di MARCO PONTONI
Antropologia
e etnolinguistica mi pare siano concordi nell'affermare che l'identità
etnico-linguistica è in parte un'invenzione umana in parte un prodotto
della storia, non certo qualcosa di dato una volta per sempre né
tantomeno qualcosa che necessariamente affonda le sue radici nel passato,
e che da questo passato viene nobilitata (in ossequio all'idea romantica
per la quale tutto ciò che è vecchio o antico è anche
più autentico di ciò che è giovane o moderno).
Ne
consegue che i confini stessi delle etnie e dei gruppi linguistici non
sono statici ma dinamici, e il loro allargamento o restringimento si è
spesso prestato a strumentalizzazioni di varia natura. Senza dimenticare
peraltro che l'appartenenza ad un determinato gruppo etnico può
occultare l'appartenenza ad altri raggruppamenti: classi sociali o d'età,
chiese, caste, corporazioni. Quando ciò avviene il collante etnico
può assolvere ad una funzione simile a quella svolta negli Stati-nazione
dall'ideologia nazionalista: ricomporre le fratture sociali, neutralizzare
i conflitti di interesse, all'occorrenza mobilitare il gruppo contro un
nemico esterno, sia esso reale o fittizio.
Ma quando diciamo
che le etnie sono soggetti storici non pensiamo qui all'idea ingenua, ottocentesca,
di una storia lineare che, partendo dai primordi, dalle bande e dalle tribù,
andava via via emancipando l'uomo dai legami di sangue e di razza fino
all'affermazione del cittadino moderno. Troppe sono infatti le deviazioni
rispetto a questo percorso, che gli storici conoscono bene. Ad esempio,
la dominazione europea in Africa, anziché cancellare quelli che
venivano indicati come "costumi tribali" (quante virgolette sono necessarie
per poter maneggiare definizioni tanto pericolose) di fatto comportò
una ridefinizione e talvolta un rafforzamento delle divisioni etniche.
Così, quando nel Rwanda i belgi istituirono la carta d'identità,
essi vollero che riportasse una menzione: hutu, tutsi o twa. Un'indicazione
che – com'è noto - sopravvisse alla decolonizzazione, e che nel
1994 divenne la sentenza di morte per i tutsi (e per tanti hutu moderati).
Ciò
vale anche per etnie molto più vicine a noi. Se nel primo dopoguerra
il Sudtirolo non fosse stato staccato dal Nordtirolo, e se il fascismo
poi non avesse cercato di italianizzare forzatamente l'Alto Adige, oggi
non esisterebbe in Alto Adige – provincia dello Stato italiano - un gruppo
etnico tedesco tutelato da norme costituzionali e censito come tale. Se
la storia avesse avuto un percorso diverso i tirolesi oggi sarebbero "solo"
una popolazione che abita una certa regione geografica, come i veneti o
i toscani o i carinziani o i bavaresi. Vogliamo dire che veneti, toscani,
carinziani e bavaresi sono un'etnia o un gruppo linguistico?
Il fatto che le etnie non
siano un dato naturale ma un prodotto della storia e un'invenzione socio-politica
non significa però che esse non esitano. Gli eventi sociali dopotutto
non sono determinati da ciò che è "vero" (la verità
è un concetto filosofico), ma da ciò che i soggetti sociali
percepiscono come tale. Che gli ebrei non fossero i veri responsabili della
crisi economica della Germania di Weimar, che essi non stessero ordendo
alcun complotto ai danni del Reich, che molti non avvertissero alcuna contraddizione
nell'essere al tempo stesso ebrei, tedeschi, europei, o quant'altro (così
come un cittadino rwandese nell'essere al tempo stesso tutsi, rwandese,
africano ecc.) non ha impedito ai nazisti di eliminarne sei milioni.
Quindi le etnie iniziano
ad esistere nel momento in cui si costituiscono come tali (raccogliendo
l'adesione di un numero sufficientemente ampio di persone) o vengono riconosciute
da qualche ente o soggetto esterno che in qualche modo le "certifica" (lo
Stato, l'Unione europea, l'Onu ecc.). Ciò produce a volte dei risultati
buoni, dall'altra però anche dei risultati paradossali: in Trentino
c'è chi oggi propone agli abitanti della Valle di Non di dichiararsi
"minoranza etnica" e di battersi affinché il noneso (il dialetto
della valle) sia riconosciuto una lingua. Perché esiste in Val di
Non un insopprimibile bisogno di identità? Non direi, o almeno,
non in questi termini. Piuttosto perché essere un gruppo etnico
minoritario può rappresentare un vero e proprio business: significa
avere propri rappresentanti in Parlamento, accedere a contributi pubblici,
insomma, diventare a tutti gli effetti una lobby. Su scala più ampia
questo ragionamento vale, com'è ovvio, anche per i veneti, i toscani
e così via, anche se qui il fenomeno di "costruzione dell'etnia"
può essere differentemente accentuato (e forse potrebbe venire neutralizzato
dalla semplice - si fa per dire - concessione di un'ampia autonomia regionale
da parte dello Stato centrale, perché è ovvio che più
uno Stato è accentratore più si accentua, per contrasto,
l'identità delle periferie).
Da quanto detto
fin qui sarà evidente che il sottoscritto ha un atteggiamento piuttosto
scettico nei confronti di questo revival delle etnie a cui si assiste ormai
da un certo tempo un po' in tutta Europa. Ciononostante, e per quanto certi
atteggiamenti del neo-regionalismo populista siano ripugnanti (ci riferiamo
alla Lega Nord non meno che alla Fpö di Haider o al "Blocco fiammingo"
in Belgio, e chissà quanti movimenti e partiti di questo tipo cova
l'ex Europa comunista) io ammetto volentieri che la richiesta di maggiore
autonomia può essere a volte comprensibile e condivisibile. Gli
Stati nazionali, e i partiti nazionali, spesso danno una così cattiva
prova di sé e mostrano una così assoluta ignoranza dei problemi
reali delle popolazioni che la richiesta dei territori di potersi amministrare
in maniera autonoma e gestire liberamente le proprie risorse diventa in
qualche modo naturale.
Dalla mia esperienza di
persona che è nata e vive vicino a un frontiera (prima in Alto Adige,
poi in Trentino) non ho ricavato certezze definitive di materia di identità
etnica o linguistica. Di una cosa sono convinto, però: che esistono
al mondo – la semplificazione potrà sembrare un po' brutale – due
generi di persone. Quelle che non si soffermano molto a riflettere sul
problema, e che comunque ritengono l'identità una faccenda molto
personale, diciamo un prodotto dalle esperienze fatte e metabolizzate e
non del luogo di nascita o della lingua o dei legami di sangue. E quelle
che si riconoscono invece in un concetto allargato di identità,
in particolare che si sentono definite da una lingua o un dialetto, o un
gruppo etnico. Per questa seconda categoria di persone non è importante
se ad esempio l'etnia di appartenenza cinquant'anni fa non esisteva (e
quindi che essa sia semplicemente il prodotto di una serie di passaggi
storici o giuridico-costituzionali). In genere queste persone non hanno
un approccio "intellettuale" all'identità (per quanto i loro
interessi possano essere rappresentati anche dagli intellettuali: linguisti,
scrittori ecc.), né (fatto salvo quanto dicevo sopra sui vantaggi
che un'etnia riporta dall'essere riconosciuta "ufficialmente") meramente
utilitaristico: si sentono così – si sentono tirolesi o trentine
piuttosto che italiane, catalane o basche piuttosto che spagnole, ladine,
nonese, o solandre piuttosto che trentine e così via - sulla base
di un complesso di fattori che vanno dalla nascita all'educazione al tipo
di vita praticata ecc. Tutti fattori che difficilmente si prestano ad una
rigida razionalizzazione. Poi magari in molte cose – dai consumi all'educazione
dei figli - il tirolese non si discosta in nulla dall'italiano, il catalano
non si discosta in nulla dallo spagnolo e così via. Ma questo è
un altro discorso.
Per quanto mi riguarda,
appartengo all'altra specie. Quella del cittadino-meticcio, del cittadino
privo di una connotazione identitaria rigida e determinata dal gruppo etnico-linguistico
o dall'appartenenza geografica. L'ho già scritto molte volte, persino
in un racconto ("Il mostro rosso"): se
rifletto sulla mia identità, mi rendo conto che non potrei definirmi
seccamente italiano, o altoatesino, o trentino, o europeo, o americano,
o africano o quant'altro. Se uno parla l'italiano, non per questo deve
definirsi sempre e comunque italiano. Tanti aspetti del suo carattere o
del suo vivere quotidiano – l'osservanza delle leggi e delle regole, una
centra riservatezza di fondo - possono rimandare ad esempio alla sua "nordicità"
(c'è chi, nel resto dell'Italia, dice "tedeschità). E i suoi
consumi culturali - musica rock, autori stranieri, cinema, fumetti, internet,
vestiti e mode - possono ricondurlo all'America, all'Inghilterra,
o all'Africa. Infine, il senso estetico – che si forma negli anni dell'infanzia
e dell'adolescenza - sempre lo riporterà al dato dell'origine geografica:
anche in capo al mondo un bolzanino non può fare a meno di far paragoni
con lo Sciliar o la Val Venosta, così come, immagino, un veneziano
non possa riportare tutto che alla sua laguna.
Coloro che oggi
si ritrovano in questa condizione – quelli insomma la cui identità
è sfaccettata, multipla – io penso siano molti. Forse non c'è
individuo che non sia così, quantomeno nelle società complesse
(ma poi, non o sono tutte?). Quelli però che ne hanno piena coscienza
sono probabilmente in numero inferiore rispetto a chi si sente determinato
dall'etnia o dal territorio. Comunque, la loro estraneità rispetto
alla dimensione etnica non gli impedisce di aggregarsi sulla base di altri
fattori: la condivisione di certe abitudini, ad esempio (dopotutto i giovani
tendono ad aggregarsi spontaneamente tra loro in "bande" sulla base della
comune passione per un cantante o un locale o un videogioco, e gli adulti
sulla base di una comune inclinazione, dal volontariato al fare il tifo
per la medesima squadra di calcio). Detto in maniera un po' più
sofisticata potrei persino sostenere che costoro – gli individui senza
etnia - sono un prodotto dell'umanesimo europeo, della Rivoluzione francese,
dell'universalizzazione dei diritti. Cittadini del mondo anziché
che della loro valle o della loro lingua o dl loro gruppo etnico.
Già, cittadini del
mondo. Fino a qualche anno fa questa espressione suonava molto nobile e
progressista. Poi è arrivata la globalizzazione (che ovviamente
esisteva anche prima che qualcuno inventasse questa parola). E così,
a destra e a sinistra improvvisamente si è scoperto che l'altra
faccia del cittadino del mondo è quella del cittadino mondializzato,
omologato. Difendere l'identità è divenuto quindi un imperativo
buono non solo per la nuova destra e per i neoregionalismi di stampo populista,
ma anche per i contestatori che, da sinistra, demoliscono i Mc Donald's
(chissà poi perché i Mc Donald's sono un simbolo dell'omologazione
e i ristoranti cinesi o le pizzerie, che ritroviamo ovunque nel mondo,
no).
Personalmente
rimango dell'idea che ognuno deve rimanere fedele a ciò che è:
se io sono stato tirato su a pane, speck e fumetti della Marvel-Corno non
posso far finta di niente, e pronunciarmi improvvisamente contro
il mercato globale che annichilisce le identità locali. Tuttavia
mi corre l'obbligo di aggiungere che se fino a qualche tempo fa provavo
una forte diffidenza verso tutti i discorsi aventi a che fare con le cosiddette
etnie, o comunque con un'idea di identità fortemente legata al territorio,
oggi cerco di guardare a queste cose con maggiore tolleranza e distacco.
Per quel poco o quel tanto che mi sono mosso fuori dai confini del mio
luogo di nascita ho dovuto infine prendere atto del fatto che le identità
territoriali esistono (o, se preferite, resistono). Non è sempre
facile dire dove cominciano e dove finiscono, perché naturalmente
anche il valligiano più verace oggi ha la televisione in casa e
manda i suoi figli a scuola, e dunque lascia entrare in qualche modo il
resto del mondo a casa sua. Né so esattamente da che cosa queste
identità collettive territoriali siano determinate. Meno che mai
mi azzarderei a chiamarle indiscriminatamente etnie. Continuo anzi a rimanere
dell'opinione che quello di etnia sia un concetto molto pericoloso da maneggiare
(insomma, diciamolo. Dietro ogni strenuo sostenitore delle etnie non si
nasconde forse un razzista?). Io so solo che le identità territoriali
ci sono, che in futuro saranno sempre più determinanti. Che possono
anche produrre frutti positivi. E che per questa ragione bisogna studiare
le maniere per farle convivere pacificamente con gli assetti democratici
(che si fondano su principi generali e astratti), nonché con i nuovi
scenari sovranazionali (a partire da quello dato dall'Unione europea).
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