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Nord-Sud, il mercato padrone
e l'arte di arrangiarsi...
L'omologazione dei modelli di crescita
e di povertà è l'unica strada? Forse no
In
questo articolo mi propongo di porre alcuni semplici interrogativi sulla
povertà. Inoltre sosterrò che esiste nelle società
industriali avanzate un residuo di nostalgia per quelle preindustriali
o “povere” (che si esprime anche attraverso certe forme di turismo).
Povertà sostenibile e benessere insostenibile In passato, prima che la sinistra scoprisse i diritti civili (che sono per loro natura interclassisti), essere di sinistra voleva dire in primo luogo stare dalla parte dei “poveri”. Dunque, si presume che un tempo le idee riguardo a che cosa sia la povertà fossero, almeno in linee generali, abbastanza chiare. Ma oggi è ancora così? Il relativismo proprio della stagione postmoderna, ma anche della cosiddetta “politically correctness”, unito alla nuova sensibilità ecologista, non hanno in qualche modo modificato le nostre idee riguardo alla povertà? Un contadino di un qualunque paese del Terzo mondo (ma anche delle enclaves povere del primo) con speranza media di vita di cinquant’anni, con accesso limitato a acqua, energia, assistenza sanitaria, può essere definito semplicemente povero? Il suo stile di vita non costituisce piuttosto un esempio di “sostenibilità”, sotto il profilo del suo rapporto con l’ambiente, ma anche con riferimento alla conservazione di alcuni tratti della sua cultura (materiale e non materiale)? Insomma, che cos’è la povertà? Un dato oggettivo, misurabile con i parametri degli organismi internazionali, un problema sociale, a cui porre rimedio con strategie di welfare, o una condizione di vita naturale per molta parte dell’umanità? Mettiamola così: il problema sono i poveri o non piuttosto la pretesa della scienza di farci vivere tutti fino a cento anni, la pretesa del mercato di darci diete alimentari estremamente variate e intrattenimento culturale sofisticato a ogni ora del giorno e della notte, la pretesa dei guru del liberismo di dare a tutti accesso illimitato ad ogni tipo di bene, consumo, risorsa? Gli studiosi
hanno elaborato numerosi indicatori scientifici per misurare l’impatto
sull’ecosistema dello stile di vita del singolo individuo; uno di questi
è ad esempio l’impronta ecologica, che in sostanza traduce tale
impatto (in termini complessivi, considerando cioè consumi, scorie
ecc.) in quantità di terreno utilizzato. Mediante questo indicatore
si scopre che l’impronta ecologica dell’abitante di una città anche
di piccole dimensioni come Trento è assai maggiore rispetto a quella
di un abitante della periferia, e che in sostanza il cittadino usa per
mantenere il suo stile di vita anche una quota di terreno che dovrebbe
spettare al montanaro.
I viaggiatori e la nostalgia della povertà L’articolo di
Martina Fardin sul suo viaggio in Egitto (“Egitto,
ricchi e poveri”, uscito il 15/5) sottintendeva, credo, questi
ed altri interrogativi, ben familiari a tutti coloro che amano viaggiare
tenendo gli occhi aperti, pur nella consapevolezza che le impressioni di
viaggio sono sempre fugaci, parziali, opinabili. Lascio volentieri a Duccio
Canestrini o a qualche altro esperto degli splendori e delle miserie dell’homo
turisticus l’onere di dire qualcosa di intelligente su un’esperienza che,
comunque sia, resta per la maggior parte di noi un momento fondamentale
di incontro con l’altro.
Se cresci in
un villaggio senza tv e turisti che vengono ad immortalare la tua arretratezza
con le loro Nikon, forse riuscirai persino ad essere felice, per quanti
limiti quel genere di vita t’imponga. E questa è una consapevolezza
a volte riaffiora anche da noi, sotto forma di nostalgia per qualcosa che
si è perduto per sempre: gli anziani dicono spesso che una volta
“si era più felici”, anche se poveri. Di solito pensiamo che, dicendo
così i vecchi stiano semplicemente rimpiangendo la propria giovinezza,
ma invece io credo che stiano dando voce ad un dato antropologico reale:
la felicità, per noi animali - tale è l’essere umano – ha
a che fare soprattutto con l’assenza di complessità. E le società
povere sono anche società meno complesse, dove per complessità
intendo qui l’attitudine a “variare” (le società complesse sono
società in cui tutto varia in tempi brevi, richiedendo continui
sforzi di adattamento agli individui).
Povertà e sviluppo: suggestioni di viaggio fra Zanzibar, Djerba, il Brasile Ma quando la seduzione di un bene, un prodotto, una comodità, una forma di divertimento, insomma di uno stile di vita più ricco hanno contagiato una società povera, quest’ultima difficilmente potrà farne a meno. L’eventuale impossibilità a raggiungere o a mantenere quello stile di vita sarà invece fonte di un’infelicità assai maggiore rispetto all’uggia, allo spleen, all’inquietudine, alla depressione e alle infinite altre patologie che pure dominano sovrane nelle società più sviluppate. I sociologi la chiamano “rivoluzione delle aspettative crescenti”. Per me questa è la soglia sulla quale si arrestano le nostre belle utopie sullo sviluppo “diverso”. Una sera nel 1993, nella costa est di Zanzibar (non c’erano villaggi turistici e i turisti dormiva in capanne molto spartane), mi aggiravo per un villaggio di pescatori cercando qualcosa da mangiare. Un uomo mi invitò ad entrare nella sua capanna, per spartirci la sua cena. Dentro era buio pesto (niente elettricità), e gli unici mobili sembravano essere delle sedie rudimentali, ma l’uomo aveva un fare principesco, non mi sembrava per niente imbarazzato dalla sua evidentissima povertà materiale. Per prima cosa fece uscire le donne, moglie e figlia, poiché a capanna si componeva di un unico vano, e la sua religione non gli consentiva di far mangiare le donne assieme all’ospite (come ho detto, nelle società povere, generalmente assai più bigotte delle società sviluppate, le libertà personali sono tenute in assai scarsa considerazione). Poi mi passò una ciotola con dentro qualcosa che, portata alla bocca con le mani, si rivelò essere della cassava terrosa. Naturalmente il viaggiatore occidentale aveva letto sulle guide che in Africa ci sono un’infinità di parassiti, che il modo migliore per beccarseli è mangiare in luoghi poco puliti ecc. Ma, colpito da quella manifestazione di generosità assolutamente disinteressata (nessuna richiesta di denaro, nessuna richiesta di aiuto per emigrare in Italia) non ci fece caso, e si godette una delle cene più strane della sua vita, in compagnia di un uomo molto povero, che ad onta di ciò sembrava essere discretamente soddisfatto della sua vita. Il “sembrava” è d’obbligo, perché per lo stressato e alienato figlio dell’occidente produttivista è facile confondere l’inedia con la felicità, è facile, maledettamente facile confondere la mancanza di possibilità e di prospettive con l’olimpica saggezza. Cambiamo scenario, eccoci
in un’altra isola, Djerba, in Tunisia. Lì il tassista che mi portava
in giro mi raccontò tra uno sbadiglio e l’altro la sua giornata
tipo. L’uomo si alzava in piena notte ed iniziava a raccogliere i turisti
che uscivano dal casinò o dalle discoteche, per riportarli nei villaggi
turistici. Il mattino, poi, si piazzava con il suo taxi davanti all’uscita
dei villaggi, ad attendere qualcuno che volesse fare il giro dell’isola.
Il giro finiva di solito intorno alle 12.30. Dopodiché l’uomo andava
a casa e si riposava un po’, quindi si alzava e andava a lavorare in un
posto di telefonia pubblica fino a tarda sera. Rientrava, mangiava qualcosa,
dormiva, e alle 3 di notte era di nuovo in pista.
Sotto il profilo strettamente economico, comunque, l’atteggiamento dell’uomo era corretto. La ricchezza comporta in genere maggiore lavoro (l’antropologo Marshall Sahlins ha dimostrato che nelle società più arcaiche che si conoscano, quelle di cacciatori-raccoglitori, il tempo impiegato per le attività classificabili come produttive è inferiore a quello richiesto dalle società agricole). Naturalmente a maggiore benessere corrispondeva maggiore stress, ma l’uomo non credo sarebbe stato disposto a “tornare indietro”, ovvero allo stile di vita tipico dei tunisini del sud che si incontrano sulla strada verso il deserto, ad esempio a Tataouine, che trascorrono il tempo giocando a dama. Aggiungerò che, comunque, in questa fase l’uomo si trovava un po’ “a cavallo fra due mondi”; anche se con un piede nel mondo sviluppato, manteneva alcune delle abitudini o dei comportamenti tipici delle società preindustriali: il tenere la moglie a casa anziché consentirle di lavorare fuori, mantenere i figli di un fratello che lavorava all’estero e, a quanto ho capito, rientrava in patria a trovarli raramente ecc. Terzo scenario, un paese industrializzato, ma con larghissime fasce di povertà, il Brasile. In Brasile si possono vedere esempi diversi di povertà. C’è innanzitutto la tipica povertà contadina, non molto dissimile da quella africana. Ho visto questa povertà nell’entroterra di Espirito Santo, soprattutto in una frazione chiamata Tirol; che sorpresa, vedere discendenti di emigranti tirolesi vivere in case quasi uguali dalla tipica capanna africana, con l’intelaiatura in legno e i blocchi di fango! La donna, che parlava con spiccato accento tirolese, ci raccontò che da giovane non conosceva quasi la lingua portoghese, il che dà un po’ la misura dell’isolamento in cui vivevano queste piccole comunità montane. Oggi però lo sviluppo sta lentamente arrivando anche lì, sottoforma di strade sterrate e anche qualcuna asfaltata, scuole dove fare studiare i bambini, i primi timidi tentativi di avvio di un’industria turistica. Sviluppo compatibile? Più che altro sviluppo necessario, considerato che secoli di agricoltura dissennata e di improvvide attività per l’export (piantagioni di eucalipto nei pressi dei bacini idrici, e l’eucalipto è una pianta che sfinisce i terreni e apre la strada all’erosione) hanno arrecato ferite profondissime all’ecosistema. Nelle
città si può vedere però anche un tipo diverso di
povertà, la povertà a noi più familiare, quella che
convive con lo sviluppo e che talvolta ne è motore. Parlo della
povertà legata all’uso di droghe, alla prostituzione e quant’altro.
Spesso i bambini di strada sono le prime vittime di questa povertà;
sniffano la colla e poi ciondolano attorno a tavoli dei turisti sul lungomare
di Bahia, soli o a piccoli gruppi, senza futuro e senza speranza, con camicie
lacere che gli pendono dal corpo.
Self reliance, fra utopia e realtà Da tempo si discute se i paesi poveri, anziché ostinarsi a percorrere, su scala mondiale, le stesse tappe dei paesi più sviluppati, non farebbero meglio piuttosto a cercare vie autonome allo sviluppo, vie che passano per il soddisfacimento dei bisogni di base, o per una rivalutazione di certi tratti tipici delle culture tradizionali (l’ospitalità, il dono ecc.). Vie comunque ecosostenibili e ecocompatibili. Questo approccio ai temi dello sviluppo andava qualche tempo fa sotto il nome di self reliance, o anche “autosviluppo”, ed è stato, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, uno dei cavalli di battaglia di tanti governi nati sulle ceneri del colonialismo (ad esempio quello della Tanzania di Julius Nyerere). . Ma in
realtà nei paesi poveri le persone, soprattutto se giovani (e soprattutto
se di sesso maschile) sembrano interessati piuttosto alle stesse cose a
cui sono interessati i cittadini del primo mondo: stesso stile di vita,
stessi consumi ecc.
D’altro canto, proprio l’impossibilità di bruciare le tappe (non diciamo qui dello sfruttamento vero e proprio realizzato su scala internazionale, non essendo questo l’oggetto del presente articolo) rendono necessaria, nei contesti di povertà e di sottosviluppo, l’adozione di strategie che di fatto all’autosviluppo assomigliano molto, ma che io preferirei chiamare più semplicemente strategie per “tirare avanti”. Ad esempio, a Dar es Salaam, la capitale della Tanzania, ma presumo anche in molte altre città africane o asiatiche, fuori dal perimetro dei ministeri e degli alberghi, si estendono quartieri interminabili di casette (per meglio dire capanne di terra cruda) senza alcun servizio, ma con un fazzoletto di terra sul retro dove coltivare qualcosa. Così, se la metropoli diffonde attorno le sirene dello sviluppo (all’occidentale), nelle periferie sopravvive un’economia informale che ricorda molto quella tradizionale, e che a conti fatti rappresenta la principale fonte di sostentamento della maggioranza dei suoi abitanti. Non si pensi
a qualche forma idealizzata di comunitarismo (o di comunismo). C’è
mutuo scambio, certo, e probabilmente mutua assistenza, ma anche un proliferare
di attività commerciali in fin dei conti “di mercato” (per quanto
si faccia fatica a vedere il capitalismo dietro una bancarella che vende
quattro arance e due uova sode). In ogni modo, è anche così
che si sopravvive ai margini del mercato. Inventandosi lavori, modi di
curare le malattie, modi di passare il tempo (nel Terzo mondo ci si diverte,
magari la luce va e viene, ma ad ogni angolo di strada c’è un registratore
con della musica). Insomma, non si rinuncia coscientemente all’ideologia
“sviluppista”, tutti desiderano le cose di cui ritengono vi sia abbondanza
nei paesi ricchi, soprattutto ora che le ideologie sono cadute e non c’è
più nemmeno il marxismo come consolazione, e tutti desiderano emigrare
in Europa o in America.
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