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Macedonia, prove teniche di militarizzazione
La rivolta albanese, il disimpegno
occidentale, l'arrancare della democrazia e della pace
di LUKA ZANONI
I
n un precedente articolo (Nonluoghi 12 marzo 2001) riguardante
la situazione ad alta tensione al confine tra Serbia e Macedonia, è
stata messa in evidenza la reale possibilità che ad occuparsi militarmente
della crisi possano essere gli eserciti dei paesi balcanici. Ci sia consentito
rafforzare questa opinione, peraltro non peregrina, con alcune citazioni
tratte da un articolo pubblicato in questi giorni da Le monde diplomatique
(allegato a il manifesto del 15 marzo 2001) che titola appunto: L'Occidente
arruola il resto del mondo. L'autore, Mariano Aguirre, direttore del Centro
de Investigaciones para la paz di Madrid e ricercatore al Trasnational Institute
di Amsterdam, chiarisce come alcuni paesi occidentali come gli Stati uniti,
la Francia e la Gran Bretagna addestrino e formino gli eserciti di paesi
africani e latinoamericani. L'intento è quello di rafforzare gli apparati
statali e aiutare le forze armate locali nella lotta alla criminalità
e al narcotraffico. Il rischio che viene denunciato è, invece, quello
di rafforzare i poteri militari e di indebolire i governi civili. E poco più oltre, l'autore, citando The new american way of war di Michael Ignatieff, prosegue la sua analisi affermando che dopo il Vietnam e il Kosovo, risulta sempre più evidente che "gli Stati uniti parteciperanno a questi interventi umanitari di tutela dei diritti umani solo se il rischio per i loro soldati sarà minimo. Quanto alla futura strategia americana, rimane da sapere se si accetterà che i cittadini nord-americani partecipino ad operazioni di terra. In questa nuova concezione della guerra americana, le forze aeree hanno un ruolo preponderante, in quanto esperte di interventi di precisione da grandi altitudini; la marina si assume il ruolo di piattaforma di lancio per missili e aerei; la fanteria da sbarco può servire per assicurare una testa di ponte per l'evacuazione di cittadini americani in pericolo". Il risultato è una guerra tecnologica condotta a distanza e una delega dell'uso della forza a battaglioni locali sotto controllo (Ibid. p. 6). Si intonano a queste affermazioni le parole di Svetozlav Terziev che con esplicito riferimento alla pericolosa situazione di questi giorni, nel nord della Macedonia, scrive: "Gli americani sanno come salvarsi da un tale vicolo cieco. All'inizio degli anni '70 si sono tirati fuori dalla guerra del Vietnam esattamente attraverso la politica della vietnamizzazione - hanno lasciato i vietnamiti (del nord e del sud) a uccidersi reciprocamente" ( La NATO ha trovato un'uscita dalla crisi: la balcanizzazione, Notizie Est # 412). L'ipotesi di un disimpegno di forze occidentali sembra quindi più che probabile e sembra trovare ulteriori conferme nell'affermazione del Dipartimento di stato americano riguardante l'inesistenza di un piano di spostamento verso la Macedonia di truppe NATO stanziate in Bosnia e Kosovo (Beta, 17-3-2001), e in altri segnali dati in questi giorni dalle forze occidentali. Ovvero la dimostrata riluttanza occidentale verso la creazione di una nuova fascia di sicurezza ai confini macedoni, nella quale verrebbero dislocate le truppe della NATO; il ritiro di 750 soldati statunitensi di stanza in Bosnia approvato il 15 marzo scorso (Ansa, 15-3-2001) e l’evacuazione di 600 dei 1200 soldati tedeschi della KFOR di stanza a Tetovo (Beta, 17-3-2001), dopo che è stata colpita la caserma dove erano alloggiati. Vogliamo concludere con un’altra citazione di Aguirre, il quale spiega che la politica statunitense rivolta ai paesi in crisi e dalla grande importanza regionale, "è in effetti basata sull'esigenza di ottenere petrolio a basso costo, aprire i loro mercati e favorire l'adozione di misure anti-corruzione. In cambio, viene promessa loro, insieme alla Banca mondiale, una maggiore stabilità politica e un incremento delle attrezzature militari. Una politica che si dimostra tuttavia assai poco efficace nel ridurre la povertà e nel consolidare la democrazia. A causa del modello economico veicolato, assistiamo ad un inasprimento dell'uso della violenza ed alla scomparsa della società civile e dei processi di democratizzazione" (Le monde diplomatique, 15 marzo 2001). Sappiamo
bene che difficoltà e ostacoli incontra ancora la fragile società
civile negli odierni Balcani, purtroppo però assistiamo spesso ad
una scelta strategico-politica tutta intenta a fornire un appoggio tecnico
militare a discapito di una soluzione democratica e pacifica dei conflitti
regionali. È quasi primavera e come spesso accade l’arrivo della
mite stagione coincide con l'inizio delle manovre militari. Nella fattispecie
si tratta di quell’area ad alta tensione che collega geograficamente
la Serbia, la Macedonia e il Kosovo. In un precedente articolo si era fatto
cenno a quest’area (Kosovo in primis) come ad una sorta di barometro
balcanico. Così sembra proprio essere. Ultimamente la pressione,
già da tempo piuttosto alta, ha subito un'impennata e non annuncia
sicuramente bel tempo. Le ragioni dell'aumento della tensione nell'area vanno
ricondotte alla presentazione della soluzione serba alla crisi della valle
di Presevo e alla reazione armata dell’UCPMB (l'Esercito di liberazione
di Presevo, Medvedja e Bujanovac) che ha provocato la morte di alcuni militari,
sia macedoni che serbi.
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