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Figli
del ghetto: una lettera aperta su rom, sinti e società italiana
Non basta criticare la situazione nei
campi: va denunciata la mancanza di un'alternativa
E'
del tutto pretestuoso, scrive l'antropologo Leonardo Piasere, che una società
(o i suoi membri illuminati) riconosca di aver maltrattato o di continuare
a maltrattare un gruppo minoritario e pretenda poi di sapere come "aiutarlo"
prevedendo unicamente interventi sul gruppo e non su di essa".
Le discriminazione
nei confronti dei Rom e dei Sinti sono molteplici e vanno al di là
dei "normali" atti di teppismo e di vandalismo di matrice razzista.
I campi nomadi sono forse il risultato più eclatante di una politica che cela, dietro i proclami a difesa della differenza culturale, presenti in tutte le leggi regionali in materia, un atteggiamento razzista di fondo. Ancora recentemente il rapporto della Commissione sull’integrazione degli immigrati della presidenza del consiglio, presentato il 13 dicembre scorso, pur accogliendo aspetti importanti del Rapporto dell’ERRC e rappresentando la prima critica al concetto di "campo" da parte delle istituzioni, cade nell’ambiguo parlando "dell’esistenza di pochi campi strutturati e a norma di legge e […] campi selvaggi e malserviti". Come se i campi "buoni" fossero una soluzione accettabile. Ma bisogna guardare anche altrove, nella schiera dei volontari e dei buoni per mestiere. L’assistenza e il valore (anche economico) della carità varia di città in città, ma il risultato è molto spesso il rafforzamento della segregazione e della dipendenza dei Rom da chi dice di volerli aiutare e che, in ultimo, trova la sua stessa ragion d'essere nella presunta incapacità cronica, quasi strutturale, di questo popolo di saper badare ai propri bisogni e diritti. Qualsiasi programma di intervento a favore dei Rom e dei Sinti contro la discriminazione non può che partire da una messa in discussione della società e dei pregiudizi che essa genera. Il punto non è tanto criticare ciò che oggi viene fatto nei campi, quanto ciò che non viene fatto per fare uscire i Rom dai campi. Tutti i campi, come oggi li conosciamo, nascono da un mancato riconoscimento dei diritti: una volta ammassata malamente la gente, va poi trovato un modo per gestire i problemi che ne conseguono, va istituzionalizzato il campo. Così però non si risolve niente. Sostenere e legittimare la costruzione di campi con l'emergenza o con la difesa dell'identità culturale è non solo pretestuoso, ma non più ammissibile né da parte del governo né delle associazioni. Mantenendo in vita questi ghetti, il governo - oltre ad andare contro la costituzione, contro gli accordi internazionali e contro ogni senso di etica - finisce col fornire capri espiatori (o alibi) ai razzisti; dal canto loro le associazioni che si prestano a questo gioco, non assumendo nei fatti l'obbiettivo del superamento dei campi e limitandosi ad operarvi all'interno, finiscono per contribuire, anche al di là della loro volontà, al mantenimento dello status quo. Piero Brunello
Piero Colacicchi Nando Sigona
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Zingari Italia,
il paese dei campi (e dell'apartheid)
Il
dibattito:
Incontri
ravvicinati
I
genitori, i figli
(26 febbraio 2001) Le
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