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pensieri
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Ma la disaffezione è
solo una scusa
I referendum falliti, la politica lontana,
le persone smarrite ma non assenti, la democrazia...
Una delle cose che più dava fastidio nei commenti al fallimento referendario erano - a parte chi come sempre cantava vittoria pro domo sua - i politici e i giornalisti che si stracciavano le vesti e con musi lunghi parlavano di disaffezione dalla politica. Ma a qualcuno, forse, pare che questa politica e questi mass media siano cose a cui uno mediamente dotato d'intelletto dovrebbe affezionarsi? Qui si gioca, forse, uno degli equivoci che ammantano la nostra epoca dell'informazione senza informazione, della democrazia senza partecipazione, della libertà economica senza libertà dei bisogni. L'equivoco - che più verosimilmente è la naturale conseguenza di un disegno a tavolino - è che le persone, i singoli individui siano delle entità astratte e lontane, in altre faccende affacendate e comunque difficilmente catturabili con le cose della politica o dell'economia o dell'intreccio fra le due.
Osiamo pensare che questo sia falso. Le persone hanno voglia di darsi da
fare, voglia di incontrare gli altri, di relazionarsi, agire, offrire,
donare anche. Lo fanno nei modi più disparati ma spesso probabilmente
sono un po' frustrate e non capiscono bene come poterlo fare meglio o di
più. O non possono per le condizioni materiali in cui si trovano
a vivere. Il problema è che non devono fare né meglio né
di più. Altro che disaffezione! Non è previsto che facciano
né meglio né di più.
Questo per dire che ci viene un po' di mal di pancia quando si parla delle persone che formano le comunità come di autoesclusi dalla vita politica; e questo vale ovviamente anche per tutti coloro i quali, nel mondo dei partiti e non solo, accampano con sicumera pretese di rappresentanza di questo o di quell'altro invece di adoperarsi per ritagliare spazi nuovi di partecipazione ai loro molto presunti rappresentati e/o autosclusi. Anzi, semmai è la politica a escluderle, ci pare. E' la politica, è la pedagogia, è l'economia, è l'informazione, è il lavoro, è la competizione sociale con i suoi clichè a tarpare presto le ali alle persone e a gettare acqua sulle braci dei desideri repressi che rischiano tuttavia di diventare dei mostri dell'inconscio collettivo. Alternative?
Nel deserto della ricerca politica contemporanea sono difficili da vedersi,
l'omologazione generale ha ingessato i percorsi, la fantasia, il gusto
dell'immaginario. Ma questo non significa che non cia un reale e spontaneo
bisogno di riprenderli, di ricominciare davvero a interrogarsi sui modelli
di convivenza locale e globale, di cercare di capire se sia ragionevole
immaginare una iniezione di "sostenibilità" in qualche settore dello
sviluppo umano o se non sia piuttosto urgente avviare - almeno parallelamente
ai rimedi da pronto soccorso - un percorso olistico e nonviolento per mettere
in discussione seriamente, dal basso, i meccanismi del potere, recuperando
in pieno lo spazio semantico del termine democrazia. Se la versione liberale
della democrazia rappresentativa è stata finora la migiore di quelle
praticate su larga scala, ciò non toglie che essa conserva la cesura
secca fra governati e governanti, la struttura sociale gerarchica, la divisione
netta in classi dominate e dominanti. Non è questione da poco e
non vedere una chiara alternativa non è una ragione per non cercarla.
La digressione sulla democrazia partecipata ci aiuta a spiegare il fastidio
che proviamo davanti a chi - e non sono pochi - mostra insofferenza per
semplici referendum come quelli del 21 maggio: altro che nuovi sentieri...
Il problema non sembra tanto questo; piuttosto, se e come uno può e vuole informarsi su qualche cosa e dove si pone il limite della delega; quanto facile sia la manipolazione in vista di un referendum popolare; quanto praticabile una decisione invisa a un'ampia minoranza; quanto democraticamente verificabile un eventuale compromesso parlamentare posteriore al voto eccetera. Altri sentieri. Ma che cosa resta ora di questi (non) referendum? A parte il mercato dei sistemi elettorali (qualcuno crede ancora a chi racconta che i guai della qualità politica italiana dipendono dalla proporzionale?), resta forse un qualche germe di dibattito su alcuni dei temi sfiorati dai referendum. Tipo l'ordine giudiziario. O il lavoro, la necessità di occuparsi seriamente dell'esercito di sfruttati che non hanno contratti di lavoro dipendente ma che lavorano da dipendenti e non si pongono il problema del reintegro perché non possono essere licenziati, dato che lo sono tutte le sere quando lasciano l'ufficio. Però è abbastanza chiaro che non è licenziando più facilmente gli altri, come vogliono i radicali e gli industriali, che si affronta la questione. Ma ci sembra che resti, soprattutto, la incapacità della politica di comunicare con i suoi linguaggi, le sue forme e i suoi contenuti. Si parla addosso, evita i temi più importanti locali e globali, s'incarta in bazzecole marginali e le trasforma in temi epocali, vive in una dimensione fantastica, monopolizza i mass media per proiettare di sè l'immagine di un'arena impegnata in produttivi tornei oratori. E invece si tratta di basse dispute di cortile, anzi peggio perché il cortile - credeteci - è spesso molto più dignitoso, serio e costruttivo, così come il bar o l'ufficio. Vien quasi da pensare che, piano piano, tutti quelli che non le sono più affezionati costruiranno un'altra politica. Così, tanto per sopravvivere. (z. s.)
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