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interviste
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MOBBING, quando la competizione
sul lavoro diventa persecuzione...
Alessandro Gilioli analizza un fenomeno
non a caso legato alla globalizzazione neoliberista
Inviti e minacce, sorrisini e silenzi, rimproveri e blandizie, controlli continui. Il caporale che ti soffia sul collo. Il computer che ti si rompe e non viene sostituito. Il lavoro che ti viene sottratto. La riunione da cui vieni escluso. E allora cominci a chiederti: ma perché? Perché il caporale del caporale, l’altro giorno, mi ha detto che sto lavorando male? E poi, dopo una settimana, che se non lavoro di più finiranno per controllare il mio telefono? E che, forse, insomma, non sarebbe male, anzi preferibile se me ne andassi. E perché, quando entro in quella stanza, gli altri colleghi smettono di parlare? Ancora, se ci penso bene, quella lettera in cui proponevo una soluzione, perché non ha avuto neanche una risposta? I meccanismi sono inequivocabili: ti stanno sottilmente emarginando dal lavoro, depotenziando, demotivando. E la strategia di destabilizzazione produce i suoi effetti: cominci a interrogarti su te stesso, sulla tua capacità di lavorare bene, magari ti colpevolizzi, vorresti reagire ma il malumore, lo sconforto, infine lo stress cominciano a fiaccarti. Somatizzi, diventi il pessimo che ti dipingono. Non dormi più, insorgono disturbi, anche gravi. Fino a che non corri dallo…. Ma, un momento, sei proprio sicuro di non essere vittima – anche tu – del “mobbing”? E’ una forma sempre più frequente e diffusa “di angheria di persecuzione, di molestia morale attuata sul posto del lavoro”, spiega Alessandro Gilioli, “o da superiori nei confronti di sottoposti o da colleghi pari grado per isolare, emarginare un individuo. La definisco strategia subdola, perché non è un’aggressione aperta. Attraverso una serie di atti, che uno per uno possono sembrare casuali, tutti insieme servono a conseguire il risultato”. A questo fenomeno, che nell’era postindustriale ammorba i rapporti di lavoro più delle tradizionali persecuzioni antisindacali, a questa violenza che divide gli uomini, come tutte le sopraffazioni, in vittime spesso noiose e aguzzini dal guanto di velluto, Alessandro Gilioli ha dedicato un libro “Cattivi capi, cattivi colleghi” (Mondadori). Ma la peculiarità del giornalista, già direttore di alcune testate, oggi direttore editoriale di una grande casa editrice, è di aver fuso nell’opera la prima serie indagine sul fenomeno – dati, cifre, diffusione, proposte di legge – con la ricerca sanitaria e scientifica di un neuropsichiatra, Renato Gilioli, l’altro autore del libro. Fondatore e direttore del Centro per il disadattamento lavorativo della Clinica del lavoro di Milano, Renato, zio di Alessandro, forte ormai di una ventennale esperienza nel campo della socialità in ambito aziendale, visita e cura centinaia di pazienti che ormai ogni giorno si rivolgono al centro perché affetti da “mobbing”. I casi più emblematici, raccontati nel loro insorgere e nelle conseguenti degenerazioni patologiche, costituiscono la seconda parte del libro. Noi abbiamo intervistato Alessandro Gilioli. D. Abbiamo capito cos’è il mobbing. Ma qual è il fine ultimo? R. Costringere una persona a dare le dimissioni, ad andarsene o, in alcuni casi più semplici, diventa il meccanismo attraverso il quale le tensioni sul lavoro si scaricano su un capro espiatorio. D. Piccoli screzi, scaramucce, dissidi, sono all’ordine del giorno nell’ambiente di lavoro, soprattutto per gelosie, rivalità, competizione… Chi è senza mobbing scagli la prima pietra R. Certo, esiste una zona grigia, la conflittualità quotidiana. Ma se gli episodi, specie se sottili, di aggressione, di emarginazione, si inanellano l’uno dopo l’altro, si ripetono e sono continuativi nel giro di qualche mese, si può star certi che siamo precipitati nel mobbing. D. Il termine “mobbing” viene dall’etologia, indica l’accerchiamento e l’aggressione che un branco attua nei confronti di un animale. Credo nella differenza tra l’istinto dell’animale e la cultura, la socialità dell’uomo. Insomma, il mobbing aziendale è pensato… R. Intanto diciamo che i conflitti sul lavoro ci sono sempre stati. Ma cos’è che li rende patologici? Una situazione altrettanto patologica. Non è un caso che il mobbing sia esploso in Italia mentre sono in atto nelle aziende grossi fenomeni di fusione, ristrutturazione, nuovo dimensionamento, indotti dalla cosiddetta globalizzazione. Insomma, un capitalismo sempre più selvaggio porta a un competizione ancora più selvaggia, rompendo i vecchi schemi dell’età industriale. D. Qualche esempio? R. Pensi ai casi in cui avviene una fusione tra due società, o in cui si devono operare delle ristrutturazioni, o c’è un cambio di guardia alla dirigenza. L’azienda tende a eliminare i doppioni, le risorse superflue. Cosa fa con i dipendenti scomodi? O li paga per andar via, o attua una strategia per costringerli ad andar via. Del resto, più in generale, abbiamo visto che il licenziamento oggi premia: la diminuzione d’organico serve spesso ad alzare il valore dell’azione in borsa, o alleggerisce un’impresa e la rende più appetibile. D. Prima la violenza pubblica, delle guerre, dei conflitti, della criminalità, poi quella intima, tra le mura domestiche. Oggi scopriamo quella sul posto di lavoro. Ma perché solo oggi? R. A denunciare il nuovo fenomeno non sono solo le diverse condizioni strutturali del mercato del lavoro, ma anche la presa di coscienza. Sa, chi subisce mobbing pensa all'inizio di essere una mosca bianca, che stia succedendo solo a lui. D. E invece? R. E invece si calcola che il mobbing colpisca in Italia circa 1 milione di lavoratori, di ogni livello, 12 milioni in Europa. Proprio quando scopre che è insieme a centinaia di migliaia di persone, ecco che scatta il meccanismo di riconoscimento e la consapevolezza di essere di fronte a un fenomeno diffuso, sociale. D. Le situazioni più comuni? R. L’azienda in cui c’è un capo dispotico che sottopone a mobbing perché fondamentalmente è un paranoico del proprio potere. Un’altra situazione comune è l’asperità violenta dei rapporti di lavoro determinata da ristrutturazioni o dal ricambio del management. Per non parlare delle situazioni più comuni: quando un gruppo viene turbato dalla presenza di un corpo estraneo. Scatta allora la coalizione, per motivi di consorteria paramafiosa, perché sono tutti uomini e arriva una donna, perché sono tutti di destra e arriva uno di sinistra, o viceversa, tutti milanesi e arriva un meridionale, sono tutti normali e arriva un handicappato. Valgono i meccanismi che tendono a escludere l’altro, il diverso. D. Quali sono i diversi più comuni? La donna? R. E’ solo una delle possibilità. Non confondiamo il mobbing con le molestie sessuali. Il mobbing colpisce donne e uomini. Non è correlato al sesso se non nella misura in cui la donna diventa un diverso in un ufficio di soli uomini. In questo caso, molestie sessuali e morali si intrecciano. Il mobbing può insorgere anche per motivi religiosi. Nel libro raccontiamo il caso di una signora fanatica di New Age e terapie alternative, per questo bollata come iettatrice ed emarginata. D. Tutta colpa dei capi? R. Guardi che anche i dirigenti sono vittime del mobbing. I dirigenti invecchiano, e per mandarli via bisogna pagare indennità altissime. Si preferisce fargli una guerra giorno per giorno, fino a farli impazzire, li si esclude dal lavoro, li si dequalifica, gli si toglie la segretaria, il parcheggio, il telefono, gli si rompe il computer. Tutti segnali che, isolati, non sono significativi, messi insieme sono una strategia. D. Mobbing in Italia più che negli altri paesi? R. No, no, il meccanismo nasce nei paesi a maggiore globalizzazione. In Italia la situazione è un po’ particolare, perché strutture come la famiglia, il sindacato, la chiesa consentono ancora alle persone di avere una vita sociale tale da sopportare queste angherie. In Italia, insomma, il margine di sopportazione sembra più alto, spesso si subisce mobbing senza averne coscienza. D. Per difendersene? R. Diciamo subito che non esiste ancora in Italia una legge specifica sul mobbing, anche se ci sono al momento tre proposte di legge. Intanto, però, si possono già utilizzare leggi in vigore. Oppure ci si può rivolgere a dei centri come quello di Milano, pubblico, o quello di Bologna, privato. E cominciano a sorgere gruppi di autodifesa di “mobbizzati” che si uniscono tra loro.
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o | Al
tema del lavoro e alla necessità di una riflessione più ampia
sulla sua centralità nella società attuale - caratterizzata
dal dominio della sfera economica - Nonluoghi dedicherà una serie
di interventi nella convinzione che non si possa immaginare una organizzazione
socioeconomica altra rispetto al mondo della competitività e dei
consumi sfrenati e illusoriamente globalizzanti (sappiamo che in realtà
non c'è n'è per tutti e che il villaggio globale è
una balla...), senza immaginare anche una diversa concezione del lavoro
e del suo rapporto con
la semplice "attività umana". In questo quadro il potere globalizzante nella sua versione oppressiva ci sembra percepibile come una struttura reticolare e dunque irriducibile a uno solo o a pochi centri contro i quali indirizzare la resistenza civile (nel nostro caso, mediante l'informazione). Ecco, dunque, la necessità di una attenzione diffusa al reticolo delle dinamiche diffuse e talora a prima vista inafferrabili del potere che nelle varie sfere e nei loro intrecci rappresentano vecchie e nuove forme di dominio, umiliazione, sfruttamento, sottrazione dell'identità individuale e - quindi - collettiva. In questo ambito, anche il fenomeno del mobbing, qui affrontato, ci sembra abbia una valenza: scardinarne le dinamiche in un posto di lavoro può essere una forma di lotta nonviolenta che mette in discussione il potere in quel dato punto della rete sociale- economica -politica e dunque contribuisce a indebolire il complesso dei processi della globalizzazione disumanizzante. L'altra
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