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Egitto, la miseria oltre lo splendore
Una potente macchina turistica accanto a sacche di povertà da sottosviluppo
 

di MARTITA FARDIN

   Un viaggiatore che sbarca in Egitto, dopo essersi documentato sulla terra da visitare, descritta in buone o medie guide turistiche come un paese estremamente moderno, progressista, e non sia andato oltre quest’aspetto di facciata, troverà, se è curioso di umanità varia, un’altra realtà. 
 

     Accanto agli splendori architettonici del luogo, ai fasti di un’antichissima civiltà sepolta, alla fierezza degli antichi egiziani, viva solo nelle piramidi, accanto alla modernizzazione imperante del Cairo, con i suoi quartieri di lusso, con i suoi locali alla moda, le sue accademie di cultura, le università, con gente che viaggia in limousine con lo sfarzo tipico dei miliardari arabi, troverà il vero Egitto. 
    Quello che ospita nella sua ricca culla – petrolio e risorse economiche non mancano – sacche di povertà da sottosviluppo, eclatanti squilibri di distribuzione della ricchezza. Per capire meglio questo contrasto, partiamo da una località turistica sul mar rosso, Sharm El Sheikh, zona Sinai, un piccolo paradiso artificiale costruito per gli occidentali. Catene sterminate di hotel tutti a cinque stelle, viali bianchi ordinati e super puliti, palmeti, bar, discoteche, ristoranti, finte medine, un gran carrozzone un po’ kicht, che la notte si riempie di luci sfavillanti. Di egiziano c’è soltanto il personale che lavora lì: camerieri, facchini, ristoratori, barman, tutti uomini.
 

    Le uniche donne sono cinesi perché la cucina cinese fa fare affari anche in Egitto. Mohamed lavora al grand Hotel Hilton resort dream, pulisce le stanze, dalla mattina al tramonto del sole. È gentile e schivo. Un giorno lo avviciniamo e gli chiediamo, visto che sgobba di brutto, quanto guadagna. Si schermisce, poi risponde: sulle 300.000, 400.000 lire l’anno. Poco più di trenta, quaranta mila lire il mese. Come fa a vivere? Dice che ha vitto e alloggio pagato, poi si arrangia con le mance. La sua famiglia – racconta – sta al Cairo, la moglie lavora, fa la custode alle Piramidi.  È sempre allegro e tranquillo Mohamed: “Sono un fortunato – spiega -. Ho un lavoro. Riesco a campare, a pagarmi una casa decente. La mia famiglia era poverissima. Io so cosa vuol dire la miseria”. Cosa vuol dire? Mohamed, abbassa lo sguardo ed abbozza un sorriso: “ Basta spostarsi verso l’ultima dependance di questo albergo, dove la rete metallica traccia un confine con il deserto per rendersene conto. È un assaggio ridotto di ciò che si trova al Cairo o a Luxor”.  E così andiamo in prossimità della rete metallica. Fuori dal parco delle meraviglie dell’Hilton, a pochi metri dalla recinzione, la scena cambia. Sabbia rovente, cumuli di immondizia e baracche. Per intenderci: quattro blocchi di cemento, un buco per porta, un buco per finestra, del cartone come protezione dalla calura, fuori dei fili per stendere la biancheria e alcune cassette di frutta rovesciate per sedie. Sembra davvero pazzesco questo contrasto di tuguri fatiscenti che crescono in mezzo a prestigiosi alberghi. Pare impossibile che siano abitate. E invece lo sono. Quando è giorno e il sole brucia la vita, non si vede anima viva. Poco distante le ruspe sono in azione forsennatamente, forse un nuovo complesso sorgerà. Fanno attenzione a non abbattere quelle misere case. Scavano con circospezione. Cala il sole, è penombra attorno. Aspettiamo, fuori da una baracca esce un uomo di mezza età. Ci ignora e si piega e prega rivolto verso alla Mecca, indifferente da quello che lo circonda. È di un altro mondo.
 
 

    È notte. Voci concitate giungono da baraccopoli. Alcuni ragazzi hanno preso posto fuori, sulla veranda di cassette di frutta sulle quali si sono accomodati con tutta naturalezza, conversano come se niente fosse. Non parlano inglese, spiaccicano qualche parola e basta. Non ci si riesce a capire.
Hesham lavora alla reception dell’Hilton da quattro anni. Oggi è contento perché la sua famiglia lo raggiungerà, moglie e tre figli. Hesham è acculturato, parla tre lingue: l’arabo, l’inglese e l’italiano. In un momento di pausa mostra la divina commedia in italiano. Dice che la sta studiando e che è difficile. Non si lamenta. Il suo lavoro è meglio retribuito di quello dei manovali, dei camerieri, degli inservienti, circa il quadruplo. Ciò gli permette un tenore di vita agiato. La moglie lavora, impiegata in un museo del Cairo. I suoi figli possono studiare, parlano benissimo inglese e arabo. Vuole che vadano all’Università del Cairo. Lui, no, all’Università non c’è andato. La sua famiglia era numerosa e povera. Si vanta di essersi fatto da solo. E la miseria? “La miseria? Acqua passata. Ci si abitua e poi non fa più effetto. Noi eravamo poveri, ma non pezzenti da tugurio. Quelli sono più che altro beduini, persone incapaci di modernizzarsi, che guardano al passato e aspettano la manna dal cielo e i loro figli, per colpa della loro mentalità, cresceranno senza possibilità di riscatto, pieni di pregiudizi e di fanatismo religioso”. Drastico e duro.
 
 

   E la povertà urbana? Anche quelli beduini?
   “No – risponde secco – drogati, disoccupati, scansafatiche, ladri, prostitute, delinquenti, mendicanti”.
In poche parole feccia. I figli della fame e della miseria, probabilmente, se gli è scordati. Neppure i suoi figli sanno cosa vuol dire fame. Educati tendono timidamente la mano quando vedono che hai un pcchetto di caramelle o di gomma da masticare, niente a che vedere con l’assalto famelico dei bimbi straccioni di Luxor. Quando gli offri una gomma e gli dici “No sugar”, intendendo che lo zucchero rovina i denti, ti ringraziano così: “Thank you very much. Good, no sugar for the diet” (grazie mille, bene niente zucchero per la linea), ad intendere che ormai il valore della magrezza è universale, tra le classi benestanti, trapassa mode culture, latitudini, spazi fisici e geografici, figlia della mondializzazione e della globalizzazione.
 
 
 

    Spostiamoci nella vecchia Sharm el Sheikh, dato che nella parte nuova è tutto artificiale e sterilizzato per i turisti, odori, profumi cibi e bevande sono occidentalizzati. Se in un bar chiedi una bibita locale ti propongono la coca-cola con le scritte in arabo, forse perché fa folklore. Al massimo se sei fortunato riesci a recuperare un the alla menta, o un the del deserto, ma assomigliano ormai troppo a quelli che si trovano confezionati nei nostri supermercati. La parte vecchia ti dà in piccolo la dimensione di cosa sia l’Egitto, quello povero attaccato alle tradizioni di un tempo. Il paese vecchio ha poche case, non tanti abitanti. Qui il tempo sembra essersi fermato all’età del dopoguerra. Oltre ad una piccola medina dove vendono prodotti di artigianato locale e ad una macelleria, non c’è niente. La sera chi possiede un televisore lo mette fuori in strada e lì la gente si raduna a guardare la tv. Così mentre un prestigioso giornale egiziano intitolato Egypt today strilla in copertina Egyptian schools go on line (le scuole egiziane sono in rete), queste persone se ne stanno unite a spartire il momento della programmazione serale con un solo apparecchio disponibile.
 

   Proviamo a chiedere ad una ragazza giovane se sa cosa sia la rivoluzione informatica: “Non lo so- riponde – so solo che esistono i computer e che chi ha i soldi può permettersi di collegarsi e parlare con altre perSone all’altro capo del mondo. È fantastico, ma è un sogno. La televisione ne parla, di Internet e altro, siti, posta elettronica. Ma sono parole incomprensibili. Mio nonno dice che l’informatica è figlia di Satana. Che gli occidentali vogliono colonizzarci”.
“Tu vai a scuola?”
“Sì, ci vado, per imparare qualcosa”. 
Sei contenta di stare in paese? 
“No, prima o poi terminata la scuola dell’obbligo me ne andrò via, al Cairo, in cerca di fortuna. Qui si muore di giorno in giorno tagliati fuori dal mondo, ignorati da tutti”. Secondo te chi è la causa di tutto questo? Il governo, l’economia, la corruzione? 
“Non so rispondere, voglio solo lavorare sodo e potermene andare”.
 

(15 MAGGIO 2000)





o Questo breve diario di viaggio tenta di dare un'idea della povertà nello splendore egiziano. 
Una lettura della miseria urbana e rurale dell’Egitto e del mondo in via di sviluppo è stata compiuta
da Blaise Salmon (Canada) 
in una lettera aperta al giornale Egypt Today. Riportiamo qui sotto le considerazioni dell’autore. 
"Per sviluppare le mie personali considerazioni sulla povertà in Egitto, nelle aree urbane e rurali, sono partito da un articolo della giornalista Lisa Magloff che ha svolto un servizio accurato sul tema, in un precedente numero di questa rivista. Sono d’accordo con lei. Dal punto di vista ideale, il commercio ha le potenzialità per generare posti di lavoro, reddito e sviluppo. Ma il modo con cui il commercio può effettivamente ridurre la povertà dipende in larga parte dalle modalità con cui sono regolati i settori in cui la più povera gente lavora. Secondo un accordo con le Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo perdono circa 700 miliardi di dollari l’anno come diretta conseguenza delle misure protezionistiche che penalizzano gli esportatori del terzo mondo. Il dato sorprendente è che tale cifra è 14 volte più alta del totale flusso di aiuti economici che le nazioni ricche stanziano per i paesi in via di sviluppo ogni anno. Le nazioni ricche hanno stabilito tariffe doganali sulle importazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo il 30% più alte della media globale. Nel 1960, miliardi di indigenti del mondo guadagnavano il 2,3% del reddito mondiale. Oggi, invece, nonostante ci sia stato un incremento del commercio globale, essi guadagnano l, 1%. Tanto per consentire ai poveri di riscattarsi da un destino di miseria, lavorando. Una competizione alla pari sarebbe almeno il minimo per consentire anche ai poveri del mondo di godere dei benefici dell’economia globale. La sfida ai Ministri dell’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle ha voluto dimostrare al mondo che la politica economica dovrà prender in futuro un nuovo corso in direzione di un commercio più equo e solidale, in cui anche i poveri possano godere di concreti benefici ed iniziare a riscattarsi da un futuro di povertà".
 
 
 

 

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