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percorsi
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L’Europa
delle regioni contro le ragioni dell'Europa
Teniamoci stretta
la cassa: l’Europa dei popoli
La
proposta formulata dai democristiani tedeschi nel 1994 per avere un’Europaa
nucleo forte per dare vita all’Unione europea a due velocità non
è passata. La decisione di ammettere anche l’Italianel
primo gruppo di Stati che parteciperanno all’euro-Europa a partire dal
1999[1]
pare aver scongiurato lo scenario Kerneuropa[2].
L’esclusione dall’Unione avrebbe infatti rafforzato le spinte disgregative
e centrifughe che minano l’unità dello Statoitaliano[3].
La sua ammissione, viceversa, raffredda la pulsione e limita il potenziale
ricattatorio delle forze politiche dichiaratamente separatiste (come la
Lega Nord). Che – di conseguenza – hanno dovuto rivedere alcune parole
d’ordine, oggi fuori luogo: parlare di secessione all’indomani di una “promozione”
virtuosa appare più problematico[4].
E difatti lo stesso leader della Lega Nord Umberto Bossidal
congresso del Palavobis di Milano[5]
bandisce quel termine dai suoi interventi nonostante se ne fosse riempito
la bocca fino a pochi giorni prima (e ne rivendichi comunque la legittimità
nei giorni successivi). Oggi cerca di rientrare in gioco nella politica
nazionale italiana. Cerca alleati. Qualcuno che possa garantire ai lumbard
alcune minime prebende. Magari in sede di riforme costituzionali.
Per
il TrentinoAlto
Adige/Südtirol
il discorso è solo un po’ diverso. In regione tali prebende già
ci sono. Ed è per questo (oltreché per i numeri) che la parola
secessione (meglio: autodeterminazione)
molto utilizzata da alcuni partiti altoatesini (o sudtirolesi: i Freiheitlichen,
l’Union für Südtirole
alcune frange della Südtiroler Volkspartei,
che rivendica a tutt’oggi il diritto nel proprio Statuto) non impensierisce
troppo chi ha a cuore l’unità dello Stato.
Chi altro potrebbe garantire trasferimenti di migliaia di miliardi ad una
popolazione di meno di mezzo milione di abitanti? La politica di questi
partiti è essenzialmente mirata al mantenimento di alcune prerogative
conquistate nel tempo e mantenute a suon di aiuti pubblici.
L’ingresso
nell’euro-Europacomplica
il quadro. In un’Europa intesa in senso liberale, costituita politicamente
per perseguire la pace ed economicamente per rendere più difficile
ai grandi gruppi economico-finanziari di speculare sulle monete e di influenzare
le politiche statali[6],
risulta più difficile far sentire una voce particolarista. Se, ad
esempio, in Italia,
in termini di popolazione, il TrentinoAlto
Adige/Südtirol
conta l’1,6%, nell’Unione conterà per tre millesimi. Sarà
una goccia nell’oceano europeo. Ciò costituisce una vera disdetta
per partiti (come la Volkspartei) abituati a ottenere notevoli concessioni
grazie alla straordinaria abilità contrattuale. L’eccezionale dote
di saper aprire contemporaneamente diversi tavoli di confronto istituzionale,
senza mai chiuderne uno, rendendolo definitivo[7]
(ad uopo si ora è coniata anche la locuzione autonomia
dinamica). Eppure,
la speranza è l’ultima a morire. Nella retorica degli autonomisti,
l’accento del dibattito europeista è spostato completamente – anziché
sull’apertura – su un concetto suggestivo, ma politicamente inesistente:
l’Europadelle
regioni[8].
Come a sottolineare che, nonostante numericamente il TrentinoAlto
Adige/Südtirol
sia un microbo, se alleato istituzionalmente con il vicino Tirolo,
potrebbe fare sentire la sua voce a Bruxelles[9].
E diventare un’isola felice, anche e soprattutto in ragione del fatto che
quest’area sarebbe assimilabile per destino storico. L’ultima campagna
di tesseramento del partito autonomista trentino tirolese (Patt)[10],
punta tutto su poche parole d’ordine: trentinità, Euroregione, Europa
delle regioni.
Secondo i manifesti pubblicitari affissi in provincia di Trento,
il Patt sarebbe «l’autentico partito del Trentino per dare forza
al Trentino e all’Euroregione trentino-tirolese». Ed il pay-off indica
il progetto: «Per continuare il nostro impegno e costruire l’Europa
delle regioni». Eppure,
nella versione più radicale dell’ipotesi, quella dei Freiheitlichen,
dell’Union für Südtirol,
dell’anima dura della Südtiroler Volkspartei (Svp), per definire i
tratti comuni sarebbe necessaria anche la comune lingua: è infatti
noto che una certa idea di Euregio Tirolo(l’architettura
etimologica che offre il domoV
alla proposta geopolitica) prevederebbe l’inclusione solamente dell’Alto
Adige/Südtirol,
con il Trentino–
reo di poterne annacquare la purezza linguistica – fuori. In
questa concezione l’Europadelle
regioni(o
dei popoli, o delle piccole patrie, così come viene definita dai
propugnatori di tale disegno) altro non sarebbe che un’Europa che torna allo
stato ferino,
secondo il concetto individuato da Karl Poppernella Società
aperta[11],
uno stato primordiale che cancella tutta la tradizione del pensiero democratico
e liberale: sarebbe folle dimenticare che solo la nascita del moderno Statonazionale
ha portato – pur non cancellando le guerre – i diritti di cittadinanza
e li ha estesi a gruppi di individui che non possedevano i tratti ascrittivi
della maggioranza degli abitanti. Risulta
comunque evidente che, dietro la facciata culturale[12],
l’Euregio
Tiroloo,
più latamente, l’Europadelle
regioni,
sottende il desiderio di formare dei piccoli compartimenti stagni che limitino
i costi sociali della solidarietà, estendendone i vantaggi al minor
numero possibile di beneficiari. E, nel contempo, cerca di mantenere in
vita i privilegi di un’autonomia speciale che,
in un democratico impianto europeo, non avrebbero ragione di esistere. La
parola magica che sta alla base di questo approccio è autodeterminazione.
Cioè il lemma – proposto all’attenzione pubblica all’inizio del
secolo, a longitudini diverse, da Lenin e Wilson – secondo il quale ogni
popolo avrebbe diritto di rivendicare la sovranità su di un determinato
territorio[13].
Carlo Andreotti,
allora presidente della giunta provincia di Trento,
ha provato a declinare l’idea in salsa trentina: «Il superamento
degli stati nazionali ci obbliga a chiederci con ancora maggior forza:
chi siamo? La risposta arriva solo dal nostro passato: noi siamo ciò
che siamo stati, noi siamo ciò che erano i nostri padri. Ma noi
dobbiamo anche essere ciò che vogliamo essere. In questo sta il
fondamento del diritto all’autodeterminazionedei
popoli»[14].
Il problema nasce dal fatto che la definizione di «popolo»
– come si evince anche dalle parole di Andreotti – non è oggettiva:
i popoli costituiscono delle realtà soggettive e storicamente contingenti.
Pertanto questo richiamo non può che figurare scenari bellicosi.
Come scrisse Karl Popper:
«L’assoluta assurdità del principio di autodeterminazione
nazionale deve essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento
di criticarlo. Tale principio equivale alla esigenza che ogni Statosia
uno Stato nazionale, che sia limitato da un confine naturale, e che questo
coincida con la naturale dimora di un gruppo etnico; sicché dovrebbe
essere il gruppo etnico, la “nazione”, a determinare e a proteggere i confini
naturali dello Stato. Ma degli Stati nazionali di questo genere non esistono»[15]. Non
solo i razionalisti sono critici nei confronti dell’autodeterminazione.
Un sociologo idealista come Joan Galtungha
spiegato come in questo momento al mondo ci siano 225 stati e 2.000 nazioni:
«Se ogni nazione rivendicasse uno Stato,
per arrivare ad una situazione di equilibrio mancherebbero ancora quasi
1.800 guerre»[16]. Le
controindicazioni dell’autodecisione, che se applicata arbitrariamente
darebbe la possibilità ad ogni gruppo sedicente tale di formare
una propria isola di governo, sono rese evidenti dalla recente presa di
posizione delle Faer Oer, un piccolo arcipelago danese (posizionato tra
la Gran Bretagna e l’Islanda) di 44 mila abitanti che dal 1948 gode di
Statuto autonomo. La vittoria alle elezioni del 30 aprile del partito repubblicano
indipendentista Folkeflokkenha
fatto decollare la richiesta di indipendenza dalla Danimarca.
Il premier incaricato di formare il governo locale, Afinn Kallsberg,
ha infatti dichiarato che intende aprire un negoziato per ottenere l’indipendenza
totale[17]. Più
vicine a casa nostra sono inoltre le rivendicazioni di Carl Willeit, consigliere
regionale dei Ladins[18],
che manifesta un sentimento di sconforto nei confronti del «neocentralismo»
delle province di Trentoe
Bolzanoche
non decentrano «i propri poteri» né rispettano «i
diritti fondamentali delle popolazioni», ma mettono «in atto
una politica di prepotenza e di servile dipendenza»[19].
E questo per il fatto di aver inserito nella legge elettorale regionale
una soglia di sbarramento (5% a Trento e 2,8% a Bolzano; poi cancellata
dalla Consulta) che potrebbe minacciare la conquista di un seggio (fatta
eccezione per quello garantito dallo Statuto speciale)
ai Ladins. Partito che ha come suo obiettivo quello di riunificare le genti
ladine oggi divise in tre diverse province: Belluno,
Bolzano e Trento. Insomma: in ultima analisi una formazione che persegue
un progetto geopolitico fondato sulla lingua[20].
SussidiarietàIl
fondamento dottrinale al quale si aggrappano i think
thank
regionalisti è quello della sussidiarietà.
Citato esplicitamente nel Trattato dell’Unione e tuttavia applicato dai
sostenitori dell’Europadei
popoli con
una certa disinvoltura. Secondo tale presupposto, «nei settori che
non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo
il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in
cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri»[21].
Come si evince già dalla semplice lettura di questo articolo del
Trattato, l’Unione Europea non cita la sussidiarietà per dare spazio
istituzionale e politico alle Regioni, ma per preservare l’azione degli
Stati.
Secondo
molti osservatori e studiosi, la risposta alla questione del decentramento
in contrapposizione alla centralizzazione o alla globalizzazione è
data – nel dibattito europeo e autonomista – proprio nei termini di sussidiarietà.
«L’unico modo per non rimanere vittime della globalizzazione è
la fedeltà a un principio regolativo della vita associata che il
pensiero sociale cristiano ha da tempo elaborato e proposto, il principio
della sussidiarietà»[22],
ammonisce i trentini il senatore Renzo Gubert,
con una prosa leggermente deterministica (in
hoc signo vinces).
Eppure c’è chi ha sostenuto con dovizia di particolari che tale
concetto – proprio in relazione all’idea di sovranità – sia una
costruzione cervellotica e impolitica. John Laughland,
commentatore del «Wall Street Journal Europe», nel suo ultimo
libro sull’Unione europea, The
Tainted Source,
ricorda che «questo principio, che è pure inserito nella costituzione
della Germania,
è tenuto ad assicurare che un ‘più alto’ livello di governo
agisca solo quando la sua azione sia più ‘efficace’ rispetto a un
‘più basso’ livello». Ma ciò avrebbe prodotto in Germania
«una sempre maggiore centralizzazione, proprio come risultato della
sua clausola di sussidiarietà». Secondo Laughland, infatti,
questa concezione mal si sposa con il concetto liberale di divisione dei
poteri e l’adattamento del processo politico, governativo e giurisdizionale
ai cambiamenti delle circostanze umane. Puntare tutto sull’efficacia significa
che il compito di uno Statoè
essenzialmente quello di «fare cose». Ovviamente un governo
deve essere in grado di agire, ma non va dimenticato che nella tradizione
liberale rimane intatto il ruolo della legge e della giustizia. Viceversa,
«la sussidiarietà – ricorda l’editorialista britannico –,
con il suo assunto di un’unitaria, piramidale gerarchia delle funzioni
esecutive, è basata su un modello in disaccordo con quello di un
ordinamento legale liberale, basato sulla giustizia» più che
sulle gerarchie. E invece, «la centralizzazione non è sempre
e necessariamente negativa. Al contrario, il centralismo dell’autorità
legislativa e la legge sono un prerequisito per la democrazia, fino al
punto che il decentramento legislativo permette che i potentati locali
costituiscano tra loro stessi dei feudi politici», secondo la prassi
concordataria[23].
E non è un caso, aggiunge Laughland, «che la sussidiarietà
sia una dottrina corporativa, elaborata dal Vaticano agli albori del fascismo
italiano», messa su carta per la prima volta nell’enciclica Quadragesimo
anno del
1931 da parte di Papa Pio XI[24]
per gestire la possibilità di garantire alla chiesa una certa competenza
nell’ambito dell’educazione dei giovani nonostante il regime fascista fosse
totalitario. Niente
di taumaturgico, dunque: in origine la sussidiarietàera
il grimaldello per penetrare l’assolutismo fascista. La logica adatta per
trovare un filo di unione tra il fascismo e la chiesa in uno spirito corporativista,
che rimuove la pratica conflittuale[25].
Un corporativismo inteso in senso dirigista che riporta alla memoria la
concezione deteriore del comune medievale totalizzante – predemocratico
–, teso a monopolizzare ogni istante della vita quotidiana, comprese le
arti e i mestieri: tanto che ogni tipo di produzione era vietata agli estranei. Anche
sotto il profilo della concorrenza economica, comunque, la sussidiarietàtrova
difficoltà ad essere valutata univocamente in modo positivo. La
Commissione europea,
nel già richiamato documento[26],
sostiene che tale principio non comporterà modifiche sostanziali
perché «da tempo ormai quest’idea è alla base della
politica di concorrenza». Tuttavia, prosegue, in materia di concorrenza
è importante «distinguere tra le regole applicabili agli Stati
e quelle applicate alle imprese». Infatti le stesse autorità
cessano di essere competenti quando la Commissione decide di aprire determinate
procedure. Di conseguenza «invece di parlare di sussidiarietà,
la Commissione pensa che in materia di concorrenza, sia necessario dar
vita ad una cooperazione efficace tra autorità nazionali e Commissione
e praticare un decentramento adeguato». Parole un po’ vaghe, che
comunque tendono a svuotare il senso forte del concetto che hanno in mente
i regionalisti. E ciò è confermato anche dai pareri formulati
dal Comitato economico e sociale europeo. Il quale ha ribadito che «applicare,
in nome della sussidiarietà, il diritto nazionale per risolvere
problemi di interesse comunitario e decentrare l’applicazione del diritto
comunitario incentivando l’intervento delle autorità e dei tribunali
nazionali basato su tale diritto, costituiscono obiettivi meritori. Tale
processo non deve però mettere in causa l’applicazione uniforme
del diritto comunitario, né permettere che si generino situazioni
in cui le autorità degli Stati membri lasciano sussistere comportamenti
manifestamente contrari alle regole di concorrenza del trattato»[27].
La via pakistana
alla globalizzazioneNessuno
può negare che ognuno abbia dei buoni motivi per chiedere di essere
salvaguardato. Nessuno lo mette in dubbio. L’autotutela è uno dei
principi che ha spinto l’uomo a privarsi di alcune libertà pur di
garantirsi salva la vita. È il substrato del patto sociale hobbesiano.
Ma dalla tutela al privilegio la linea di confine non sempre è chiara.
Va
dato atto ai politici trentino-altoatesini di essere stati lungimiranti.
Già nei primi anni Ottanta avevano intuito le ricadute che avrebbe
avuto il processo di globalizzazione ormai inesorabilmente in atto. L’intero
globo tende sempre più ad essere considerato come un unico sistema
e, nell’approccio economicistico, ad esso si associa un tentativo di (ri-)costruire
un sistema-mondo di stampo liberista, cioè un sistema di perfetta
circolazione dei capitali e delle merci. Di qui la corsa ai ripari. L’approccio
alla globalizzazione economica (la tendenza del Duemila) del Trentino-Alto
Adige/Südtirol
è basato sul modello pakistano. È una sua evoluzione decisamente
più sofisticata. Ma la logica è esattamente la medesima:
«creiamo delle condizioni tali per cui gli investitori – siano essi
della zona oppure no – trovino opportuno impiegare qui le proprie energie
imprenditoriali», hanno pensato i moderni pitagorici. Solo che anziché
garantire le condizioni ideali di investimento: le infrastrutture – evidentemente
compatibili con l’ambiente e la consistenza della popolazione, come prescrivono
l’Unione europea e le regole di concorrenza perfetta –, si è scelta
una via più levantina. Una via per così dire pakistana:
offerte speciali al limite della legalità del panorama normativo
internazionale. In
Pakistanl’offerta
è la manodopera a prezzi stracciati compresi bambini che lavorano
dodici ore al giorno, giacché là è legale. In Trentino-Alto
Adige/Südtirol
invece la proposta-saldo è stata costituita dai contributi pubblici
esorbitanti che i politici locali hanno concesso senza troppe premure,
poiché qui sono legittimi e regolati da generose normative provinciali[28].
Ma che in tutte le altre regioni d’Italiaa
Statuto ordinariosono
giudicati eccessivi[29]
e talvolta pure dalla Commissione sulla politica di concorrenza dell’Unione
europea. Insomma: la via
pakistana consiste
nello sfruttare una favorevole normativa interna e decisamente peculiare
per ottenere dei vantaggi dalla globalizzazione dei mercati che presupporrebbe
invece – per funzionare bene e diventare fonte reale di chance
per tutti – regole solide e comuni[30]. Le
possibilità però non sono infinite. Difatti: le buone performance
economiche ottenute finora in regione sono legate intimamente ai trasferimenti
pubblici. Che hanno comportato un aumento della “quantità dei fattori”
(lavoro e capitale), a scapito della produttività. Nel 1995 il PIL
prodotto da ciascun lavoratore nel TrentinoAlto
Adige/Südtirol
è nettamente inferiore alla media italiana (fatto 100 quest’ultimo,
in regione siamo a 97; nel Nordest a 107). E il divario è soprattutto
nel terziario, dove la forbice raggiunge i 15 punti percentuali nei servizi
vendibili[31]. Purtroppo
in questo modo si crea una dipendenza dal flusso iniziale, dall’input originale:
con il rischio di shock nel momento in cui i trasferimenti dovessero rallentare.
Per restare al confronto – paradossale – con l’Asia, rischia di verificarsi
anche qui la tesi dell’economista Paul Krugmanche,
commentando il miracolo delle tigri
asiatiche, già nel 1994 aveva messo in guardia dai facili entusiasmi.
In un articolo pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs» nel
novembre di quell’anno (poi ripreso da tutti i giornali del mondo), Krugman
ammonì: se il miracolo economico è basato sull’aumento della
manodopera e non della produttività, esso avrà vita breve.
E portò ad esempio quello dell’Unione sovietica degli anni Cinquanta.
Pare che abbia avuto ragione. Ma
non basta ancora. Pure Carlo Andreotti,
allora presidente della giunta provinciale del Trentinoed
esponente di spicco del locale partito autonomista, si è reso conto
di quanto sia artificiosa la situazione economica locale. A Rovereto,
parlando ad un convegno, ha esplicitamente criticato la mentalità
imprenditoriale trentina che si è adagiata sulle sovvenzioni pubbliche.
«Abbiamo avuto una mentalità pigra: in Trentino per l’economia
ci siamo sempre adeguati alle risorse che ci arrivavano dall’ente pubblico
e così ora siamo in ritardo»[32],
ha ammesso Andreotti. Che qualche ora prima, ad un forum sul terziario,
aveva addirittura fatto intendere che in certe situazioni potrebbe essere
meglio il centralismo romano. Il presidente aveva infatti accusato «l’autonomia
di aver voluto essere “la prima della classe” intervenendo su leggi nazionali
e rendendole più complicate»[33]. Allora,
in TrentinoAlto
Adige/Südtirol,
la domanda diventa: fino a quando durerà la cuccagna delle sovvenzioni
pubbliche, motore immobile dell’economia locale[34]?
Quando i confinanti veneti o lombardi inizieranno a lamentarsi massicciamente
di queste offerte speciali che durano quattro stagioni ogni anno, cosa
succederà? Un
assaggio è costituito dal movimento veneto. Che ha già iniziato
a lagnarsi. Giampaolo Gobbo,
soprannominato Scottex,
diventato presidente della Liga Venetadopo
la fuga di Rocchetta, già nel 1995 sostenne – alla faccia dei macroregionalisti,
dei federalisti e dei catalani
– che il Nord-Est non esiste «perché Trentinoe
Friulinon
pagano le tasse a Romacome
noi. È parità questa? Come se un fratello lavorasse con un
altro che si droga»[35].
E, nel nostro caso specifico, il fratello
drogato sarebbe
il Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Il problema sta nel fatto che – anziché operare per farlo smettere
e responsabilizzarlo nella crescita – anche il Venetoe
gli altri
fratelli cercano
di iniziare con la droga pesante. Tra
Veneta Serenissima Armata, Fronte armato di Liberazione, scalate sul campanile
di San Marco, bombe – vere o finte che siano – piazzate davanti alle caserme
dei carabinieri e mozioni regionali che prospettano un referendum sull’autodeterminazione,
il Venetocerca
di trovare una propria via all’autonomia[36].
Molto speciale. Tanto speciale da far ritenere ancora poco a certi gruppi
quanto stabilito in Commissione bicamerale[37].
Come si sa, il progetto è stato poi affossato il due giugno 1998,
eppure lì c’erano esplicitamente citate tutte le modalità
con cui ogni Regioneavrebbe
potuto chiedere di assumere competenze che finora sono attribuite soltanto
a quelle a Statuto speciale[38].
Si andava dall’istruzione, all’energia, ai trasporti, alla sicurezza sul
lavoro, alla salute e alla protezione civile. Sulla quale – dopo la tragedia
campana del maggio ’98 – forse sarebbe opportuno riflettere in modo più
approfondito. Anche in termini di rapporto centro-regioni, così
come ha suggerito il professor Gian Enrico Rusconisulla
«Stampa» in un editoriale dal titolo significativo: «Un
esempio di cattivo federalismo».[39]
Ora dalle rive della Laguna ci riprovano, proponendo una «Costituzione
del Veneto autonomo». Spiega Massimo Cacciari,
sindaco di Venezia:
«Non uno staterello autonomo, come pensava la Lega Nord, ma un Veneto
autonomo nell’ambito di uno Statoitaliano
federale»[40].
Secondo questa bozza si tratterebbe di un vero e proprio Stato nella confederazione
degli Stati o delle Regioni italiane. Un modello che potrà essere
applicato in Sicilia,
nel Lazioo
a Romastessa
– se diventerà una città-regione – sulla falsariga della
tedesca Amburgo.
Il Trentino-Alto
Adigeosserva,
avulso dal dibattito, che giunge in regione attutito e stordito dalla bambagia
dell’autonomia speciale. [1]
Formalizzata dal Consiglio europeo a Bruxelles,
il 2 maggio 1998.
[2]
Cfr. Documento Schäuble,
«Il Mulino/Europa2», novembre 1994: Francia,
Germania,
Austria,
Belgio,
Olandae
Lussemburgodentro
subito; gli altri avrebbero dovuto seguire.
[3]
Cfr. Maurilio Barozzi,
La
partita europea in TrentinoAlto
Adige,
in «l’Adige», 20 giugno 1997 e Gianni Bonvicini,
Il
grande Tirolonon
resuscita in Europa,
in «l’Adige», 17 aprile 1998.
[4]
Anche se il professor Gianfranco Migliosostiene
che solo «liquidando lo Statonazionale
che per sua definizione è uno Stato di potenza, cioè uno
Stato militare, si tolgono di mezzo le ostilità che ancora derivano
dall’atto violento e illegittimo della conquista, che tiene attaccati i
sudtirolesi all’Italia».
Cfr. Italia repubblica federale? Mai, moriremo comunisti in «l’Adige»,
26 ottobre 1997.
[5]
Milano,
28-29 marzo 1998.
[6]
Uno dei concetti più sbandierati dalla vulgata europeista
è quello secondo il quale lo Statonazionale
sarebbe un’entità troppo piccola per competere economicamente con
i grandi gruppi multinazionali.
[7]
Illuminante l’articolo di Anton Pelinka,
Volkspartei,
il partito del conflitto controllato, in «l’Adige», 22
novembre 1997: «La Svpha
bisogno del conflitto etnico, collante che la tiene unita. Perciò
questo conflitto non può essere risolto con successo, perché
altrimenti la Svp avrebbe perso il suo collante e con ciò il suo
diritto di esistere in quanto partito di raccolta. Al contempo, la Svp
non può lasciare esplodere tale conflitto, in quanto verrebbero
a rafforzarsi le forze che mettono in discussione l’autonomia e di conseguenza
il grande successo della Svp».
[8]
Nell’articolo,
Andreotti,
la Regionee
i diritti di «minoranza», «l’Adige», 24 febbraio
1998, ho sostenuto che «il Trattato di Maastricht,
finora la Magna carta dell’Unione europea, non parla di Europadelle
regioni.
[..] Esiste, questo sì, un Comitato delle regioni, citato, istituito
e regolato dal capo quarto del trattato di Maastricht, ma – innanzitutto
– le sue funzioni sono esclusivamente di natura consultiva. [..] Il Comitato
è composto da 222 membri, suddivisi tra i vari Stati europei non
tanto a seconda delle regioni da cui questi sono composti (come sarebbe
lecito attendersi, se le regioni fossero contemplate come soggetto autonomo)
quanto da equilibri basati sull’importanza più o meno ricoperta
ed esercitata dai singoli Stati all’interno dell’Unione».
[9]
Tesi ardita: TrentinoAlto
Adige/Südtirol
e Tirolocontano
assieme un milione e mezzo di abitanti: cinque millesimi dell’Unione europea.
È comunque l’ipotesi sostenuta anche da Aldo Bonomi,
Il
capitalismo molecolare, Einaudi, Torino, pp. 62-72.
[10]
In occasione delle elezioni regionali del novembre 1998.
[11]
Scrive Karl Popper:
«Non possiamo più ritornare a un implicito stato di implicita
sottomissione alla magia tribale. Per coloro che hanno assaggiato il frutto
dell’albero della conoscenza, il paradiso è perduto. Quanto più
ci sforziamo di tornare all’età eroica del tribalismo, tanto più
sicuramente arriviamo all’inquisizione, alla polizia segreta, al gangsterismo
romanticizzato [..] Noi possiamo ritornare allo stato ferino. Ma se vogliamo
restare umani, ebbene, allora c’è una sola strada da percorrere:
la via che porta alla società aperta. Noi dobbiamo procedere verso
l’ignoto, l’incertezza e l’insicurezza, usando quel po’ di ragione che
abbiamo per realizzare nella migliore maniera possibile entrambi questi
fini: la sicurezza e la libertà». In
La società
aperta e i suoi nemici, Armando, Roma,
1973. Primo volume, pp. 278-279.
[12]
Derivante dal concetto di Kultur nell’accezione datale nel 1918
da Thomas Mannin
Considerazioni
di un impolitico: lo stile, la disciplina, l’aristocrazia, l’arte,
la forma, la musica. La Kultur, rappresentata dal Reich, si contrappone
alla Zivilisation, ovvero l’economia, la democrazia, la tecnica,
il progresso materiale, l’omologazione egualitaria e massificata, prerogativa
dell’occidente e della civiltà moderna.
[13]
La stessa Carta delle Nazioni Uniteha
ripreso l’idea di auto-decisione inserendola al punto 2 del primo articolo.
[14]
«Alto Adige»,
23 febbraio 1998.
[15]
Karl Popper,
Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 623.
[16]
Seminario alla facoltà di Sociologia presso l’Università
di Trento, 15 aprile 1997.
[17]
Agenzia giornalistica «Ansa», 9 maggio 1998.
[18]
Il partito di raccolta dei ladini, la terza minoranza linguistica presente
in Trentino-Alto
Adige/Südtirol.
[19]L’autonomia
negata dal centralismo locale, in «l’Adige», 12 aprile
1998.
[20]
Cfr. Autonomiaper
le minoranze, nello Speciale sul cinquantesimo anniversario dell’autonomia
regionale, in «l’Adige», 17 luglio 1998.
[21]
Cfr. Trattato di Maastrichtart.
3B, secondo comma.
[22]
Renzo Gubert,
Sussidiarietà
e autonomia contro la globalizzazione, in «l’Adige», 18
agosto 1998.
[23]
Cfr. John Laughland,
The
Tainted Source, Little Brown and Company, Londra, 1997; pp. 154-158. «Il
decentramento tende ad essere favorito in paesi, come la Germania,
dove il modello feudale permane forte, per queste politiche è associato
più un modello di distribuzione dei soldi dello Stato–
lo scambio di fedeltà per la protezione – piuttosto che con la stabilizzazione
delle condizioni per la libera interazione di cittadini responsabili»,
ivi p. 155.
[24]
«Come è illecito togliere agli individui ciò che essi
possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla
comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore
e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità
si può fare». Citazione tratta da: Le encicliche sociali
dalla “Rerum novarum” alla “Centesimus annus”, Edizioni Paoline,
Roma1992;
p. 124.
[25]
Nel chirografo di Pio XIal
cardinale Schuster,
arcivescovo di Milano,
del 26 aprile 1931, si riconosce che il regime e lo Statosono
totalitari, ma ciò significa che «per tutto quello che è
di competenza dello Stato, secondo il suo proprio fine, la totalità
dei soggetti dello Stato, deve far capo alo Stato, al Regime e da esso
dipendere: dunque una totalitarietà, che diremo soggettiva, può
certamente attribuirsi allo Stato, al regime. Non altrettanto può
dirsi di una totalitarietà oggettiva, nel senso cioè che
la totalità dei cittadini debba far capo allo Stato e da esso dipendere
per la totalità di quello che è o può divenire necessario
per tutta la loro vita anche individuale, domestica, spirituale, soprannaturale».
Così, «la Corporatività si risolve in una speciale,
pacifica organizzazione fra le diverse classi di cittadini, con più
o meno ingerenza dello Stato», mentre l’azione cattolica rimane sul
terreno spirituale e soprannaturale, se pure abbia diritto di portarsi
«anche sul terreno operaio, lavorativo, sociale, non per usurpare
o intralciare attività sindacali o d’altro nome, che non le competono,
ma per salvaguardare e procurare dovunque l’amore di Dio, il bene delle
anime: sempre e dovunque la vita soprannaturale con tutti i suoi benefici».
In Arturo Carlo Jemolo,
Chiesa
e Stato in Italia,
Einaudi, Torino 1977, pp. 252-253. Anche Alcide De Gasperiaveva
colto il nefasto connubio tra fascismo e chiesa, che cercava di superare
le diatribe sulla sovranità introducendo una formula con la quale
la Chiesa era riuscita ad affermare il proprio potere attraverso una presenza
nella società civile (tramite l’Azione cattolica) che non può
dispiegarsi senza il concorso dello Stato cui fa appunto da sussidio. D’altra
parte a sua volta lo Stato non può vivere senza il sostegno delle
collettività organizzate: da qui la doppia convenienza del concordato:
«Il pericolo è nella politica concordataria [..] – scrisse
a Simone WeberDe
Gasperi il 12 febbraio 1929 – certo il Ducevede
la grande impresa oltre che dal punto di vista realista di prestigio, anche
in un certo nembo romantico che lo cinge della spada di Goffredoe
lo corona della tiara di Carlo Magno;
e certo che questa sera a palazzo Colonna, riaprendo i famosi battenti,
qualcuno crederà di riaprire le porte dei secoli in cui si intrecciano
lo scettro e il pastorale». Ernesto Ragionieri,
La
storia politica e sociale (dall’Unità al fascismo), in «Storia
d’Italia Einaudi», p. 2201, nota.
[26]XXIV
Relazione della commissione europea sulla politica di concorrenza 1994,
cit., pp. 31 e segg.
[27]XXIV
Relazione della commissione europea sulla politica di concorrenza 1994,
cit., p. 365.
[28]
Curiosa la valutazione delle sovvenzioni pubbliche proposta dall’imprenditore
Mario Marangoni:
«Quando un’impresa riceveva contributi dalla Provincia,
diventava subito ostaggio dei sindacati. [..] Non voglio attaccare il sindacato:
gli imprenditori avevano una convenienza a cedere, oggi però, in
un mercato sempre più globalizzato non possiamo più permettercelo».
Cfr. «Il Patt?
È un partito che non ha avuto idee», in «Alto Adige»,
26 ottobre 1997.
[29]
Si veda, ad esempio, l’inchiesta: Quando mamma Provinciaaiuta
un’azienda che non ha problemi, in «l’Adige», 3 luglio
1996.
[30]
A tale proposito: Paul Krugman,
A crisis of confidence, in «Prospect», ottobre 1998; Joaquìn
Estefanìa,
Demasiado
mercado mata el mercado, in «El Pais», 6 ottobre 1998;
Ruggiero:
“Globalizzare stanca rinnoviamo l’ordine monetario”, in «la Repubblica»,
6 dicembre 1998.
[31]
Cfr. Enzo Rullani,
La
realtà locale nello scenario economico del Paese e del Nordest,
in «Oltre il Duemila», documentazione per l’omonimo convegno
di Trento,
18 settembre, 1998, p. 77.
[32]
Cfr. Il futuro? Project financing in «l’Adige», 25 aprile
1998.
[33]Allarme,
il terziario è in pericolo in «l’Adige», 25 aprile
1998.
[34]
Per la verità in consiglio provinciale di Trentodal
15 aprile 1998 giace un disegno di legge intitolato «Interventi della
ProvinciaAutonoma
di Trento per il sostegno dell’economia», la cui ratio dovrebbe
essere quella di armonizzare le possibilità di intervento pubblico
alla normativa comunitaria. Ma la legge non è stata approvata.
[35]
Intervista alla «Stampa» del 23 aprile 1995.
[36]
Cfr. Nordest. La calma esplosiva, in «Diario», 6-12
maggio 1998.
[37]
Cfr. Primo sì al federalismo flessibile, in «Corriere
della Sera», 22 aprile 1998.
[38]
Su tale risultato i commenti non sono stati comunque univoci. Per i politici
(esclusa la Lega nord)
si tratta di un buon approdo; per i commentatori esso pare frutto di un
percorso casuale. Secondo Ilvo Diamanti(cfr.
«Il sole 24 ore» domenica 26 aprile), tale risultato è
stato ottenuto seguendo i tempi delle emergenze: «Dalle minacce della
Lega e dalle tensioni che attraversano il Nord. E soprattutto il Nord Est».
Ernesto Galli dalla Loggiaparla
addirittura di «federalismo casereccio, invadente e pasticciato»
(cfr. «Corriere della Sera», 26 aprile 1998). Secondo il commentatore,
sia Forza Italiache
la sinistra sono spinti al federalismo dal «fascino, o il problema,
dei voti leghisti». In sostanza, «non esiste una vera elaborazione
culturale».
[39]
Gian Enrico Rusconi,
Un
esempio di cattivo federalismo, in «la Stampa», 9 maggio
1998.
[40]
Cfr. Cacciari:
il Venetosia
indipendente, in «la Stampa», 11 novembre 1998. Anche:
Cacciari:
voglio il Veneto autonomo, in «la Repubblica», 11 novembre
1998.
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o | Trentino
Autonomia speciale, la democrazia dall'alto Capitolo
II
«Dai
movimenti nazionali ci si aspettavafossero dei movimenti di unificazione».
PREMESSA
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