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"No logo" alla massa critica...
Il libro di Naomi Klein: dalla protesta
contro il mercato dei marchi al movimento politico
di SIMONA BARUZZO Non c'e' spazio. Ogni nuova produzione culturale che esprima dissenso viene immediatamente commercializzata. Ne' scelta. Ne' lavori. Forse lo "stato combustibile delle cose" non e' ancora visibile in superficie. Ma sotto terra sta gia' bruciando. Questo e' quanto si scrisse due anni fa in Indonesia. E oggi si continua a scrivere. E adesso scrivo io, un po' commentando un po' citando "NO LOGO", libro scritto da Naomi Klein che da almeno uno dei suoi ( e miei) maestri, cioe' Noam Chomsky, ha imparato non poco. Del libro si gode proporzionalmente al piacere che si prova, per puro impulso del cuore, a liberare i propri vestiti, computers, barattoli, cianfrusaglie e altre cosette piu' o meno inessenziali di cui ci farciamo l'esistenza, da etichette, marchi, marchie....macchie che portano nomacci tipo Microsoft, Shell, Nestle', McDonalds, Levi's, Nike e qualche altro. Quest'attivita' "liberatoria" io l'ho praticata fin da tenera eta' (e la mamma puo' confermare) e NON per straordinariamente prematura coscienza politica che suggerisce quanto sia incorretto dover trasformare se stesse o le proprie abitazioni in cartelloni pubblicitari, ma perche' non ho mai sopportato di essere "bollata" se non da bolli o timbri che mi autoinfliggo. Potessi imparare anch'io come Naomi dalle mie autoselezionate maestre (o maestri). Imparare una rabbia intelligente, una ribellione creativa, cosciente della frammentazione e della compattezza della verita'. Naomi ha realizzato con pazienza e determinazione una delle mie piu' sensate intenzioni sul come intrattenere in amenita' costruttive e simpatiche la mia esistenza. E cioe' l'intenzione di scrivere un libro serio ma gradevole a leggersi che documenti il vuoto e l'assenza di logos con cui la sovrabbondanza di "logo" ("marchio") del nostro tempo ci soffoca o...ci vorrebbe soffocare. Io la mia intenzione non l'ho mai realizzata anche a causa di una immotivata pigrizia che mi ha impedito di sistematizzare e classificare una bibliografia che ogni giorno si fa piu' generosa. Eppure so che non basta l'intuizione, che cio' che si sa intuitivamente bisogna documentarlo per poterlo comunicare in maniera credibile non soltanto ad "amiche/ci di latte". Meno male che c'e' Naomi. "Logo"in inglese si usa per
"marchio". In qualche modo dovrebbe derivare da "logos". Ma non c'e' ragione,
ne' parola che non sia solo significante che lascia contenuto e significato
arrancarcisi dietro, nella anti-logica delle sorelline Nike, Coca Cola,
Nestle' e tante altre. Il loro e' tutt'altro che "potere del logos". E'
potere del vuoto, dell'immagine pura, del giocherello affascinante, pulito
e legittimo della
NO LOGO racconta di queste industrie che non si sporcano le mani con la materialita' dei prodotti che bollano col loro marchio e tanto meno con l'esistenza fisica di qualcuno che tali prodotti produce. La produzione e' comunque delegata ad altri. Innocui giochi d'immagine che lasciano un dollaro (non duemila lire o sette corone che sarebbero valuta sbagliata) al giorno a un'operaia indonesiana, il "prestigio" di una giacca bollata con un marchio (che e' spesso brutto o banale ma nessuno se ne accorge...o pochi....che strano...) a chi compra il prodotto materiale finito, e, soprattutto, un profitto alle stelle per chi detiene la proprieta' del marchio. New Branded World. Non si tratta di produrre qualcosa e poi reclamizzarlo. Ma di comprare qualcosa al prezzo piu' basso possibile, fedelissimi all'integralismo di mercato piu' puro (si consiglia, per meglio comprendere il concetto, il libro di George Soros "La crisi del capitalismo globale") e di "bollarlo". Pare siano stati illustri teorici della gestione aziendale a sviluppare verso la meta' degli anni '80 un'idea che allora poteva anche apparire innocua, e precisamente l'idea che multinazionali di successo dovessero in primo luogo fornire "marchi" e non prodotti. Ed e' un fatto che da allora le multinazionali che quest'idea hanno digerito hanno goduto di una crescita astronomica in ricchezza e in influenza culturale. Non solo. Sono loro le artefici dell'unica effettiva globalizzazione in atto: quella del loro inimmaginabile profitto economico. E' chiaro che non siamo cosi' ingenue da credere che i consumatori occidentali "primordiali e primo-mondiali" non abbiano approfittato della manodopera "terzomondiale" da molto prima degli anni '80! A parte l'era imperialista propriamente detta, i primi viaggetti d'affari della Nike si possono ricondurre alle attivita' abusive sorte in Vietnam, quelli della Mattel agli accessori delle Barbie frutto di lavoro minorile in Sumatra, quelli della Shell ai nascosti vantaggi delle lande inquinate e impoverite del delta del Niger. Un bel "villaggetto globale",
per servirsi di una euforica retorica del mercato in grande stile. Un posticino
(un....LOGO!) niente male dove intere tribu' della foresta amazzonica digitano
su amene tastiere senza fili, dove nonne siciliane si dedicano al business
elettronico e dove sorridenti adolescenti delle piu' svariate etnie condividono,
per dirla come un sito web della Levi's, "a world-wide style culture".
E' quasi incredibile come ci sia gente, anzi ci sia TANTA gente che vuole emigrare da questo villaggetto e che ha gia' iniziato ad organizzare per benino il viaggio. A parte le tante ONG e movimenti che si occupano di economia alternativa e cooperazione allo sviluppo (penso per es. ad "Attac", a "Drop the Debt", "Global Exchange", "Sch News" e una miriade d'altre), stanno fiorendo collettivi e comitati studenteschi, o piu' generalmente accademici, stanchi di vedere le universita' tapezzate dai "logo" delle multinazionali e devoti alla preparazione dell'"emigrazione". Il titolo del libro di Naomi
"No Logo" non vuole essere interpretato come uno slogan (per es. "Non piu'
marchi/marche!") o come un anti-marchio da apporsi sulle magliette di chi
non vuole adattarsi al gioco dei marchi (per assurdo ci potrebbe gia' essere
una linea di capi d'abbigliamento chiamata "No Logo"!). Vuole semplicemente
essere un tentativo sorridente di catturare l'attenzione di giovani (ma
non necessariamente) attivisti. Il libro e' mosso da una semplice ipotesi:
non appena l'attivismo di chi si prepara ad emigrare dal villaggio globale
delle multinazionali (dopo averne scoperto le regole) raggiungera' una
massa critica, si trasformera' nel prossimo vero grande movimento politico,
in un'onda di opposizione capace di allagare catastroficamente il villagio
globale delle multinazionali, specialmente di quelle che piu' massicciamente
e visivamente impongono la presenza delle loro marche. Naomi non vuole
pero', ne' e' in grado di predire il futuro. Il libro non e' "il testo"
di riferimento di un'allegra e rivoluzionaria indovina, ma una collezione
rielaborata e analizzata di osservazioni dirette e di prima mano. E' un
esame di vasti sistemi motori di diffusione di attivismo e informazione.
E' un'analisi di una "meta protesta" accompagnata da pianificazione costruttiva
che sta gia' esprimendosi attraverso diverse generazioni e confini nazionali.
E' storia del mercato e del mercato dei diritti umani. E' espressione dello
sforzo testardo e, nonostante le ferite, ottimista di interpretare questa
storia e di cambiarne il corso.
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