di ETTORE MASINA
Forse sono invecchiato: ma quanto avviene in Palestina
lo sento come un'aggressione fisica alla mia famiglia.
Non
è soltanto il numero dei morti che va crescendo di giorno in giorno,
e fra loro bambini uccisi fra le braccia dei genitori inermi; né
soltanto la ferocia di certi episodî come quello dei due agenti segreti
israeliani riconosciuti e linciati dalla folla. Chi ha la mia età
ha già dovuto contemplare certi orrori: non se n'è assuefatto
(ciò che sarebbe anche più terribile) ma non può dire
di esserne rimasto sorpreso.
La situazione del Medio Oriente è ormai gravida di crudeltà
del genere - e forse di più orrendi. Quello che più mi colpisce
è la disperazione alla quale i palestinesi da cinquant'anni sono
crocifissi. Nessuno guarda ai loro diritti. Se ne stiano fermi, conficcati
in una miseria che non meritano e oppressi da un crudelissimo razzismo,
o insorgano nelle intifada, non hanno altro orizzonte che quello dello
strapotere di Israele, sponsorizzato brutalmente dagli Stati Uniti. Mi
sembra talvolta che il furore con il quale i palestinesi cercano di difendere
la propria vita e la propria identità da una continua ingiustissima
prevaricazione israeliana somigli al disperato coraggio del ghetto di Varsavia.
Chi mi conosce sa
bene che non scrivo queste parole senza averle soppesate.
Da cinquant'anni
i palestinesi sono i nuovi ebrei: popolo di profughi, popolo considerato
di sotto-uomini da un herrenvolk che impugna la Bibbia come un corpo contundente;
popolo taglieggiato, rapinato delle sue terre e delle sue acque, dei suoi
ulivi e della sua dignità, popolo di migliaia di reclusi per anni
e anni in campi di punizione affondati nel deserto e amministrati crudelmente,
popolo di famiglie divise ma soprattutto popolo rapinato della verità
delle sue sofferenze e delle sue ragioni da un monopolio della diplomazia
e dei mass-media che sta saldamente nelle mani degli amici di Israele.
La propaganda
israeliana deforma sempre e comunque le azioni palestinesi e l'emersione
della verità è resa più difficile dalla pratica impossibilità
dei palestinesi di ottenerla. Fra vent'anni, quando i documenti della CIA
e del Dipartimento di Stato saranno desecretati: si vedrà la ragnatela
velenosa tessuta intorno all'agonia di un popolo, così come adesso
si scoprono i delitti americani in America Latina.
Sarà,
probabilmente, troppo tardi. In tutti i casi sarà troppo tardi per
me. E perciò io sento la necessità di dare la mia testimonianza
adesso su come Israele ha inoculato per anni e anni i germi dell'odio nel
sangue della Palestina. Posso farlo ripetendo ciò che ho visto (e
scritto: ma ben pochi l'hanno letto) in una visita ai campi profughi, nel
1991. Non è una testimonianza personale. Quella che leggerete, se
vorrete, troverete qui sotto, è una semplice traduzione letteraria
di una relazione sottoscritta all'unanimità da una delegazione unitaria
di deputati italiani, da me presieduta nella mia qualità di presidente
del Comitato della Camera per i diritti umani, dopo una missione compiuta
su invito dell'UNRWA (l'agenzia dell'ONU per i rifugiati).
Alla conferenza-stampa
tenuta al nostro ritorno, non è intervenuto neppure un
giornalista dei cento che
girano per Montecitorio, alla ricerca di notizie o di pettegolezzi. Nessun
giornale ne ha pubblicato una sola riga. Raccontare le condizioni di vita
dei palestinesi negli orrendi "rifugi" non significa dire che essi hanno
tutte le ragioni né che essi soffrono per esclusiva colpa degli
israeliani: ma mostra con quale crudeltà gli occupanti hanno, in
spregio a ogni convenzione internazionale e a ogni
risoluzione dell'ONU, sottoposto
per decenni un popolo a una continua inoculazione di odio. Del resto vi
sono, come sapete, straordinari israeliani che insorgono contro il colonialismo
del loro paese.
Vi chiedo di
leggere le mie pagine, per rispetto della verità e del diritto.Grazie.
----- LA RELAZIONE -----
"Se la nostra politica fa
sì, o può far sì, che un soldato in uniforme
prenda di mira con il suo
fucile un ragazzino di dieci anni, anche se poi
quel soldato non spara,
vuol dire che si tratta di una politica sbagliata
che deve essere respinta
con disgusto e cambiata. La discussione sui torti
e le ragioni è, a
questo punto, irrilevante. Ci sono situazioni assolute
che niente al mondo può
rendere relative. Un soldato armato a confronto con
un ragazzino è una
di queste situazioni"
Mario Weinstein
... I bambini di Nablus ogni
tanto dovevano imparare nuovi itinerari per i
loro vocianti raduni. Per
"motivi di sicurezza" i soldati (israeliani)
muravano l'accesso a qualche
vicolo, così come avevano
murato il suk, a due estremità.
I bambini di Nablus non
andavano mai a scuola, o quasi mai. Le scuole
erano chiuse, ci stavano
accasermati i soldati israeliani, oppure erano
area proibita , per "motivi
di sicurezza". Per "motivi di sicurezza" la
vita di tutti gli abitanti
dei territori occupati era una vita di seconda
categoria. Per "motivi di
sicurezza" negli ultimi tre anni nei territori
occupati da Israele erano
state uccise più di mille persone e ferite
ottantamila; centomila erano
state arrestate per un breve o lungo periodo;
quattordicimila erano in
carcere; sessantotto erano state deportate in
Libano, con cinquanta dollari
in tasca e un avvertimento: se cerchi di
tornare, ti uccidiamo sul
posto. Per "motivi di sicurezza" erano state
compiute anche molte
altre imprese: erano stati sradicati centomila ulivi;
seicento case demolite con
i bull-dozer o con la dinamite, o amputate di
alcune stanze, mediante
muratura delle porte ; erano stati devastati
centinaia di negozi, espropriati
centodiecimila ettari di buona terra,
private di ogni possibilità
di lavoro decine di migliaia di persone. Erano
cifre note a molti. Ma quei
numeri non bastavano a farti immaginare davvero
ciò che accadeva
in Palestina: le storie umane, i volti, le lacrime, i
sentimenti: io, almeno,
scoprii di non esserci riuscito, tutto mi apparve
più grave di quanto
avessi pensato. C'era più dolore, secondo me, più odio,
più povertà
nei territori occupati che in qualunque altro punto della
Terra, e Dio sa quanti paesi
poverissimi avevo visitato. Una volta, a
opprimere i palestinesi,
c'erano soltanto i soldati e i coloni dal
grilletto facile; adesso
c'era anche la fame. Per settimane, durante la
guerra del Golfo, la "Striscia
di Gaza" e la Cisgiordania erano state
trasformate in due immensi
carceri, un milione e mezzo di persone agli
arresti domiciliari; coprifuoco
per quasi tutto il giorno, le coltivazioni
alla malora, disoccupazione
forzata, i bambini denutriti. L'UNRWA,
l'agenzia dell'ONU per i
rifugiati aveva dovuto avviare
un programma d'emergenza
alimentare.
Il campo di Deihsheh, nei
pressi di Betlemme, era nato nel 1949: vi
erano,cioè centinaia
di persone che da quarantadue anni vivevano nei suoi
"rifugi", con le fogne a
cielo aperto e il reticolato verso la strada.
Anzi, la strada non si vedeva
più: per vergogna o per punizione, chissà, le
autorità israeliane
avevano cintato il campo con lastre di latta, quasi
fosse un cantiere. Nel cortile
delle scuole organizzate dall'UNRWA i
bambini erano tornati a
giocare negli intervalli fra le lezioni. Ma poche
notti prima, in quel cortile,
erano stati ammassati, per ore e ore, sotto
la luce abbagliante delle
fotocellule, tutti i maschi fra i quattordici e
i sessant'anni, "per un
controllo". Concentramenti del genere avvenivano
frequentemente, anche negli
altri campi, se i soldati erano particolarmente
vivaci allora (era successo
pochi giorni prima nel campo di Kalandia) i
palestinesi avevano dovuto
stare in ginocchio per ore mentre i ragazzi in
divisa picchiavano e picchiavano.
Comunque Dahisheh contava
circa diecimila abitanti e, fra quei diecimila,
tredici erano stati i morti
ammazzati dai soldati, da quando era cominciata
l'Intifada; uno di essi
era uno "shaid" (martire) di quattordici anni: si
chiamava Bazan Iza Grouz
e la foto del suo volto paffuto sotto la kefiah
stava ora sulle pareti di
molte abitazioni. Erano centosettantasei i
ragazzi palestinesi uccisi
da colpi d'arma da fuoco nei trentasei mesi
dell'Intifada. Un terzo
aveva avuto meno di dieci anni.
Quattrocento persone di
Dehisheh erano in carcere, quasi tutti nel deserto
del Negev; fra loro, cinque
donne. C'erano stati mille feriti. I bulldozer
militari avevano abbattuto
otto case. Di un'altra abitazione erano state
murate due stanze. I medici
del campo denunciavano decine di aborti
a causa di intossicazione
da gas lacrimogeni.
L'ipertensione da stress
era a livello endemico.
La vecchia Nur
La vecchia Nur aveva una
faccia nota: identica a quella delle madri dei
desaparecidos cileni, delle
madri dei sandinisti uccisi dai contras, delle
madri vietnamite dei bambini
deformi "da diossina".. Mostrò il foro nella
finestra del patetico salottino.
Qui, dietro il vetro chiuso, stava suo
figlio Ibrahim quando un
tiratore scelto israeliano appostato sul
"cucchiaio" di un bulldozer
lo centrò - chissà perché proprio li - con un
colpo in mezzo agli occhi.
La figlia di Ibrahim, che si chiamava Nur anche
lei e che aveva tre anni,
aveva visto uccidere il padre. Sua madre e sua
nonna dovevano stare attente:
se incontrava un soldato israeliano gli
sputava addosso. Venti giorni
prima una pattuglia era entrata nella casa
della vecchia che dormiva
sola. Con le baionette le avevano sventrato i
sacchi di farina e di zucchero
e la latta di olio che le era stata donata
dall'UNRWA; su quei viveri
preziosi avevano camminato con gli scarponi.
L'altra notte erano tornati.
Avevano costretto la vecchia e la vedova a
uscire nel gran freddo per
cancellare alcune scritte dell'Intifada su un
muro di fronte alla loro
casa.
L'UNRWA le aveva riportato
la farina e lo zucchero.
La vecchia guardava i sacchi
e diceva: "Non si vive soltanto di cibo".
La vecchia Nur, i suoi occhi
senza lacrime mi rimangono dentro come il
riassunto delle cose terribili
che ascoltammo e contemplammo, in quel marzo
1991, in sei campi della
West Bank e della "Striscia di Gaza". Eravamo
cinque deputati, membri
del Comitato della Camera per i Diritti Umani, in
visita alle installazioni
dell'UNRWA, l'unica (e fortunatamente valida)
mano tesa dall'ONU ai palestinesi.
Alla fine il giudizio fu concorde:
Israele, che pure è
un paese democratico (liberi partiti, libere elezioni,
libero parlamento, libera
stampa) commetteva una sistematica violazione
della IV Convenzione di
Ginevra, quella che dovrebbe tutelare le
popolazioni dei territori
militarmente occupati. Altre volte, nella storia,
era avvenuto che grandi
democrazie si macchiassero di crimini colonialisti
a migliaia di chilometri
di distanza dai loro parlamenti. Il colonialismo
di Israele cominciava al
di là della "Linea verde", che era come dire sul
marciapiede di fronte; e
il popolo che si voleva definitivamente soggiogare
non aveva neppure un diverso
colore della pelle, aveva gli stessi volti del
popolo "imperiale".
Il generale bello
Il generale Zach piaceva
sicuramente alle donne: era alto, abbronzato,
sorridente; aveva gli occhi
dello stesso colore della divisa: cachi. Era un
eroe: aveva combattuto valorosamente
nel Sinai, e un suo fratello vi era
caduto. Il signor Phines
Avivi, del ministero degli Esteri israeliano, era
meno bello; in compenso
parlava con grande fervore. Zach e Avivi erano i
due massimi esponenti della
cosiddetta "Amministrazione civile" dei
territori occupati. Per
descriverci le loro attività avevano scelto uno dei
migliori ristoranti di Gerusalemme.
Penso che nessuno di noi (di cinque
diversi gruppi parlamentari:
maggioranza e opposizione) abbia gustato quel
cibo.
I nostri interlocutori (...)
negavano che nei campi dei rifugiati ci fosse
mai stata la fame: checché
ne dicessero i palestinesi (e l'UNRWA) durante
le settimane del coprifuoco
permanente, l'Amministrazione civile era andata
di porta in porta a distribuire
viveri, come era suo dovere secondo la IV
Convenzione di Ginevra,
cui Israele, che non l'aveva mai accettata de jure,
si atteneva - giuravano
- de facto. Ammettevano che, sì, la polizia era
spesso troppo rigorosa;
sì, c'erano stati alcuni eccessi da parte dei
militari ma "abbiamo studiato
i nostri errori e le vittime sono diminuite".
Le deportazioni in Libano?
Siamo contro: però vi sono persone che è troppo
pericoloso tenere in carcere".
Quanto alle punizioni collettive, "non ci
piacciono ma alcune situazioni
non possono essere tollerate". E allora, a
parte i bandi militari,
applichiamo le leggi del Mandato britannico o
quelle egiziane nella "Striscia
di Gaza" o quelle giordane nella West Bank".
Era come dire che per i
palestinesi non esisteva alcuna certezza di diritto.
I ragazzi palestinesi
volano
Eravamo al penultimo giorno
del nostro viaggio. Dietro i volti dei nostri
interlocutori continuavamo
a vedere il Mare di Gaza, bianco e grigio in una
burrasca che sembrava il
simbolo dei sentimenti che fermentavano negli
immensi carceri creati dall'occupazione.
Nella "Striscia" la densità della
popolazione raggiungeva
quella di Hong Kong e la miseria aveva dimensioni
atroci. Nella regione i
militari erano particolarmente aggressivi: in quei
giorni avevano aggredito
anche due funzionari dell'ONU.
Nell'ambulatorio di Khan
Younis, un medico stava esaminando la gamba
sinistra di Mohammed. Mohammed
aveva nove anni; ne aveva otto il 12
febbraio 1990 quando un
soldato israeliano gli aveva sparato quasi a
bruciapelo una pallottola
di gomma con l'"anima" di piombo. Sarebbe rimasto
zoppo. "Secondo gli israeliani,
i soldati hanno l'ordine di sparare sopra
le teste dei ragazzi" ci
disse un medico palestinese. "Forse i nostri
ragazzi hanno imparato a
volare".
Non era riuscito a volare
Mustafà Alì Charake, anni sedici, e un tiratore
scelto lo aveva abbattuto
nel campo di Jalazone, diciassette chilometri da
Gerusalemme. A Jalazone
c'erano seimilacinquecento rifugiati e i morti
ammazzati erano stati tredici.
Nella casa in cui Mustafà aveva vissuto la
sua brevissima vita, c'era,
accanto alla sua, la fotografia di un fratello
arrestato a tredici anni
e ora in carcere a Nablus. La casa era ridotta a
una sola stanza; gli israeliani
avevano murato e sigillato le porte delle
altre due: adesso quelle
due stanze erano "zona militare" e i soldati ogni
tanto venivano a controllarle.
Le stanze murate per punizione
erano una costante dei campi. In quello di
Kalandia visitammo una casa
in cui diciannove persone erano costrette a
vivere in tre locali, gli
altri essendo stati tutti chiusi; la padrona di
casa scostò con pudore
una tenda di finto pizzo che rivestiva le pareti:
dietro c'erano le lamiere
sigillate dai soldati. La signora aveva due figli
in prigione, il terzo era
appena tornato dal carcere-tendopoli di Ketsiot,
nel deserto del Negev, in
cui settemila persone vivevano in condizioni che
Amnesty International definiva
inumane.
Tanto per fare qualche esempio:
nelle carceri apprestate dagli israeliani
per l'Intifada il regolamento
consentiva all'ufficiale comandante di
impedire ai detenuti anche
"a scopo preventivo" di acquistare beni allo
spaccio, di ricevere giornali,
libri, sigarette, inviare o ricevere
corrispondenza, soldi e
viveri e visite di familiari e persino di camminare
in qualche cortile. Ma nel
campo di Ketsiot non vi era spaccio né erano mai
ammesse visite di familiari.
Conoscemmo due fratelli che si erano trovati
ambedue detenuti in quella
tendopoli per diversi mesi; il comandante del
campo aveva impedito che
si vedessero, sia pure per brevissimi incontri.
Il figlio del sadico
Ma i carcerieri, loro, cosa
pensavano? I bei ragazzi in divisa apparivano
più che altro annoiati,
ai posti di blocco, accanto alle tende o ai
cingolati che sovrastavano
i campi. Con loro non si poteva parlare; e non
volevano essere fotografati.
Chi li conosceva diceva che si sentivano
avviluppati dall'odio come
da un vento caldo e sabbioso, di quelli che
prima o poi ti fanno perdere
la testa. Alla fine del gennaio 1988 sui
giornali israeliani era
comparsa, inutilmente, una dichiarazione di
centocinquantasette psicologi
e psichiatri che mettevano in guardia
l'opinione pubblica "contro
i pericoli di una occupazione permanente che
corrompe e rende malata
la nostra società e contro gli effetti nefasti che
essa ha sulla psicologia
dei soldati"
"La storia dl popolo ebreo
è la storia di comunità democratiche e di
profonda moralità"
dicevano gli animatori di B'Tselem, un centro israeliano
per i diritti umani. "E
noi vediamo ora in pericolo, nel nostro paese, e
democrazia e moralità".
B'Tselem significa "immagine divina dell'uomo":
"Dio creò l'uomo
a sua immagine e somiglianza... e nessuno puo'
dimenticarlo. Ogni uomo
è prezioso". Una pattuglia di dieci parlamentari
riportava alla Knesset le
inchieste compiute da questo gruppo di giovani:
così rigorose da
non essere mai state smentite". "Se non siamo certissimi
di un caso, non lo registriamo.
Per esempio: secondo noi, negli ultimi tre
anni almeno ottantacinque
palestinesi sono morti in seguito a
intossicazione da gas lacrimogeni,
ma non li mettiamo nel computo perché
non disponiamo di referti
medici inoppugnabili. Non calcoliamo le persone
uccise da automezzi militari
né quelle che muoiono in seguito a esplosioni
accidentali. Dall'Inizio
dell'Intifadfa sino al gennaio scorso, dunque, per
noi, queste sono le cifre
certe: settecentoquarantadue palestinesi uccisi
dall'esercito e dalla polizia;
trentacinque dai coloni; dieci dai
collaborazionisti arabi;
i palestinesi,dal canto loro, hanno ucciso tredici
soldati e undici civili
israeliani e trecentotrentasei collaborazionisti".
Sulla villetta di Keren
Hayesod Street in cui B'Tselem aveva sede, a
Gerusalemme, qualcuno, ogni
tanto, tracciava una svastica: "In Israele il
furore cresce di giorno
in giorno. Se, come è accaduto più volte nelle
ultime settimane, un estremista
islamico accoltella una donna israeliana,
l'uomo della strada chiede
che il villaggio dell'assassino sia distrutto".
Com'era possibile che un
popolo passato per terribili prove potesse usare
metodi simili a quelli dei
suoi persecutori? "Me lo chiedono tutti gli
stranieri" rispose Yuval
Ginbar, direttore di B'Tselem. "Vede, qualche mese
fa fu mostrato alla televisione
un bambino orrendamente seviziato dal
padre. Gli domandarono:
se un giorno avrai dei bambini, come li tratterai?
Lui rispose: lipicchierò
moltissimo. Quanto? Lui rispose: fino a che
moriranno".
Haram esh-Sherif
Dopo la Mecca e la Medina,
dove c'è la tomba di Maometto, non esiste in
tutto l'Islam luogo più
santo dell'Haram esh-Sherif. Qui sorgono due
stupende moschee, quella
della Qubbet es-Shakra ("Cupola della Roccia") e
quella detta el Aqsa, cioè
"La Lontana", in cui, secondo il Corano,
l'Altissimo una notte trasportò
dalla Mecca "il Suo servo" (Maometto). La
roccia che sta sotto la
cupola è la vetta del Monte Moria: secondo ebrei e
cristiani vi ebbe luogo
la vicenda del sacrificio di Isacco. I musulmani
collocano altrove tale episodio,
ma la Roccia non è meno sacra per loro:
dicono che su queste pietre
si poseranno gli angeli per suonare le trombe
del Giudizio universale.
Sulle scale che portano alla moschea (e che
infatti sono dette "bilance")
Dio, quel giorno, peserà le anime dei morti.
Essi, i morti, se ne staranno,
nel frattempo, sotto la Roccia, nel "Pozzo
delle anime", in orazione.
(...) Nel piccolo museo
a un lato della grande spianata, una vetrina
esponeva come reliquie i
panni insanguinati dei fedeli che nell'ottobre del
1990, accusati di avere
lanciato grosse pietre sul sottostante Muro del
Pianto, erano stati massacrati
in questo luogo dalle guardie di frontiera
israeliane. Diciannove morti:
quattro delle vittime avevano avuto il cranio
letteralmente scoperchiato
tanto furiosa era stata la grandine dei colpi.
Il mondo non si era mosso:
l'ONU aveva deprecato: ma non era riuscita
neppure a fare accettare
a Israele l'invio di una commissione di inchiesta.
Nella moschea "La Lontana"
(...) un'altra vetrina conteneva i bossoli delle
pallottole e degli ordigni
lanciati, il giorno della strage, contro gli
islamici. Anche le colonne
di marmo recavano gli sfregi degli spari esplosi
contro la folla che aveva
cercato rifugio nel tempio.
Il figlio del dottore
In un alberghetto di Gaza,
davanti a una spiaggia meravigliosa da tempo
deserta, sconvolta dalla
tramontana e recinta di fili spinati, parlammo con
due dei dodici "notabili"
palestinesi che il mese precedente si erano
incontrati con il Segretario
di Stato americano. Uno si chiamava Frehi Abdu
Meddei, ed era il presidente
degli avvocati della Striscia; l'altro, il
dottore Haidar Abdul-Shafi,
era il presidente della Mezzaluna Rossa.
L'avvocato portava una kefiah
a scacchi neri e rossi; aveva una quarantina
d'anni, baffi neri e una
barbetta nera mefistofelica. Parlò con grande
impeto, raccontando come
in ventiré anni d'occupazione, cinquecentomila
palestinesi fossero passati
per le carceri israeliane. L'esercizio della
professione forense - disse
- era, nella regione di Gaza, praticamente
azzerata dal disprezzo e
dall'arbitrio degli occupanti; e inoltre
l'avvocato poteva citare
decine di casi nei quali non soltanto gli
arrestati ma anche i loro
parenti erano stati maltrattati in maniera
particolarmente ingiuriosa.
Infine, Frehi Abdu Meddei spiegò che negli
ultimi mesi erano gravemente
aumentate le difficoltà frapposte dagli
israeliani al ricongiungimento
dei gruppi familiari divisi dalle
vicissitudini.
A questo punto l'avvocato
chiese al dottor Abdul-Shafi di raccontare il
caso di suo figlio. Il giovane
era andato a studiare in Gran Bretagna; per
una mancata coincidenza
aerea era rientrato nella Striscia con due giorni
di ritardo nei confronti
della "licenza" concessagli dalle autorità
israeliane. Subito gli era
stato notificato che aveva perso il diritto di
residenza. Pagando una tassa
assai elevata poteva ottenere un permesso di
soggiorno per un mese, rinnovabile
per complessivi 90 giorni; poi doveva
lasciare per almeno un semestre
i Territori occupati.
Il dottore aveva una grossa
testa, con radi capelli bianchi e occhi da
vecchio saggio sotto le
bianche e folte sopracciglia. Sapevamo che da
giovane aveva studiato all'estero,
che era stato membro del partito
comunista palestinese e
tra i fondatori dell'Olp, nel 1964. Aveva
conosciuto il carcere e
la deportazione nel Sinai. mentre Maddei parlava,
egli era rimasto ad ascoltarlo
a capo chino, con una espressione di
dignitosa sofferenza; mi
aveva ricordato i vecchi capi della Organizzazione
palestinese visti a Tunisi,
una notte, mentre con gli altri componenti
della Commissione Esteri
della Camera, attendevo Arafat, in una villa di
periferia piena di armati.
Ci avevano accolti con calore; ma, dopo avere
passato alcune ore con loro,
mi ero accorto che non erano più capaci di
sorridere (...).
Shafi, quel giorno, non
dedicò che poche parole al "suo" caso; ne
traspariva una serena indignazione;
poi ci tracciò con grande vivezza un
quadro delle condizioni
del popolo palestinese, della su ansia di pace e di
giustizia e lo sconcerto
per l'inerzia dell'Europa. parlava uno splendido
inglese. Il livello della
sua conversazione, il suo grande carisma
personale, la bontà
che sembrava sprigionare - e che risulta così rara nei
politici - mi rimasero impressi:
non mi meravigliai quando, sei mesi più
tardi, seppi che avrebbe
guidato la delegazione palestinese a Madrid.
Ma l'Europa dov'è?
Gli altri dieci palestinesi
che, con i due di Gaza, avevano incontrato il
Segretario di Stato americano,
Baker, li ascoltammo il giorno dopo a
Gerusalemme (...): "Ci chiedono
di rimuovere Arafat (...). Sarebbero
disposti a rimuovere Shamir,
a causa di ciò che ha fatto per cinquant'anni
e a ciò che sta facendo
adesso: la continua violazione dei diritti umani,
il sabotaggio di ogni iniziativa
di pace?".
Un tempo cortesi e affettuosi,
adesso cortesi e glaciali, aggiunsero di
sentirsi crudelmente beffati:
"L'Europa attende che si muova Bush. Bush
attende che si muova Shamir.
Shamir non ha nessuna intenzione di muoversi
(...). Quando abbiamo detto
a Baker che, almeno, si devono bloccare gli
insediamenti israeliani
nei territori palestinesi, la sua replica è stata:
datemi un nuovo parlamento
americano e io vi accontenterò".
Chiese Faysal Husseini:
"E' possibile che gli Stati Uniti decidano per
tutti, che l'Europa contempli
inerte il perpetuarsi della nostra
tragedia?". Non avevamo
risposta per lui.
Il coprifuoco
Il patriarca latino di Gerusalemme,
monsignor Michel Sabbas, palestinese,
aveva un volto tondo e pacioso,
si moveva silenzioso nell'inutile immensità
del suo episcopio: i cattolici
di rito latino non arrivano a trentamila. La
domenica delle Palme lo
avevamo ascoltato celebrare in arabo la solenne
liturgia, nell'immenso indecente
caravanserraglio del Santo Sepolcro in cui
ciascuna della confessioni
cristiane urla la propria fede con la stessa
aggressività dei
mercanti che celebrano la propria merce. Lui non gridava:
neppure con noi, il giorno
seguente, alzò la voce mentre diceva: "Stiamo
verificando la sincerità
dell'etichetta "Giustizia" applicata alla guerra
del Golfo. Se era vera giustizia,
deve arrivare sin qui.
Se la giustizia non arriva
anche in Palestina, allora è chiaro:
la guerra l'hanno fatta
per egoismo".
La giustizia in Palestina
non era ancora arrivata. Percorremmo per cinque
giorni i territori occupati,
viaggiando su un pulmino che portava una
grande bandiera dell'ONU
e soltanto per questo evitava la grandine di
pietre che tiratori invisibili
lanciavano sugli automezzi "sospetti". I
nostri accompagnatori erano
laconici, com'è dovere dei funzionari delle
Nazioni Unite, anche se
non avevano esitazioni ad elencare con voce
tranquilla paurose statistiche
dalle quali emergeva l'intollerabilità
dell'occupazione. Parlavano
invece, con foga, i cooperanti italiani che da
anni lavoravano nei Territori
e conoscevano la situazione palestinese "dal
basso": "Solo a un terzo
dei lavoratori delle zone occupate è ora concesso
di passare la Linea Verde
(il confine che divide Israele dai Territori);
quelli, e sono la maggioranza,
che vengono da villaggi o campi in cui è
ancora in vigore il coprifuoco,
sono costretti a levarsi alle tre del
mattino. Centomila capifamiglia
sono totalmente disoccupati. Bloccati per
settimane dal coprifuoco
imposto ai campi, venti, ventuno o addirittura
ventiquattro ore su ventiquattro,
alcuni di loro, a coprifuoco finito, sono
stati licenziati dagli imprenditori
israeliani per "assenteismo". Ebrei
sovietici che "tor -nano"
in Israele, a decine e decine di migliaia,
subentrano ai palestinesi
in molti posti di lavoro. L'odio forzato,
naturalmente, accresce la
disposizione alla violenza. Ma poi pensate a quel
che è stato il coprifuoco
totale, o quasi, per settimane. famiglie di sei,
sette, otto persone costrette
a rimanere giorni e giorni nella stessa
stanza; talvolta senz'acqua,
con pochissimo cibo, un malato che non può
essere soccorso... Unica
compagnia, la radio che trasmette: prima
impossibili speranze, poi,
un po' alla volta, condanne senza remissione.
Spari lontani. Grida incomprensibili.
Le sirene dei vicini insediamenti
ebraici che lanciano l'allarme
aereo e tu non hai maschera antigas né per
te né per i tuoi
figli, perché, nonostante l'ingiunzione della Corte
Suprema di Israele, ai palestinesi
le maschere non sono state distribuite.
I soldati che ti entrano
in casa, improvvisamente, nella notte,
calpestando, più
o meno involontariamente, le persone che dormono per
terra... Gli elicotteri
che sorvolano il campo...
Ecco: i bambini sono terrorizzati
soprattutto dagli elicotteri".
La stoltezza, anzi la feroce
idiozia, di certi comportamenti israeliani
inasprisce il discorso dei
nostri cooperanti. Citano l'episodio di Beit
Ulla, un villaggio palestinese.
Vi avevano installato una fattoria modello;
i soldati hanno deciso che
mancavano alcuni timbri alle relative
autorizzazioni. Hanno distrutto
i pozzi scavati, hanno divelto viti per
centinaia di metri, usato
i defolianti sulle cotltivazioni... Dopo aver
visto l'orrore dei "campi"
e l'umiliazione continua, sistematica inflitta
ai palestinesi, l'odio rimaneva
orribile ...
Ettore Masina
La coltivazione dell'odio
Un inverno al Sud
(ed. Marietti, 1993)
|
o |
Ringraziamo
Ettore Masina di averci trasmesso
questo
intervento.
ALTRI
ARTICOLI
Dentro
la
nuova
Intifada
Diario
di viaggio
di
Farshid Nourai
Intervista
con
Joe
Sacco
autore
di
"La
Palestina
occupata"
di
Nando Sigona
La
diaspora palestinese
di
Paolo Zoratti
(1.
novembre 2000)
Le
news
e
i commenti
nel
notiziario
di
Nonluoghi
|