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Alto Adige, il grande ballo dei potenti
Merano: la città dove non si muore più, fra il turismo terapeutico e il Manuale Cencelli etnico
 

di RICCARDO DELLO SBARBA 

    Si lamenta don Paolo Michelini, parroco della chiesa di Santo Spririto, che a Merano, “città di cura”, nessuno muore più. Ossia: si muore ancora, come dappertutto, ma a Merano da tantissimo tempo quello che è sparito sono i funerali, cioè la celebrazione pubblica della morte, la forma collettiva del lutto. In riva al Passirio i funerali sono stati banditi: a Merano si viene per guarire, non per morire.
Il fatto è confermato anche dal recente racconto di un anziano albergatore meranese ad un giornale locale: il racconto dell’”armadio dei morti”. La storia è questa: visto che a Merano è vietato morire, ma che nonostante questo si muore, e visto che a volte capita che muoiano addirittura gli ospiti degli alberghi, a Merano ha operato per lungo tempo una speciale ditta di pompe funebri che, per portare via i defunti dagli alberghi, non usa bare, ma un normale armadio ad una sola anta, di un bel legno di noce antico.
   Così la traslazione di una salma assume le sembianze di un normale trasloco e gli ospiti vivi – ancorchè in cura – non si accorgono di nulla.
Merano è una città di cura che nasconde la morte; è una città dove si va per guarire, ma in cui non si fa parola della malattia. Perché la città di cura non vuole essere scambiata per un ospedale, o peggio per un lazzeretto. Così bandisce la malattia, o la ammette solo nella forma del passeggero malessere, dello stess da superlavoro, del logorio della vita moderna da cui ritemprarsi con un bel soggiorno in riva al Passirio.

La Bella addormentata

   A Merano piacciono solo i mali dei ricchi e dei potenti, dei grandi cantanti lirici o degli statisti che di tanto in tanto fanno capolino sulla passeggiata d’inverno o dentro al Kursaal. Sono i mali delle vite troppo piene, che si curano cercando un rifugio, un luogo in cui il tempo sia sospeso e nessuno ti riconosca. Stanchi dei troppi avvenimenti di cui sono protagonisti, cercano un luogo in cui non accada nulla.
   E’ un tipo di turismo, dicono le statistiche, dove vanno bene solo gli alberghi da 4 stelle in su, mentre quelli di categoria inferiore deperiscono. Negli ultimi 20 anni le presenze turistiche a Merano si sono dimezzate, ma nella vita non si può avere tutto.
   Merano è la Bella Addormentata del Sudtirolo, dove nulla accade perché nulla deve accadere. I politici locali a volte si lamentano coi giornalisti: voi non scrivete mai nulla di Merano. Però, quando qualcuno di noi scrive, piovono le smentite: non abbiamo capito nulla, la situazione non è così drammatica, stiamo facendo solo scandalismo. Pubblicheremo le rettifiche, accompagnate da scuse, e a Merano tornerà a non succedere nulla.
   Salvo ogni tanto, Quando un Ferdinand o un Florian qualsiasi escono dal buio e scatenano l’inferno: allora la “città di cura” cade sotto gli occhi del mondo e per qualche settimana si scatena l’uragano. Allora Merano soffre, si interroga, pare disposta a sollevare i suoi tappeti alla ricerca di sporcizia nascosta. Ma l’autocritica dura il tempo della tragedia.
   Passata la tempesta, i tappeti vengono di nuovo deposti sul pavimento, gli armadi dei morti vengono chiusi e tutto viene in fretta dimenticato. Quel Ferdinand veniva da un maso di campagna, era un eremita che aveva vagabondato di valle in valle. E quel Florian, poi, viveva addirittura al di là della montagna: Merano non c’entra, è stata solo la vittima innocente e inconsapevole di una violenza estranea, primordiale, irrazionale.

Lo sgombero degli immigrati

    I problemi del mondo stanno fuori dalla “città di cura” e quando vi irrompono, vengono cacciati via in fretta. Merano è l’unica città del Sudtirolo dove una campagna elettorale si sia aperta con lo sgombero forzato di un accampamento di immigrati. I quali lavorano negli alberghi, ma accampati tutti insieme alle porte della città non sono belli da vedere.
Eppure Merano è stata spesso, in questo secolo, un asilo per persone perseguitate e in fuga. Ha avuto la sua comunità russa in fuga dalla rivoluzione bolscevica, la sua comunità istriana e dalmata (di origine sia italiana che austriaca) in fuga dalla slavizzazione, la sua comunità ebraica in fuga dai pogrom (ma arrivati i nazisti, il rifugio è diventato una trappola).
Ancora oggi, Merano è la prima città in cui una parrocchia (S.Spirito) abbia creato un punto di prima accoglienza per gli immigrati; la prima città in cui le donne abbiano allestito appartamenti protetti contro la violenza casalinga e sessuale; la prima città in cui gentili signore abbiano creato una associazione di “gattare” per l’assistenza dei felini randagi. La città in cui più che altrove le associazioni Scout hanno tenuto viva una tradizione di amicizia e solidarietà tra giovani di tutte le lingue; la città in cui un gruppo di insegnanti ed intellettuali hanno fatto nascere la prima cooperativa bilingue, interetnica e multiculturale del Sudtirolo (Alpha&Beta).    E’ la città dove ha insegnato Alexander Langer e dove per primi gli studenti hanno proposto scambi e incontri tra classi italiane e classi tedesche.
Nella mia immaginazione, Merano è sempre collegata a Viareggio (Toscana) e Abbazia-Opatjia (Istria), città che per storia famigliare ben conosco: stesse regine un po’ in decadenza del grande turismo di inizio secolo, coi loro alberghi liberty fuori misura, la seta alle pareti, l’odore di antico e a volte di ammuffito. Stessa aria sospesa, stessa gente fuori dal tempo, stessi abitanti – gli “indigeni” – che vestono meglio che altrove, s’intendono d’arte più che altrove, hanno familiarità con mondi lontani e ne parlano le lingue più che altrove, si muovono con meno fretta di altrove.
Città che hanno già vissuto tutto e possono concedersi il lusso di non dover inseguire freneticamente più nulla. Le case hanno stanze più alte e più grandi che altrove, mobili più antichi e più preziosi.

Il ballo dei potenti

   Città così rischiano in ogni momento di essere usate come scena per il grande carnevale del potere. Come in quelle feste del Kursaal dove ballano e mangiano e bevono e vengono fotografati e finiscono poi tutti insieme sul giornale della domenica, nell’ordine: l’Obmann del grande partito, il Presidente della grande Provincia, il colonnello della Guardia di Finanza, il grande Scalatore, il caporedattore della TV pubblica, il Direttore del grande giornale, l’Europarlamentare suo parente, il giovane Deputato rampante e il grande Imprenditore suo intimo amico…
   Ma sono anche città più leggere di altre, dove si torna dopo un giro intorno al mondo e il racconto del viaggio può diventare un appuntamento pubblico: una serata dietro l’altra, un viaggio dietro l’altro che poi diventano un libro “on the road” pieno di colori, solidarietà coi fatti del mondo, utopie. Una cosa così può funzionare solo in città come Merano. Città dove la sospensione del tempo può creare un altro tempo, città fuori dal mondo che possono liberare un altro sguardo sul mondo.

Il fifty-fifty della separazione etnica

   Merano, infine, è in Sudtirolo l’unica città del cinquanta e cinquanta: 50% - o poco più – di tedeschi; 50% - o poco più – di italiani. La differenza la fa quel “poco più”.
Finchè il “poco più” era italiano, erano “italiani” il sindaco, le terme, l’ippodromo, e via dicendo. E’ bastato che quel “poco più” diventasse tedesco, e sono d’un tratto diventati “tedeschi” il sindaco, le terme, l’ippodromo, e via dicendo. Merano città del limite, della soglia, del confine interno. 
   Con quel suo fifty-fifty è la dimostrazione vivente dell’assurdità di una società tagliata in due secondo la proporzionale linguistica.
    Quanti non si riconoscono in quelle quote in cui in Sudtirolo si dà ordine al mondo? Sono certo che a Merano i misti e i non allineati sono più numerosi che altrove e, se avessero la parola, potrebbero far scendere entrambi i contendenti ben al di sotto di quel – risicato – 51%.
   Merano è la promessa di una possibile uscita dall’etnocentrismo: città di un possibile disarmo, città dell’incontro, della multiculturalità, del plurilinguismo. Davvero “città di cura”, se trovasse la forza di chiamare per nome la malattia di cui soffre il Sudtirolo – e di guarirla.


o Riccardo Dello Sbarba (Volterra, 1954), insegnante e giornalista,
è collaboratore
in lingua italiana del settimanale
“FF – die Südtiroler Wochenzeitung“ e corrispondente dal Sudtirolo del "Manifesto".

Questo testo fu scritto nel quadro delle iniziative 
del concorso di idee per il progetto di ristrutturazione delle Terme di Merano,
ma è stato cestinato: in questo altro articolo l'autore spiega perché
 

(12 aprile 2000)

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