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_____________di
Rossella Di Leo ____________________________
L’altro giorno, mentre ero in attesa del mio turno
nella panetteria all’angolo, ho avuto l’emozione di un incontro ravvicinato
con la Signora Maria, proprio lei, uno dei maggiori opinion makers di questo
scorcio di modernità inventato dalla (molto virtuale) democrazia
televisiva. La suddetta signora intratteneva un piccolo ma attento pubblico
con commenti di politica estera che vertevano, manco a dirlo, sulla situazione
albanese, prontamente identificata come una delle poche forme esistenti
di “anarchia”. Abbandonando un’inveterata abitudine a non interloquire
in questi talk-show del quotidiano, ho tentato di far presente alla Signora
Maria ed al suo pubblico che gli eventi albanesi ben poco hanno a che vedere
con una definizione etico-storico-socio-politico-etc. del termine “anarchia”.
Mai pentimento fu più repentino. Sentendomi un’extracomunitaria
del pensiero, mi sono affrettata a lasciare, sfilatino sotto il braccio,
l’imbarazzata e perplessa agorà.
Così va il mondo, mi son detta. Eppure quella miscela di luoghi
comuni, di snervanti banalità e di bestialità che gridano
vendetta sono, che mi piaccia o no, il sapere medio in tema di anarchia.
Ma come è possibile che una concezione etica così forte,
una teoria sociale così sofisticata, una visione utopica così
grandiosa sia talmente ignorata e stravolta da essere identificata con
il suo opposto? La Signora Maria (ma la stampa non è da meno) definisce
“anarchica” una società in cui il potere centrale è debole
o assente (e fin qui potremmo ancora esserci) e in cui (e qui invece avviene
il ribaltamento) è in atto una lotta tra soggetti diversi che si
battono per la conquista del potere. Questa fase d’interregno, questa lotta
tra concorrenti tutti all’interno della medesima concezione sociale – quella
gerarchica – viene catalogata nel rozzo linguaggio politico della Signora
Maria (e della stampa) come “anarchia”. E sarebbe con questa chiave interpretativa
che, nel peculiare caso albanese, andrebbero spiegate le burocrazie statolatre
e le lobby ultraliberiste, le emergenti narcomafie e i predoni tradizionali,
i clan tribali del Sud e quelli del Nord… Insomma è veramente risibile
individuare anche solo parvenze d’anarchia nella situazione albanese (se
non forse per tracce assai labili e discutibili di democrazia diretta),
mentre quello cui stiamo assistendo è un classico della storia umana
dal neolitico in poi: una convenzionale dinamica gerarchica per appropriarsi
in modo esclusivo del potere sociale.
Naturalmente sto solo fingendo di stupirmi davanti a questa distorsione
del termine anarchia come caos, distorsione tanto sedimentata da essere
un significato etimologicamente codificato. Cosa che ha creato un paradosso
linguistico assai curioso in quanto, nello spazio di poche righe, sui dizionari
convivono significati opposti ed entrambi legittimi. Così, da dottrina
sociale basata sull’autogoverno si passa a caos per assenza di un potere
centrale costituito. Un bel salto semantico. È un po’ come se sotto
il termine cattolicesimo ci fosse il significato secondario di “persecuzione
sistematica del non conforme” e per comunismo ci fosse “sistema penitenziario
di massa”. Inaudito, vero?
Eppure, è proprio da questo paradosso etimologico che deriva la
più comune obiezione alla teoria sociale anarchica, che possiamo
riassumere così: “Ma se non c’è uno che decide, come si fa
a far funzionare le cose?”. La domanda è apparentemente pertinente
e necessita dunque di una risposta.
La
tirannia del vapore
Il titolo del paragrafo rimanda volutamente ad un noto esponente del “socialismo
scientifico”, quel Friedrich Engels che scrisse nel lontano 1874 un saggio
di critica dell’anarchismo dal titolo Dell’autorità. Erano i tempi
della Prima Internazionale, della scelta per il socialismo tra paradigma
autoritario e paradigma libertario… Molte cose sono cambiate da allora,
ed oggi, che di scientifico è rimasto solo lo scopone, potrebbe
sembrare superfluo aggirarsi tra questi residui di modernariato. Ed in
effetti lo sarebbe se nella vulgata socialista (e non solo) quelle grossolane
considerazioni di Engels non fossero state metabolizzate come sapere comune.
Comune per davvero, perché in questo caso destra o sinistra, statalisti
o liberisti, spiritualisti o materialisti , e via dicendo, condividono
la stessa prospettiva, quella che confonde, terminologicamente e concettualmente,
criteri sociali tra loro differenti come potere, dominio, autorità,
influenza.
Per Engels, la “tirannia del vapore” sarebbe infatti un’azzeccata metafora
per rendere evidenti quei limiti “oggettivi” contro cui nulla può
la frenesia libertaria, limiti che impongono l’esercizio dell’autorità.
Ma cosa intende per autorità? Scendiamo nei particolari. E
questo ci fa piombare in quella notte buia dove tutti i gatti sono bigi:
bigia la gerarchia sociale, indistinguibile dalla termodinamica, bigio
il rapporto comando-obbedienza, inesorabile al pari della forza di gravità.
In questa oscurità primordiale potere e dominio sono sinonimi, decidere
e comandare sono sinonimi.
Proviamo allora ad accendere un cerino e vedere se davvero i gatti sono
tutti bigi. E poiché qualcuno l’ha già fatto, cito:
“Riassumendo.
Ho identificato quattro categorie concettuali che nel linguaggio corrente
e scientifico sono o possono essere tutte coperte da uno stesso termine:
potere. Ho proposto di conservare questo termine solo per definire la prima
categoria identificata: la funzione sociale regolativa, l’insieme dei processi
cioè con cui una società si regola producendo norme, applicandole,
facendole rispettare. Se questa funzione viene svolta da una parte soltanto
della società, se il potere è cioè monopolio di un
settore privilegiato (dominante), esso dà luogo ad un’altra categoria,
ad un insieme di relazioni gerarchiche di comando-obbedienza, che propongo
di chiamare dominio. Propongo, infine, di chiamare autorità le asimmetrie
di competenza che determinano asimmetrie di determinazione reciproca tra
gli individui e influenza le asimmetrie dovute a caratteri personali” [Amedeo
Bertolo, Potere, autorità, dominio, una proposta di definizione,
in “Volontà”, n.3, 1983].
Basta dunque un cerino per accorgersi che i gatti sono bigi solo in quell’oscurità
così comoda per chi vuole spacciare come omologhe funzioni sociali
molto diverse. Questa voluta confusione di termini e concetti è
stata (ed è) necessaria per veicolare il principio gerarchico –
ovvero il principio informatore della società e dell’immaginario
collettivo, democrazie rappresentative incluse – motivandolo (e occultandolo)
dietro una serie di funzioni, competenze e capacità che sono necessarie
e desiderabili per il funzionamento sociale. “Prendere decisioni” è
fisiologico in qualsiasi insieme sociale: senza questa funzione regolativa
la società – grande o piccola che sia – non esiste in quanto tale.
Ma da questo ad affermare che il processo decisionale umano non ha altre
modalità se non quelle che si muovono lungo un asse verticale socialmente
determinato ce ne passa. Accettare l’utilità di una funzione – e
in genere qui l’iconografia gerarchica spinge sotto i riflettori il famoso
direttore d’orchestra o l’altrettanto famoso “tecnico” – non implica accettare
la sacralità di questa funzione (peraltro incarnata da ben più
prosaici rappresentanti) ed i conseguenti privilegi. E se tante competenze
sono benvenute – come già affermava un noto “padre fondatore”: a
chi passa per la testa di contestare l’autorità del ciabattino se
è di scarpe che si tratta? – questo non giustifica la costituzione
di un ambito del politico separato dalla società e gestito da professionisti
che si costituiscono in ceto autonomo con proprie finalità (e che
magari decidono chi deve portare le scarpe e chi no). E ancora, entrare
nel gioco dinamico delle asimmetrie temporanee - quella adulto-bambino,
quella docente-discente, o quelle legate a tratti della personalità
– non legittima la costrizione in asimmetrie permanenti come quelle che
escludono dal sapere privilegiato o dall’accesso al potere quando questa
funzione regolativa è monopolio d’una parte (maggioritaria o minoritaria
poco importa) della società.
Insisto: è risibile giustificare il dominio in basa alla seconda
legge della termodinamica o evocare la competenza dell’ingegnere nello
svolgimento delle sue mansioni per motivare la delega del processo decisionale
sociale. Altrettanto risibile è ipotizzare, come hanno fatto, una
sorta di peccato originale nella socialità tale da imporre, per
la sua stessa sopravvivenza, il ricorso all’ordine gerarchico come elemento
riparatore. Dietro questi efficacissimi specchietti per allodole
ci sono solo scelte derivate da visioni del mondo contrapposte: tra quanti
(i più) accettano il principio gerarchico e quanti (“non son l’uno
per cento, ma credetemi esistono…”) lo rifiutano.
Un’estraneità che ha posto l’anarchismo fuori dalla modernità
pur essendone un figlio bastardo: accusato all’inizio di essere premoderno
e rispolverato alla fine come postmoderno, l’anarchismo è stato
il grande rimosso della modernità, un fantasma che ne ha accompagnato
tutta la storia, restando allo stesso tempo estraneo, perché portatore
di un paradigma radicalmente diverso, e referenziale, perché è
proprio in opposizione alla sua alterità che la modernità
si è definita. E lo ha fatto intorno al doppio asse ordine-disordine
e razionalità-irrazionalità, attribuendosi i primi e identificando
i secondi con il paradigma libertario. Tutta impregnata da quello autoritario,
la modernità si è invece espressa – tanto nelle sue forme
totalitarie quanto nelle sue forme di democrazia rappresentativa – in una
progettualità tesa alla costruzione di un ordine sociale razionale
che ha visto nella forma-Stato, cioè nel paradigma moderno di gerarchia,
il nucleo organizzatore e immaginario.
Tutti coloro che hanno criticato (e irriso) questo ordine sociale razionale,
i “nemici dello Stato”, non potevano che essere identificati come
i portatori di caos, i profeti di un disordine pericoloso per la stessa
socialità. E proprio per questo andavano espulsi dalla storia, in
quanto “incompatibili” con quella gerarchia funzionale identificata da
tutta la modernità (seppur con contenuti etici diversi) come il
modus operandi per eccellenza, la pura macchina che, condotta in modo competente
da manovratori addestrati, avrebbe guidato in modo efficiente e (disegualitariamente)
equo una società sempre più complessa. Tale fede positivista
nella progettualità razionale è sfociata in alcuni orrori
e in qualche disillusione; disillusione che tuttavia ha in genere salvato
la macchina e condannato “per incompetenza” i manovratori.
Ma non sono queste le pagine in cui fare una seria analisi dello Stato
e della sua centralità nell’immaginario collettivo. Qui basti dire
che il mito resiste perché Stato e comunità sono anche loro
spacciati come sinonimi. Il che spiega i continui appelli lanciati per
rafforzare ed estendere il “senso dello Stato”, espressione terrificante
con cui si persegue la sostituzione del senso di identità comunitario
con la sua rappresentazione burocratica, della partecipazione diretta con
quella delegata, del ruolo di cittadini con quello di contribuenti ed elettori.
No
limits
Per passare alla seconda più comune obiezione all’anarchismo mi
rifaccio ad un’altra contestazione altrettanto classica della precedente
(ribadita qualche tempo fa persino da un docente di sociologia), quella
sui semafori: “Come può mai funzionare una società in cui
ognuno fa quello che vuole e dunque gli automobilisti non rispettano più
il rosso?”.
Questa obiezione, che fa anch’essa ricorso all’uso di facili quanto ingannevoli
metafore, tocca un altro nodo cruciale: l’assimilazione di anarchia ad
anomia. C’è qui un doppio gioco di occultamento del principio gerarchico
dietro lo schermo della formula “legge ed ordine”, postulata come l’unica
possibile regola di convivenza sociale. Innanzi tutto c’è il tentativo
(riuscito, come dimostra la Signora Maria) di far passare l’anarchismo
come la formulazione di una società strutturalmente anomica, cioè
basata sull’infrazione “istituzionale” della norma. C’è poi il tentativo
(tanto riuscito che persino alcuni anarchici sprovveduti ci credono) di
far coincidere l’anarchismo con la teorizzazione del no limits, cioè
dell’assoluto arbitrio del singolo che lo legittimerebbe ad agire senza
tenere in alcun conto l’interazione sociale.
Ora, l’anarchismo non ha mai teorizzato una società senza regole,
senza istituzioni, senza interazioni sociali. Non l’ha mai teorizzato per
il semplice fatto che un aggregato di questo tipo non esisterebbe in quanto
società, mentre l’anarchismo è esattamente una concezione
della socialità umana, ovvero un modo di “stare insieme” costruito
intorno a regole e valori egualitari e libertari. Certo, l’anarchismo persegue
nella società del dominio la distruzione delle sue istituzioni,
la trasgressione delle sue norme, il “disordine creatore” contro l’omologazione
dell’ordine gerarchico. Non solo, ma teorizza anche una “diritto alla trasgressione”
che metta al riparo la società della libertà da un suo irrigidimento
istituzionale al fine di preservarle quella configurazione “aperta” che,
sola, le è congeniale. Ma ciò detto, il suo progetto sociale
non può certo essere assimilato ad una pratica anomica. A fronte
della banale infrazione di una norma non accettata, che non è in
sé veicolo di una diversa proposta sociale, c’è quel complesso
progetto di auto-organizzazione della società elaborato dall’anarchismo,
basato su un processo decisionale orizzontale grazie al quale la funzione
normativa sociale (il potere) diviene un atto della comunità nel
suo complesso e non l’esercizio privilegiato di una sua parte (il dominio).
E dunque ci sono regole, ma utili e non sacre, ci sono scelte, ma partecipate
e non imposte, ci sono istituzioni, ma flessibili e non perpetue. E soprattutto
ci sono limiti. La fola dell’arbitrio assoluto del singolo come principio
anarchico è del tutto smentita dalla concezione di libertà
sviluppata dall’anarchismo, la quale mette in relazione la propria libertà
con quella dell’altro così che l’una potenzia (e non costringe o
annulla) l’altra. È ancora la geniale intuizione bakuniniana, secondo
la quale la libertà è una interrelazione sociale: la mia
libertà può esistere solo in relazione a quella degli altri,
e non in un vuoto sociale dove sarebbe del tutto superflua. Mentre è
solo in un vuoto sociale, in un aggregato atomizzato che non si riconosce
come comunità, che l’arbitrio assoluto del singolo può trovare
quell’illimitata espressione cui anela, e che un’altra concezione etica
gli potrebbe garantire, quella del nichilismo.
Se morire per la libertà può esser cosa bella e giusta, passare
col rosso non è dunque liberatorio ma stupido. E vi garantisco che
da un punto di vista anarchico se si accetta una regolamentazione del traffico
attraverso l’“autorità” dei semafori, non si è assolutamente
tenuti ad accettare, per supposta coerenza, anche un dominio politico che
imponga la subordinazione, la distribuzione ineguale della ricchezza o
la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ve l’ho già
detto: qui c’è qualcuno che su questi fraintendimenti ci marcia.
Bella
e impossibile
Le obiezioni non sono sempre così malevoli e infingarde. Ce ne sono
anzi di quelle che partono da un punto di vista totalmente opposto e che
posso così riassumere: “Le vostre idee sono fantastiche, ma la gente
è talmente stupida e cattiva che non sono realizzabili. Sono solo
belle utopie”. Questa naturalmente appare come un’obiezione meno nefanda
delle altre (e, diciamo la verità, nei momenti di maggior scoramento
non sembra nemmeno tanto campata in aria). Epperò, anche qui qualche
osservazione s’impone, quantunque con una leggera vertigine causata dell’inconsueta
posizione in cui ci colloca questa critica, cioè quella di essere
i “buoni” della situazione anziché, come d’abitudine, i “cattivi”.
In questo caso, infatti, l’anarchismo viene effettivamente riconosciuto
come una concezione del mondo radicalmente innovativa e fortemente etica.
Non più malvagi portatori di caos, gli anarchici diventano in questa
versione i cavalieri erranti dell’utopia, gli incontaminati eroi di una
visione sociale talmente grandiosa da proiettarli ben al di sopra della
squallida trivialità del genere umano. Accattivante, vero? Ma non
cascateci: questa visione è ritenuta tanto complessa e raffinata
da essere assolutamente impraticabile, trasformando così gli anarchici
in altrettanti simpatici, ma patetici Don Chisciotte.
Indubbiamente il mestiere di utopista non è di quelli che diano
fama di praticità, ma qui si esagera, anzi si mistifica. Il tentativo
(indicatore di pungenti sensi di colpa) punta a far passare come aliena
una concezione sociale ed etica così “esageratamente” egualitaria
e libertaria; aliena proprio nel senso che i valori e le modalità
proposte non apparterrebbero alla storia sociale umana, ma sarebbero creazioni
astratte, allucinazioni oniriche, incompatibili con una realistica visione
antropologica.
In realtà questo è un tentativo di de-storicizzare l’anarchismo,
privandolo del passato e del presente (e come vedremo anche del futuro).
Troppo bello per essere vero, l’anarchismo viene lasciato a fluttuare nel
nulla come se avesse attraversato il tempo e lo spazio senza contaminarsi
con la vile realtà. Lo si giubila in una non-storia solo per negargli
il suo ruolo di protagonista nel farsi storia di concetti fondamentali
per la cultura umana (o quantomeno occidentale) come quelli di libertà,
autonomia, democrazia diretta, uguaglianza, solidarietà, diversità…
E con l’anarchismo si smaterializzano anche i milioni di uomini e donne
che lo hanno incarnato. Carne vera, tangibile, sentimenti e speranze veri,
nati nel qui e ora di esistenze concrete che hanno dato corpo, nel senso
letterale, a ciò che si vorrebbe trasformare in fantasma, in astrazione.
In realtà, l’anarchismo è sì estraneo alla società
del dominio, ma non alieno, anzi non sarebbe potuto nascere altrove.
E non è finita, perché si cerca al contempo di privare l’anarchismo
anche del futuro. Ritroviamo infatti in questo tentativo di smaterializzazione
una classica critica mossa a tutto il pensiero utopico da parte di quanti
si rifanno al cosiddetto realismo politico, e cioè di essere non
progettualità ma sogno o fantasia (quasi che gli umani non fossero
mossi, oltre che dai bisogni, proprio dai desideri). Sono questi gli strenui
sostenitori dell’esistente come dell’unica realtà dalla quale sia
legittimo estrapolare il futuro (con buona pace di una storia umana ben
più articolata e ricca di quella racchiusa nel paradigma prevalente).
Ora, non c’è alcun dubbio che il peso del reale, la deriva dell’esistente,
siano fortissimi, che plasmino i costumi, le mentalità, persino
i desideri. Però mi sembra che qualcosina dal paleolitico in poi
sia cambiata. E non sempre si è trattato di ovvie, prevedibilissime,
evoluzioni: qualche cambiamento inaspettato lì, qualche rottura
radicale là sono facili da rintracciare. Insomma la storia marcia,
le cose cambiano, l’universo si espande… e le utopie si fanno storia.
Per capirci meglio, ipotizziamo un piccolo gioco mentale a sfondo storico.
Proviamo a immedesimarci nella forma mentis, nelle abitudini e nelle aspettative
di un laborioso artigiano del basso Medio evo, con la sua vita sobria e
la sua corporazione protettiva (ma andrebbero altrettanto bene un arrogante
signorotto feudale o uno sfigatissimo contadino gozzuto). Bene, entrate
nella sua mentalità e con parole chiare e semplici spiegategli come
funziona il capitalismo. Qualche problema? Io ho gli stessi in panetteria.
Capitalismo
senza cuore
Il nome del capitalismo non è stato nominato invano. Anzi, ci serve
per passare all’ultima delle obiezioni qui considerate, quella che suona
più o meno così: “Le vostre idee, per quanto suggestive,
vanno bene solo per aggregati sociali semplici, anzi primitivi. L’attuale
società si è evoluta in modo talmente complesso che le vostre
proposte sono penosamente insufficienti”.
Qui il problema sarebbe l’inadeguatezza dell’anarchismo a competere con
la sfida della complessità. Carucce le sue tesi se è di una
tribù yanoami che stiamo parlando, ma se è della nostra complessissima
società occidentale, allora, per carità, cerchiamo di essere
seri. Bene, proviamoci.
A ben vedere l’attuale “complessità” sarebbe data da un sovrapporsi
intricatissimo di quantità: quantità di esseri viventi da
coordinare, di bisogni sociali da soddisfare, di funzioni amministrative
da espletare, di consumi di massa da gestire… Mettere insieme tutte queste
quantità (e altre ancora) e farle funzionare degnamente non è
certo semplice: implica grandi idee, grandi mezzi, grandi istituzioni…
O almeno questa è stata l’unica visione sociale ritenuta in grado
di contenere una tale proliferazione quantitativa. Non sorprendiamoci dunque
se di nuovo ci imbattiamo nella progettualità sociale onnicomprensiva,
negli apparati burocratici onnipervasivi, nella mega-istituzione onnivora,
ovvero nei caratteri costitutivi della modernità.
Di fronte a queste visioni grandiose, corroborate dal mito del progresso
infinito, pensare “in piccolo” è diventato meschino, riduttivo,
di certo incompatibile con la grande invenzione della modernità:
le masse (popolari o consumiste poco importa, comunque il soggetto di questa
pretesa complessità). Chi non si è posto nella prospettiva
della grande dimensione, chi ha continuato a parlare di individui e di
comunità e delle loro interrelazioni non poteva in alcun modo aspirare
a gestire la nuova società di massa.
Ma perché definire “pretesa” tale complessità quando l’elefantiasi
istituzionale è sotto gli occhi di tutti? Perché in realtà
la logica con cui tutto questo è avvenuto ha portato non a rendere
più articolata e diversificata la società ma al contrario
a renderla più semplificata e standardizzata. La massificazione
del corpo sociale, delle coscienze, dei consumi e dei desideri è
infatti avvenuta in un’ottica di omologazione. Omologazione stratificata
beninteso, anche se non più secondo la tradizionale raffigurazione
piramidale della società, ma – qui da noi, nel mondo ricco – secondo
una nuova raffigurazione che potremmo definire ovoidale per dar conto,
oltre che del permanere di un vertice e di una base, anche della esuberante
espansione del ceto medio. Ma al di là di queste considerazioni
para-geometriche, il punto è che il concetto di massa (buono per
il sistema elettorale, per la grande distribuzione, per gli share televisivi,
per la scuola unica, per le adunate oceaniche e per quant’altro implichi
quantità e non qualità) regge solo se la diversità
non è più valore ma solo una frazione percentuale da riassorbire,
un costo aggiuntivo da tagliare, una stravaganza da penalizzare. La molteplicità
umana è infatti incompatibile con una visione sociale massificata,
non è gestibile nella sua interezza da alcun “grande progetto”,
che per funzionare ha bisogno, lui sì, di ridurre la società
in “grandi” categorie all’interno delle quali comprimere tale molteplicità.
E questo non avviene per una questione astrattamente filosofica: la società
di massa non è per principio contro la diversità, è
solo che non ci sta nei costi.
E tuttavia, se per pensare “alla grande” la modernità ha ridotto
la complessità umana (le antropologie compatibili), ne ha invece
prodotta una tutta sua che spaccia come importante e necessaria. È
appunto la complessità istituzionale, cioè quel cumulo di
funzioni burocraticamente regolamentate che la modernità si è
dovuta inventare per gestire questa società di massa. Così
la piovra istituzionale infiltra i suoi tentacoli viscidini in tutti gli
interstizi sociali per regolamentare, amministrare, in definitiva “complicare”
la convivenza sociale. Una complessità dunque del tutto artefatta,
nel senso che è prodotta ed ha ragion d’essere solo in questo quadro
di riferimento. Che è poi quello del paradigma centralista.
Istituire un centro operativo, un “cuore” sociale verso il quale fluiscono
tutte le informazioni che, rielaborate, poi tornano in circolo a tutta
la società è sembrata la modalità di funzionamento
più consona alla società complessa (ovvero, complicata).
Senza scomodare l’utopia, proviamo tuttavia a ipotizzare un altro scenario
e verificare se davvero è necessario un centro per gestire la complessità.
Se si dà un’occhiata anche distratta in giro, ad esempio al mondo
della natura, non sembrerebbe proprio che la sua incontenibile complessità
abbia bisogno di un centro per funzionare, o che tendenzialmente questa
complessità vada riducendosi in assenza di un coordinamento centrale
(cosa che invece succede esattamente quando c’è un intervento umano
di interferenza o di controllo dei processi naturali). E se il paragone
con la natura non convince, perché troppo diversa la sua “natura”,
restiamo in ambito umano e prendiamo in considerazione un altro fenomeno
non proprio secondario della nostra epoca, il capitalismo.
Dov’è il centro del capitalismo? Io ho qualche difficoltà
ad identificarlo. Certo, l’invadente Impero d’Occidente trasuda capitalismo,
multinazionali e Borse valori ne sono i macroscopici addensamenti, investitori,
imprenditori e tecnoburocrati ne sono i microscopici inveramenti… ma il
centro verso cui tutto converge e da cui tutto diparte dove sarebbe? Dov’è
il “grande vecchio”? A mio avviso non c’è perché il capitalismo
è (notoriamente) senza cuore, cioè non si rifà al
paradigma centralista, ma si basa su un’altra modalità di funzionamento:
quella a rete. Ovvero una struttura molto più articolata e dinamica
di interrelazione, con flussi multidirezionali che s’incrociano e si diramano
attraverso i nodi della struttura reticolare (che guarda un po’ è
anche quella del cervello).
Ammetto che è un po’ furbesco far sostenere all’acerrimo nemico
il proprio punto di vista, ma mi serve per abbreviare di un bel po’ spiegazioni
e giustificazioni su un modello operativo tradizionalmente proposto dagli
anarchici e considerato “semplicistico” dai fautori del paradigma centralista.
Ci sono prove concrete, in natura e in società, che il modello a
rete non solo funziona ma anche in modo più dinamico e sofisticato.
E se non credete a me, andate a vedere come se la cava il capitalismo.
E qui naturalmente l’analogia finisce perché quest’ultimo, al di
là del ricorso alla suddetta tecnica funzionale, è una delle
più perfette piramidi sociali che si conoscano, strutturata intorno
a valori antitetici a quelli di una visione egualitaria e libertaria. (Il
che dovrebbe farci riflettere – e non lo faremo qui – su modalità
e valori, perché se talune modalità sono chiaramente incompatibili
con valori libertari – il paradigma centralista – altre sono sicuramente
compatibili – la struttura reticolare – ma non costituiscono in sé
il metodo libertario tant’è che possono funzionare anche con categorie
etiche diverse). L’analogia fatta ci è stata però graziosamente
utile per arrivare più celermente alla conclusione, non senza lanciare
un ultimo avvertimento a proposito del paradigma centralista: di certo
non è l’unica modalità di funzionamento a disposizione per
coordinare una società complessa, ma è indubbiamente la modalità
da preferire se dietro l’eccellente scusa di coordinare i flussi sociali
c’è, in realtà, l’esigenza di controllarli.
E qui chiudiamo questa non esaustiva rassegna delle obiezioni più
comuni e stolte all’anarchismo. Stolte, si badi, perché sono quelle
dovute in genere a crassa ignoranza o a bieca diffamazione. Esistono, invece,
altre obiezioni all’anarchismo, meno comuni e più raffinate, che
meritano di essere prese in seria considerazione… cosa che altri hanno
fatto e faranno meglio di me. Come peraltro molto meglio di me hanno già
fatto anche “padri (e madri) fondatori” nel ribattere a questo tipo di
grossolane mistificazioni. Da Godwin a Kropotkin e Malatesta (ma anche
ai ben più recenti Goodman e Ward) gli anarchici si sono sempre
trovati nella condizione di dover rispondere a questo tipo di obiezioni,
in fondo figlie legittime della cultura prevalente. Ed è proprio
a loro che vi rimando per risposte ben più articolate e convincenti
di quelle qui esposte. A me rimane il problema della Signora Maria. Forse
cambio panettiere.
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Rossella Di Leo è
responsabile del Centro studi libertari di Milano e redattrice delle edizioni
Elèuthera.
Questo articolo è
tratto dalla rivista
Volontà
del dicembre 1996.
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