fatto intendere che in certe situazioni potrebbe essere meglio il centralismo romano. Il presidente aveva infatti accusato «l’autonomia di aver voluto essere “la prima della classe” intervenendo su leggi nazionali e rendendole più complicate»[33].

Allora, in TrentinoAlto Adige/Südtirol, la domanda diventa: fino a quando durerà la cuccagna delle sovvenzioni pubbliche, motore immobile dell’economia locale[34]? Quando i confinanti veneti o lombardi inizieranno a lamentarsi massicciamente di queste offerte speciali che durano quattro stagioni ogni anno, cosa succederà?

Un assaggio è costituito dal movimento veneto. Che ha già iniziato a lagnarsi. Giampaolo Gobbo, soprannominato Scottex, diventato presidente della Liga Venetadopo la fuga di Rocchetta, già nel 1995 sostenne – alla faccia dei macroregionalisti, dei federalisti e dei catalani – che il Nord-Est non esiste «perché Trentinoe Friulinon pagano le tasse a Romacome noi. È parità questa? Come se un fratello lavorasse con un altro che si droga»[35]. E, nel nostro caso specifico, il fratello drogato sarebbe il Trentino-Alto Adige/Südtirol. Il problema sta nel fatto che – anziché operare per farlo smettere e responsabilizzarlo nella crescita – anche il Venetoe gli altri fratelli cercano di iniziare con la droga pesante.

Tra Veneta Serenissima Armata, Fronte armato di Liberazione, scalate sul campanile di San Marco, bombe – vere o finte che siano – piazzate davanti alle caserme dei carabinieri e mozioni regionali che prospettano un referendum sull’autodeterminazione, il Venetocerca di trovare una propria via all’autonomia[36]. Molto speciale. Tanto speciale da far ritenere ancora poco a certi gruppi quanto stabilito in Commissione bicamerale[37]. Come si sa, il progetto è stato poi affossato il due giugno 1998, eppure lì c’erano esplicitamente citate tutte le modalità con cui ogni Regioneavrebbe potuto chiedere di assumere competenze che finora sono attribuite soltanto a quelle a Statuto speciale[38]. Si andava dall’istruzione, all’energia, ai trasporti, alla sicurezza sul lavoro, alla salute e alla protezione civile. Sulla quale – dopo la tragedia campana del maggio ’98 – forse sarebbe opportuno riflettere in modo più approfondito. Anche in termini di rapporto centro-regioni, così come ha suggerito il professor Gian Enrico Rusconisulla «Stampa» in un editoriale dal titolo significativo: «Un esempio di cattivo federalismo».[39] Ora dalle rive della Laguna ci riprovano, proponendo una «Costituzione del Veneto autonomo». Spiega Massimo Cacciari, sindaco di Venezia: «Non uno staterello autonomo, come pensava la Lega Nord, ma un Veneto autonomo nell’ambito di uno Statoitaliano federale»[40]. Secondo questa bozza si tratterebbe di un vero e proprio Stato nella confederazione degli Stati o delle Regioni italiane. Un modello che potrà essere applicato in Sicilia, nel Lazioo a Romastessa – se diventerà una città-regione – sulla falsariga della tedesca Amburgo. Il Trentino-Alto Adigeosserva, avulso dal dibattito, che giunge in regione attutito e stordito dalla bambagia dell’autonomia speciale.



[1] Formalizzata dal Consiglio europeo a Bruxelles, il 2 maggio 1998.
[2] Cfr. Documento Schäuble, «Il Mulino/Europa2», novembre 1994: Francia, Germania, Austria, Belgio, Olandae Lussemburgodentro subito; gli altri avrebbero dovuto seguire.
[3] Cfr. Maurilio Barozzi, La partita europea in TrentinoAlto Adige, in «l’Adige», 20 giugno 1997 e Gianni Bonvicini, Il grande Tirolonon resuscita in Europa, in «l’Adige», 17 aprile 1998.
[4] Anche se il professor Gianfranco Migliosostiene che solo «liquidando lo Statonazionale che per sua definizione è uno Stato di potenza, cioè uno Stato militare, si tolgono di mezzo le ostilità che ancora derivano dall’atto violento e illegittimo della conquista, che tiene attaccati i sudtirolesi all’Italia». Cfr. Italia repubblica federale? Mai, moriremo comunisti in «l’Adige», 26 ottobre 1997.
[5] Milano, 28-29 marzo 1998.
[6] Uno dei concetti più sbandierati dalla vulgata europeista è quello secondo il quale lo Statonazionale sarebbe un’entità troppo piccola per competere economicamente con i grandi gruppi multinazionali.
[7] Illuminante l’articolo di Anton Pelinka, Volkspartei, il partito del conflitto controllato, in «l’Adige», 22 novembre 1997: «La Svpha bisogno del conflitto etnico, collante che la tiene unita. Perciò questo conflitto non può essere risolto con successo, perché altrimenti la Svp avrebbe perso il suo collante e con ciò il suo diritto di esistere in quanto partito di raccolta. Al contempo, la Svp non può lasciare esplodere tale conflitto, in quanto verrebbero a rafforzarsi le forze che mettono in discussione l’autonomia e di conseguenza il grande successo della Svp».
[8] Nell’articolo, Andreotti, la Regionee i diritti di «minoranza», «l’Adige», 24 febbraio 1998, ho sostenuto che «il Trattato di Maastricht, finora la Magna carta dell’Unione europea, non parla di Europadelle regioni. [..] Esiste, questo sì, un Comitato delle regioni, citato, istituito e regolato dal capo quarto del trattato di Maastricht, ma – innanzitutto – le sue funzioni sono esclusivamente di natura consultiva. [..] Il Comitato è composto da 222 membri, suddivisi tra i vari Stati europei non tanto a seconda delle regioni da cui questi sono composti (come sarebbe lecito attendersi, se le regioni fossero contemplate come soggetto autonomo) quanto da equilibri basati sull’importanza più o meno ricoperta ed esercitata dai singoli Stati all’interno dell’Unione».
[9] Tesi ardita: TrentinoAlto Adige/Südtirol e Tirolocontano assieme un milione e mezzo di abitanti: cinque millesimi dell’Unione europea. È comunque l’ipotesi sostenuta anche da Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino, pp. 62-72.
[10] In occasione delle elezioni regionali del novembre 1998.
[11] Scrive Karl Popper: «Non possiamo più ritornare a un implicito stato di implicita sottomissione alla magia tribale. Per coloro che hanno assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, il paradiso è perduto. Quanto più ci sforziamo di tornare all’età eroica del tribalismo, tanto più sicuramente arriviamo all’inquisizione, alla polizia segreta, al gangsterismo romanticizzato [..] Noi possiamo ritornare allo stato ferino. Ma se vogliamo restare umani, ebbene, allora c’è una sola strada da percorrere: la via che porta alla società aperta. Noi dobbiamo procedere verso l’ignoto, l’incertezza e l’insicurezza, usando quel po’ di ragione che abbiamo per realizzare nella migliore maniera possibile entrambi questi fini: la sicurezza e la libertà». In La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma, 1973. Primo volume, pp. 278-279.
[12] Derivante dal concetto di Kultur nell’accezione datale nel 1918 da Thomas Mannin Considerazioni di un impolitico: lo stile, la disciplina, l’aristocrazia, l’arte, la forma, la musica. La Kultur, rappresentata dal Reich, si contrappone alla Zivilisation, ovvero l’economia, la democrazia, la tecnica, il progresso materiale, l’omologazione egualitaria e massificata, prerogativa dell’occidente e della civiltà moderna.
[13] La stessa Carta delle Nazioni Uniteha ripreso l’idea di auto-decisione inserendola al punto 2 del primo articolo. 
[14] «Alto Adige», 23 febbraio 1998.
[15] Karl Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 623.
[16] Seminario alla facoltà di Sociologia presso l’Università di Trento, 15 aprile 1997.
[17] Agenzia giornalistica «Ansa», 9 maggio 1998.
[18] Il partito di raccolta dei ladini, la terza minoranza linguistica presente in Trentino-Alto Adige/Südtirol.
[19]L’autonomia negata dal centralismo locale, in «l’Adige», 12 aprile 1998.
[20] Cfr. Autonomiaper le minoranze, nello Speciale sul cinquantesimo anniversario dell’autonomia regionale, in «l’Adige», 17 luglio 1998.
[21] Cfr. Trattato di Maastrichtart. 3B, secondo comma.
[22] Renzo Gubert, Sussidiarietà e autonomia contro la globalizzazione, in «l’Adige», 18 agosto 1998.
[23] Cfr. John Laughland, The Tainted Source, Little Brown and Company, Londra, 1997; pp. 154-158. «Il decentramento tende ad essere favorito in paesi, come la Germania, dove il modello feudale permane forte, per queste politiche è associato più un modello di distribuzione dei soldi dello Stato– lo scambio di fedeltà per la protezione – piuttosto che con la stabilizzazione delle condizioni per la libera interazione di cittadini responsabili», ivi p. 155.
[24] «Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». Citazione tratta da: Le encicliche sociali dalla “Rerum novarum” alla “Centesimus annus”, Edizioni Paoline, Roma1992; p. 124.
[25] Nel chirografo di Pio XIal cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, del 26 aprile 1931, si riconosce che il regime e lo Statosono totalitari, ma ciò significa che «per tutto quello che è di competenza dello Stato, secondo il suo proprio fine, la totalità dei soggetti dello Stato, deve far capo alo Stato, al Regime e da esso dipendere: dunque una totalitarietà, che diremo soggettiva, può certamente attribuirsi allo Stato, al regime. Non altrettanto può dirsi di una totalitarietà oggettiva, nel senso cioè che la totalità dei cittadini debba far capo allo Stato e da esso dipendere per la totalità di quello che è o può divenire necessario per tutta la loro vita anche individuale, domestica, spirituale, soprannaturale». Così, «la Corporatività si risolve in una speciale, pacifica organizzazione fra le diverse classi di cittadini, con più o meno ingerenza dello Stato», mentre l’azione cattolica rimane sul terreno spirituale e soprannaturale, se pure abbia diritto di portarsi «anche sul terreno operaio, lavorativo, sociale, non per usurpare o intralciare attività sindacali o d’altro nome, che non le competono, ma per salvaguardare e procurare dovunque l’amore di Dio, il bene delle anime: sempre e dovunque la vita soprannaturale con tutti i suoi benefici». In Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, Einaudi, Torino 1977, pp. 252-253. Anche Alcide De Gasperiaveva colto il nefasto connubio tra fascismo e chiesa, che cercava di superare le diatribe sulla sovranità introducendo una formula con la quale la Chiesa era riuscita ad affermare il proprio potere attraverso una presenza nella società civile (tramite l’Azione cattolica) che non può dispiegarsi senza il concorso dello Stato cui fa appunto da sussidio. D’altra parte a sua volta lo Stato non può vivere senza il sostegno delle collettività organizzate: da qui la doppia convenienza del concordato: «Il pericolo è nella politica concordataria [..] – scrisse a Simone WeberDe Gasperi il 12 febbraio 1929 – certo il Ducevede la grande impresa oltre che dal punto di vista realista di prestigio, anche in un certo nembo romantico che lo cinge della spada di Goffredoe lo corona della tiara di Carlo Magno; e certo che questa sera a palazzo Colonna, riaprendo i famosi battenti, qualcuno crederà di riaprire le porte dei secoli in cui si intrecciano lo scettro e il pastorale». Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale (dall’Unità al fascismo), in «Storia d’Italia Einaudi», p. 2201, nota.
[26]XXIV Relazione della commissione europea sulla politica di concorrenza 1994, cit., pp. 31 e segg.
[27]XXIV Relazione della commissione europea sulla politica di concorrenza 1994, cit., p. 365.
[28] Curiosa la valutazione delle sovvenzioni pubbliche proposta dall’imprenditore Mario Marangoni: «Quando un’impresa riceveva contributi dalla Provincia, diventava subito ostaggio dei sindacati. [..] Non voglio attaccare il sindacato: gli imprenditori avevano una convenienza a cedere, oggi però, in un mercato sempre più globalizzato non possiamo più permettercelo». Cfr. «Il Patt? È un partito che non ha avuto idee», in «Alto Adige», 26 ottobre 1997.
[29] Si veda, ad esempio, l’inchiesta: Quando mamma Provinciaaiuta un’azienda che non ha problemi, in «l’Adige», 3 luglio 1996.
[30] A tale proposito: Paul Krugman, A crisis of confidence, in «Prospect», ottobre 1998; Joaquìn Estefanìa, Demasiado mercado mata el mercado, in «El Pais», 6 ottobre 1998; Ruggiero: “Globalizzare stanca rinnoviamo l’ordine monetario”, in «la Repubblica», 6 dicembre 1998.
[31] Cfr. Enzo Rullani, La realtà locale nello scenario economico del Paese e del Nordest, in «Oltre il Duemila», documentazione per l’omonimo convegno di Trento, 18 settembre, 1998, p. 77.
[32] Cfr. Il futuro? Project financing in «l’Adige», 25 aprile 1998.
[33]Allarme, il terziario è in pericolo in «l’Adige», 25 aprile 1998.
[34] Per la verità in consiglio provinciale di Trentodal 15 aprile 1998 giace un disegno di legge intitolato «Interventi della ProvinciaAutonoma di Trento per il sostegno dell’economia», la cui ratio dovrebbe essere quella di armonizzare le possibilità di intervento pubblico alla normativa comunitaria. Ma la legge non è stata approvata.
[35] Intervista alla «Stampa» del 23 aprile 1995.
[36] Cfr. Nordest. La calma esplosiva, in «Diario», 6-12 maggio 1998.
[37] Cfr. Primo sì al federalismo flessibile, in «Corriere della Sera», 22 aprile 1998.
[38] Su tale risultato i commenti non sono stati comunque univoci. Per i politici (esclusa la Lega nord) si tratta di un buon approdo; per i commentatori esso pare frutto di un percorso casuale. Secondo Ilvo Diamanti(cfr. «Il sole 24 ore» domenica 26 aprile), tale risultato è stato ottenuto seguendo i tempi delle emergenze: «Dalle minacce della Lega e dalle tensioni che attraversano il Nord. E soprattutto il Nord Est». Ernesto Galli dalla Loggiaparla addirittura di «federalismo casereccio, invadente e pasticciato» (cfr. «Corriere della Sera», 26 aprile 1998). Secondo il commentatore, sia Forza Italiache la sinistra sono spinti al federalismo dal «fascino, o il problema, dei voti leghisti». In sostanza, «non esiste una vera elaborazione culturale».
[39] Gian Enrico Rusconi, Un esempio di cattivo federalismo, in «la Stampa», 9 maggio 1998.
[40] Cfr. Cacciari: il Venetosia indipendente, in «la Stampa», 11 novembre 1998. Anche: Cacciari: voglio il Veneto autonomo, in «la Repubblica», 11 novembre 1998.

 

 

o Trentino
Autonomia speciale, la democrazia 
dall'alto

Capitolo II
 

 «Dai movimenti nazionali ci si aspettavafossero dei movimenti di unificazione».
J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1870
 
 

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