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editoriali

Al Gore, per un pugno di dollari...
A decidere chi va alla Casa Bianca sono soprattutto i soldi eppure negli Stati Uniti...
 

di ZENONE SOVILLA

    Una mia amica che sta a Manhattan dice che "è uno schifo, un'ipocrisia generale, molti si turano il naso e vanno a votare anche se in realtà vorrebbero cambiare il sistema ma non possono: che democrazia sarebbe questa qua?".
     La mia amica andrà a votare e sceglierà i democratici di Al Gore in questo testa a testa con i repubblicani di Bush: "Tutto piuttosto che quell'incapace, moralista e forcaiolo, lui suo padre e suo fratello...". In realtà, però, se avesse ascoltato la coscienza fino in fondo avrebbe votato Ralph Nader, il candidato dei Verdi: "Ah, lui sarebbe il candidato ideale per molti elettori: onesto e non venduto a qualche lobby economica... Ma butterei via il mio voto e alla fine favorirei Bush. Allora, mi turo il naso e voto Gore, almeno qualche proposito un po' più umano ce l'ha: la sanità, i poveri...".

   Queste poche battute della mia amica rendono l'idea di quanto lo scontro presidenziale americano sfiori i confini della farsa elettorale regolata innanzitutto dalle leggi del libero mercato. Lo stesso Nader ha così riassunto l'unica differenza fra Gore e Bush: "Il tempo che impiegano a inginocchiarsi quando il grande capitale bussa alla loro porta...".

   Per chiarire un po' il quadro si può dare un'occhiata al "business elettorale" dei candidati democratici e repubblicani (non solo quelli alla Casa Bianca), che si fanno largo tra la folla e i mass media a colpi di "attenzioni" promesse a questa o a quella lobby industriale. E' un sistema di scambio di favori, dunque, a determinare il quadro politico di un paese in cui sempre di più a comandare è il denaro. George Bush Jr. ha raccolto dai finanziatori privati oltre 187 milioni di dollari; Al Gore 133 milioni; Pat Buchanan 29; Nader 6. Ma nel complesso la giostra elettorale - che alla fine influenzerà un po' anche i destini di tutto il mondo - costa circa 4 mila miliardi di lire e in generale anche il criterio di scelta dei candidati per il congresso sembra essere ormai principalmente uno: la capacità di raccogliere lauti finanziamenti; l'intelligenza politica e tutto il resto sembrano spesso passare in secondo piano.
Nel volume "The buying of the president 2000" (Avon Book), Charles Lewis cerca di dimostrare che questo legame tra finanziatori e politici è tutt'altro che compatibile con una pratica democratica trasparente.

   Noam Chomsky, per esempio, a proposito di neoliberismo, dimostra che stati e governi - tanto vituperati dai fautori del liberissimo mercato - sono sostegni fondamentali per il sistema capitalistico al quale servono per la difesa degli interessi delle grandi imprese (sotto forma di sovvenzioni, fisco, legislazione eccetera) e sempre meno per tutelare i singoli cittadini, soprattutto i più deboli. 
I grandi centri economici, dunque, riescono in parte a indirizzare le scelte politiche americane e la cosa è tanto più significativa se si tiene conto che stiamo parlando del paese che, dopotutto, si può ancora considerare il "poliziotto del mondo" (per il ruolo degli Stati Uniti nella determinazione degli equilibri mondiali e nell'intreccio fra Economico, politico e militare si vedano le analisi dello stesso Chomsky). Ma stiamo anche parlando del paese che per molti aspetti - si pensi ad esempio al brulicare interetnico di New York o di San Francisco - è anche un'avanguardia culturale. Stiamo parlando del melting pot, forse del work in progress di una utopia multiculturale (certo, è ancora una fattoria orwelliana dove i grassi bianchi e religiosamente osservanti sono nella realtà quotidiana più uguali degli altri), di un un mito libertario che però si infrange da un lato contro il muro di gomma di un moralismo anche ipocrita e dall'altro contro il nirvana illusorio di un materialismo che induce a immolare relazioni umane, ricerca filosofica e senso di giustizia sull'altare del Dio denaro e della legge del più forte (lo stato Usa tiene in carcere due milioni di cittadini e ne uccide direttamente diverse decine all'anno, in un quadro di diffusa sottrazione di umanità). 
Se l'America di Thoreau, di Emerson, di Emma Goldman, della democrazia di base, oggi ci ricorda ancora l'America falsa e crudele che mise a morte Sacco e Vanzetti, se gli Stati Uniti in realtà sono ancora in mezzo al guado, allora mi sembra il caso di ribadire qui un paio di concetti.

   1) Ci sono ottime ragioni e fondate argomentazioni per contrastare senza temere l'accusa di veteroantiamericanismo (ricordate i falchi umanitari contro i pacifisti durante la guerra del Kosovo?) la tendenza tuttora invalsa a prendere gli Usa come modello economico e politico. Una tendenza che non è solo delle lobbies economiche o della destra europea: si pensi in Italia alla tragicommedia presidenzialista radicale o ai rapimenti filmico-ideali pidiessini. Si può dire, con Chomsky e molti altri, che negli Stati Uniti libertà e benessere materiale non sono patrimonio comune, anzi. La democrazia Usa, dunque, è gravemente malata oppure incompiuta o corrotta. E questa non è cosa da poco, anche se in Europa un certo relativismo buonista tende a sottovalutare tale naufragio politico. Così, spesso, le voci critiche più autentiche del sistema americano (non l'inutile isterismo veterodogmatico persistente in alcune correnti di opinione europee) vanno cercate proprio all'interno della società Usa.

   2) E' illusorio immaginare di scorgere anche solo lontanamente un orizzonte alternativo al pensiero unico neoliberista, antisolidaristico e autoritario (ma travestito da libertarismo), senza tener conto degli Stati Uniti e di ciò che si muove dietro il velo del benessere (non per tutti) e della (presunta) maggioranza consenziente. Ascoltando molti americani ho avuto la sensazione di una rassegnazione al sistema "corrotto" che in fondo è molto simile a quella di molti europei di fronte ai meccanismi "ingovernabili" del sistema globale, della macchina che sembra andare da sola quasi che l'essere umano avesse perso il controllo sulla sua creatura così imperfetta e spietata. Vivisezionare e smascherare il sistema, raccoglierne i fili a uno a uno, intervenire come si può in ogni sua piccola parte per orientarla verso la giustizia e la democrazia compiuta (cioè la libertà vera e solidale per un numero crescente di individui e di comunità) è quanto dovrebbe cercare di fare il movimento globale che si oppone alla macchina mortale neoliberista. Individuare strumenti e prassi, di là dalla semplice contestazione è arduo, oggi domina in gran parte lo smarrimento propositivo (anche se non mancano iniziative concrete, come la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie internazionali).
Quel che appare evidente è che si tratta di un percorso da fare tenendo conto del patrimonio di umanità che brulica anche negli Stati Uniti: un nodo fondamentale della rete globale, un dialogo irrinunciabile. 

   Allora, per tornare alla mia amica americana, se davvero negli Usa si diffonde una "rassegnata" condanna del sistema corrotto e corruttore, dovremmo cercare tutti di capire bene che cosa si sta muovendo dietro le maggioranze "bulgare" a favore della pena di morte o della libertà di cinturone e pistola da Far West (a proposito: la lobby delle armi è uno degli sponsor principali dei candidati alla Casa Bianca e pare simpatizzi per Bush). Un qualunque cambiamento dello stato delle cose nel quadro attuale di ingiustizia globale non può prescindere dagli Stati Uniti e dal loro arcipelago culturale, artistico e politico antagonista. Come diceva Gandhi, bisogna stare nel centro del conflitto...

   Nel frattempo, speriamo che gli elettori americani (cioè più o meno un quarto di loro...) votino "alla meno peggio" e donino al mondo Al Gore. Anche perché, pensate, se un buon padre di famiglia come Bush Jr. (bilancio di 145 esecuzioni capitali nei suoi cinque anni di governatorato in Texas) fosse eletto presidente in un paese tipo l'Austria, come dovrebbe reagire l'Unione europea?
 


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(7 novembre 2000)
 
 

 

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