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Flessibilità
fa rima con precarietà
Il capitalismo oggi
accresce la sottrazione di umanità. Ma politici e media lo celebrano
di LUCIANO LOCCI
Una
delle promesse più accattivanti fatte dal Polo nel corso della campagna
elettorale è quella relativa alla creazione di nuovi posti di lavoro
per i giovani. E' un tema ricorrente, ben saldato all'immagine di sé
che Berlusconi ha voluto consegnare agli italiani: quella dell'imprenditore
potente ma illuminato, così capace di concretezza, così grande,
da farsi carico dei problemi del paese, così ricco da desiderare
non più il denaro ma il bene del prossimo.
La ricetta del Polo in tema d'occupazione si inserisce in un processo più ampio di smantellamento, non più solamente dello "stato sociale", ma dello Stato nella sue strutture fondamentali e della democrazia. Inquietanti, in tal senso i recenti attacchi ai principi della separazione dei poteri e all'obbligatorietà dell'azione penale. La destra oggi propone, in materia di occupazione, la sacralizzazione della flessibilità, della precarizzazione del lavoro; in nome della flessibilità, antichi principi e diritti che parevano acquisiti sono oggi posti in discussione. Sebbene molti cittadini ed intellettuali moderati abbiano giustamente temuto che le destre potessero portare fuori dall'Europa l'Italia, è proprio in materia d'occupazione che il Polo, con assoluta certezza, ci condurrà in Europa, attraverso una "ricetta" in linea con le scelte del moderno capitalismo europeo ed americano. Ma
qual è la realtà occupazionale in questi paesi, oggi additati
come modello? E' uno scenario da tempo triste e sconsolato.
Il capitalismo moderno accompagna la trasformazione dell'organizzazione produttiva non solo con la campagna mediatica , ma anche con la divulgazione di un nuovo modello spirituale di qualità morali ed umane. Oggi qualcuno - parte della stampa, alcune forze forze politiche, un certo tipo di scuola - quella delle tre I, in realtà da tempo operante nel Paese - esalta da un lato lo spirito imprenditoriale, dall'altro l'accettazione della flessibilità e quindi della precarietà, dello sradicamento, come valore dello spirito, come risorsa interiore imprescindibile per le nuove generazioni. I sani e validi giovani d'oggi sono quelli che, per esigenze di lavoro, sapranno essere professionalmente duttili, ma anche affettivamente flessibili, in grado si spostarsi da una parte all'altra dell'Europa, grazie alla conoscenza di più lingue. L'inetto, invece, è il radicato, colui che ama i propri amici, la propria terra, il colore e il profumo della natura, del mare o delle sue montagne; è colui che si affeziona ai colleghi di lavoro, e che costruisce in quel contesto parte della sua identità umana e non solo professionale. E'
evidente che la retorica della flessibilità come valore dello spirito
nasconde poi profondi "costi sociali", disagi mal celati, frustrazioni,
un drammatico senso di precarietà, anche interiore, una difficoltà
a dare un senso alla propria esistenza, a costruire una solida identità
professionale; più in generale, una difficoltà a crescere
e ad essere autonomi. Sono costi che la nostra opulenta società
della flessibilità e del lavoro interinale pagherà, e forse
in ambiti insospettabili o non direttamente connessi alla dimensione lavorativa:
nevrosi, angosce, solitudine, violenza, crisi d'identità...
Soprattutto, si affermano nuove forme di lavoro servile; di quest'ultimo genere saranno i nuovi posti di lavoro tanto declamati dalle destre. Come sostiene acutamente Marco Revelli, Qquello che si profila, entro l'orizzonte della transizione in corso, è un paesaggio sociale segnato dal ritorno di aspetti, pratiche, figure del lavoro servile: lavoro privo di negozialità e diritti; lavoro ridotto alla disponibilità "personale" piena, incondizionata, affidata alla discrezionalità dell'imprenditore e dell'impresa; lavoro privo di "socialità" che non sia quella dell'apparato di comando che via via lo sottomettef (M. Revelli, La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 20). Nel
nuovo millennio e nello stesso mondo opulento privilegiato, sfuma, a causa
delle trasformazioni del sistema produttivo, il sogno di un capitalismo
civile, dal volto umano. E sono i giovani, ancora una volta, a pagarne
le conseguenze.
Luciano
Locci
lchatterley@libero.it |
o | (28
maggio 20001)
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