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Sommario:
Caminiti
e il tricolore. Sini: "Ripristinare il diritto". Gino
Strada a Kabul. Sini:"Colpo di Stato". Appello
per lo sciopero generale. Borghi: lettera a un direttore
di giornale. Vittorangeli: l'orrore e la memoria.
La
voce anarchica di "Germinal".
Umanità Nova: Bush
e Bin Laden.
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LANFRANCO
CAMINITI: "VOGLIO FARE IL CUSTODE DEL TRICOLORE""
Caro
presidente Ciampi,
ho
letto con vivo interesse la proposta di Alleanza nazionale di
istituire
la figura del "custode del tricolore". Erano solo poche righe
di
una breve notizia di cronaca, da cui trasudava un patriottismo alle
stelle
ma corredato di poche indicazioni concrete. Per ora, come lei
saprà,
avendo con vigore partecipato all'abbrivio di questo rinnovato
spirito
di patria, le proposte si sovraccavallano eccitate: c'è chi vuol
distribuire
bandierine agli alunni, chi vuol piantarle su tutte le pizze
margherite
che vengono sfornate, chi sugli elmetti di ogni milite e,
perché
no, sui manganelli tonfa delle forze dell'ordine adibite alle
manifestazioni
di piazza, e chi propone nuovi cocktail autarchici
guarniti
da ombrellini a tricolore. Non è ancora chiaro, dunque, se
questa
figura sarà unica, centrale, qualcosa da affiancare - in
turnazione
lavorativa, per quello che la flessibilità oggi può
permettere
- ai soldati che vigilano sul sacro fuoco all'Altare della
Patria
o se invece sarà una figura federale, decentrata, che stia in
ogni
comune d'Italia o addirittura ovunque sventoli una bandiera. In
quest'ultimo
caso, lei converrà, si allieverebbe anche un problema di
disoccupazione.
Ci potranno essere custodi del tricolore appesi ai
balconi
dei palazzi istituzionali o da issare su tutti i pennoni che lo
necessitano,
corpi italici sventolanti nelle caserme e nelle scuole,
nelle
case e negli uffici, sulle gru di tutti i cantieri edili, purché
vengano
ben imbracati e non caschino giù, come si mormora spesso accada
a
incauti muratori. Si potrebbe addirittura ipotizzare un alzabandiera
quotidiano
da svolgere ovunque un italiano si trovi, magari in
comitiva,
alla stessa ora, tutti come un sol uom. Immagini che tripudio.
Insomma,
tricolori a iosa, e custodi del tricolore a strafottere. E
probabilmente,
lei, che è così attento alle questioni del lavoro
italiano,
riassumendo i caratteri del governatore di banca che è stato,
propenderà
per questa soluzione. Nella mancanza di riferimenti
istituzionali
certi e nell'attesa della pubblicazione sulla "Gazzetta
ufficiale"
scrivo dunque a lei. In ogni caso, io credo, vi saranno dei
concorsi,
per vagliare e valutare i meriti e le attitudini degli
aspiranti
che, un po' per il patriottico entusiasmo che attraversa il
nostro
suol e un po' per tirare a campare, presumo saranno numerosi.
Come
ogni concorso che si rispetti, si può prevedere fin d'ora che esso
sarà
per esami e titoli.
Io
voglio fare il custode del tricolore. Anch'io un po' perché travolto
da
insolita passione e un po' - le confesso - per mettere ordine in una
vita
lavorativa scombinata per cui a cinquant'anni, con l'agognata fine
del
posto fisso che ha fiaccato per decenni l'indomito e laborioso
carattere
italico, rimango però per mesi inoperoso e con una vecchiaia
che
incombe, dove mi ritroverò senza uno straccio di pensione. E quindi,
prevenendo
le indagini dei carabinieri che setacceranno il mio albero
genealogico
per attestarne purezza e limpidità per l'alto compito, ho
pensato
fare cosa utile a loro - e avvantaggiarmi rispetto gli altri
innumeri
concorrenti - nel presentare da me i miei titoli (agli esami,
già
lo so, sarà dura: perché, vede, io la guerra riesco pure
a capirla,
ma
la retorica guerrafondaia, quella, mi si mette di strozzo). Dovrò
parlarle
della mia famiglia e dell'amor di patria che vi alligna.
Mio
padre - che è mancato da qualche anno - ha combattuto in Africa.
Ci
era
andato sacrificando un po' le sue ambizioni e preso da un ruolo di
responsabilità
verso i fratelli più piccoli, dopo la morte del padre. Il
soldo
non era chissachè ma a quei tempi garantiva - insieme ai mille
mestieri
di mia nonna e all'abitudine di tirar la cinghia propria di chi
è
nato povero - un minimo di sicurezza: dei fratelli, lui riuscì a
farne
studiare
più d'uno e ne era molto orgoglioso. Per questo, partì per
l'Affrica,
come si diceva allora. Lì, a un certo punto, fu catturato
dagli
inglesi e si fece quattro anni di campo di prigionia in Kenya mi
pare
o Etiopia, che non era cosa tenera. Ne aveva riportato mucchi di
foto
e ostinate abitudini, come quella - che faceva disperare mia madre
che
c'è diventata stitica - di chiudersi in bagno al mattino prestissimo
e
lavarsi per ore accuratamente con poca acqua: c'erano foto di lui in
Africa
che si radeva o faceva le abluzioni con un catino, contornato da
uomini
e bambini neri che ridevano a tutti denti: io penso fosse un
aggrapparsi
alle minuzie per non lasciarsi andare, un dare esempio
d'ordine
alla truppa e una sfida alla brutalità degli inglesi. Ne aveva
anche
riportato un grande amore per quel continente e le sue genti, un
rispetto
verso la loro mitezza e verso il loro coraggio: mi raccontava
episodi
di guerra in cui soldati ascari balzavano dalle trincee sfidando
le
pallottole che dopo riti magici sapevano deviare dai loro corpi:
trovavano
fosse una viltà sparare da lontano contro i nemici e chissà
cosa
penserebbero dei grandi strateghi americani che ormai le guerre le
fanno
solo bombardando perché si cacano sotto allo scontro diretto
(presidente,
ammetterà che questi americani sono strani: parlano di
"crescita
zero", "tolleranza zero", "Ground zero", e per questa guerra
di
"morti zero": qualcuno dovrebbe spiegargli che dicendo così finiscono
con
il rinfocolare certi sciocchi sciovinismi arabi, che si papariano
sempre
di avere inventato la matematica, di essere andati oltre lo zero,
da
1 a 9). Ne aveva anche riportato un grande amore verso la loro
bellezza:
mi diceva di non aver mai visto donne e uomini più belli. E a
guardar
le foto c'era da credergli. Ne riportò anche una radicata
convinzione
che le guerre, d'occupazione, di conquista, d'aggressione o
che,
fossero un male terribile, per chi le subiva e per chi le faceva.
Non
era mai stato fascista se non come buona parte dei connazionali ma
aveva
molto creduto nell'esercito: e credo che qualcosa gli si ruppe
dentro
quando seppe di come il generale Graziani aveva usato i gas in
Africa,
ci hanno fatto pure un film, non so se lei lo ha visto in una
saletta
privata del Quirinale, perché in Italia non ha mai trovato
distribuzione,
e glielo consiglio, anche a sua moglie che sembra tanto
una
persona perbene, e magari si capiscono meglio certe parole perché
non
è che noi italiani siamo stati sempre "brava gente": potremmo
chiedere
scusa per certe "imprese" - sa, l'Abissinia, la Libia 1 e la
Libia
2, insomma tutto quell'ambaradan lì -, che sarebbe pure un bel
gesto
e ci faremmo una gran figura a dare l'esempio ai francesi, agli
inglesi
e pure ai belgi, che di porcate ne han fatto un po' dappertutto,
e
questo non toglierebbe una virgola alla lotta al terrorismo, anzi;
ormai
anche il papa chiede scusa, che pure loro, via, di cose da farsi
perdonare
ne hanno, eccome. Si può immaginare quanto profonda fosse la
delusione
di mio padre al ritorno in patria, quando si sentì abbandonato
al
suo destino. Non so se per questa delusione o per qualche suo
maturato
cambiar di rotta, fece il maestro per tutta la vita, con
passione
e rigore. Ogni tanto, come capita a tutti quelli che
invecchiano,
lo acchiappava la nostalgia della sua giovinezza e
dell'Affrica
- cosa che io non capivo proprio bene e riducevo solo a un
lungo
periodo di prigionia. Negli ultimi tempi si era un po' sbattuto
per
rintracciare vecchi compagni d'avventura, commilitoni o che avessero
comunque
condiviso quell'esperienza. Non per amor di patria, ché la
patria
gli dava 248.000 (duecentoquarantottomila) lire - una tantum -
una
volta l'anno, per la sua "impresa coloniale". Ma per sé, per
rispetto
di sé. Adesso, sul mio comodino ho la sua foto in divisa
coloniale,
tutta bianca, con una bella bandolera che gli attraversa il
petto.
E' proprio un bel giovane e d'altronde mia madre non ha fatto
altro
che rimproverarmelo tutta la vita di non essere mai stato bello
come
lui.
Lo
zio Filippo invece aveva fatto quella Grande di guerra, e bastava
chiedergliene
e stargli vicino qualche minuto per capire quanto grande
fosse
stata quella guerra. Lo zio Filippo non apparteneva al mio sangue
ma
a quello di mia moglie, eppure l'ho sempre sentito come fosse mio,
sarà
perché è vero che poi uno le parentele se le sceglie. Era
un
contadino
lo zio Filippo, e aveva tutte le mani storte dall'artrite e
dalla
fatica dei campi; ma era dritto come un fuso, anche da vecchio,
con
la sua testa bianca sempre viva, gli occhi che ti scrutavano
vincendo
la cataratta, i suoi baffi ingialliti di mezzi toscani, la sua
catena
d'orologio che gli attraversava il panciotto, un uomo fiero. Era
stato
un coraggioso in guerra lo zio Filippo, un ardito, aveva avuto
delle
medaglie, e nella sua cameretta - un letto, un comodino e una
lampadina
da venticinque watt appesa con un filo elettrico nudo nudo al
soffitto
- c'era inchiodato non ricordo che attestato. C'è chi ha
scritto
che il coraggio non è una virtù morale perché si può
essere
coraggiosi
per caso, e forse ha ragione, ma lui lo era d'animo, perché
si
era battuto non solo nelle trincee ma nelle campagne, dopo, per i
diritti
dei contadini: e non doveva essere stata una lotta meno dura e
cruenta,
neanche quando dovette fare i conti con i latifondisti,
fascisti
e mafiosi. Era stato a Caporetto ma non ne parlava volentieri,
solo
a stargli vicino "capivi", con quel suo agitare le mani e smuovere
la
testa, quale dramma fosse stato, e la spagnola dopo, quella la
raccontava,
che si moriva come mosche. C'andavamo in campagna da lui
quando
era tempo dei fichi neri che gli venivano belli grossi o quando a
san
Martino si spillava il vino dalle botti e si mangiavano le castagne
ed
era una festa grande e lui si metteva seduto come un patriarca e
guardava
tutti quei bambini che correvano e gridavano e i figli e le
loro
mogli e i nipoti e le loro mogli, e io gli chiedevo della guerra e
lui
muoveva quelle mani tutte storte e quella sua testa bianca. Ora la
campagna
è abbandonata o quasi, c'è rimasto solo Mitri che ci rimane
perché
non ha mai fatto altro nella vita e quest'estate ci siamo andati
e
ci siamo seduti sotto gli ulivi come dandoci importanza, ma le cose
ormai
sono scivolate via, come forse è giusto che sia. Era stato un
socialista
lo zio Filippo, questo s'era portato dietro dalla guerra, un
socialista
proprio di quelli che hanno fatto il novecento e reso un po'
più
degno questo paese di raccontare la sua storia.
Per
questo non correva buon sangue con mio suocero, don Pietro, che
invece
la guerra - la seconda - l'aveva vissuta con baldanza e aveva
fatto
l'Albania e aveva spezzato le reni alla Grecia e teneva l'elmetto
da
soldato nell'ingresso della sua casa e andava tutti gli anni a
Redipuglia,
al Sacrario dei caduti, quando ancora ce la faceva,
organizzando
il pullman con i suoi vecchietti, e poi, quando gli venne
troppo
faticoso partire, facevano la cerimonia al cippo dei caduti nella
piazzetta
del paese, lui in testa portando non so che stendardo e la
banda
- cinque elementi cinque - dietro. C'è in tutte le piazzette dei
paesi
d'Italia il cippo dei caduti per la patria e io quasi ovunque me
li
sono letti quei cippi, con quei lunghi elenchi di nomi e di vite
giovani
che ti stringe il cuore per come sono abbandonati, bisognerebbe
portarci
gli alunni delle scuole elementari a leggerli quei nomi scritti
nel
bronzo, uno per uno, e farglieli lustrare col sidol e imparare a
memoria,
come le tabelline, per odiare le guerre. Erano proprio due
caratteracci
lo zio Filippo e don Pietro, e con quei testoni di
contadini
che si ritrovavano finì che non si parlarono per anni. Però,
negli
ultimi tempi a don Pietro, che era democristiano ma buon
cattolico,
a furia di guardare la tivvù gli aveva preso non so che
preoccupazione
per il mondo, che era diventato troppo violento e
traversato
dalle guerre, e s'era messo a spedire i soldini della sua
pensione
a tutti i moduli di conto corrente che trovava in "Famiglia
cristiana"
o nei giornaletti di chiesa che gli arrivavano a casa: e vai
con
le Ancelle riparatrici del cuore dai sette pugnali della Vergine
Maria
che stanno a Timor est o con i Fraticelli poveri della porziuncola
dell'Orto
del Gestsemani che stanno a Gerusalemme - c'era pure andato a
Gerusalemme
a pregare per la pace -, che tutte le figlie non sapevano
come
fare a nascondergli le riviste, preoccupate che restasse senza un
soldo,
così ci si mise d'accordo con il postino che le consegnassero
prima
a loro, che gliele filtravano, cioè gli staccavano via i moduli
dei
conti correnti da riempire. Epperò lui ci andava lo stesso alla
posta,
così finì che gliela sequestrarono la pensione, neanche tutta
però,
e quel poco che restava lui continuava a spedirla, alle Sorelle
immacolate
di Calcutta o all'Ordine beato di Giakarta. Una volta anche
ad
Amnesty international. Era convinto di quel che faceva e io me ne
accorgevo
perché l'elmetto che stava nell'ingresso s'era tutto
impolverato
con le ragnatele pure, così lo misi in cantina e lui non mi
disse
nulla, non so se perché non se n'era neppure accorto o perché
non
gliene
fregava più niente. All'orazione funebre - sono delegato, e per
me
è un onore non da poco, a quasi tutti i discorsi di matrimonio
o di
funerale,
da tutta la famiglia, grande tanto da riempire una chiesa,
perché
ormai siamo ai bisnipoti che sono già coi pantaloni lunghi -
dissi
qualche parola su questo combattente, da cui mi aveva diviso quasi
tutto
nella vita, benché avesse tanto affetto per me, e su quel suo
piccolo
fare per la pace degli ultimi anni, risibile forse ma
determinato
come il resto dei suoi giorni. Avevamo scambiato qualche
parola
sulla guerra in Kosovo - lui conosceva l'Albania - ed era triste
per
quanto succedeva, non lo capiva, non riusciva a inquadrarlo neppure
nei
sui valori di combattente, se mai gliene fossero rimasti. In chiesa
parlai
di quella assurda guerra e di come questo ardore militare fosse
veleno
delle nostre vite. Mi sembrò un buon saluto per don Pietro.
Sembrò
anche al prete che officiava e che volle abbracciarmi, mettendomi
in
imbarazzo.
Caro
presidente Ciampi, questi sono i miei titoli acquisiti - i miei
propri
sono davvero poca cosa e forse è meglio sorvolare - senza meriti
diretti
ma solo perché ne porto memoria: le indagini dei carabinieri non
potranno
che confermare. Se è proprio necessario posso risalire anche
più
indietro nel tempo, ho pure un trisavolo che combatté con Murat
e
che
quel vigliacco del re di Napoli rinchiuse alla Favignana dove ci
morì
- ci dev'essere un qualche tarlo strano nel nostro sangue che ci
porta
tutti in galera. Io spero tornino buoni questi titoli per il
concorso
a custode del tricolore, che vorrei proprio fare: glielo devo,
a
mio padre, allo zio Filippo, a mio suocero e anche al trisavolo. Agli
esami
mi arrangerò, che in questo noi italiani siamo bravi. Sa, io non
credo
di avere avuto la fortuna di conoscere uomini particolari o
straordinari:
sono storie qualunque e forse se ciascuno chiede al
proprio
nonno o al proprio zio o al vicino della porta a fianco che è
tanto
anziano salterebbero mille storie come quelle che ho appena
raccontato,
proprio come si fa quando le maestre assegnano il compito
per
casa e bisogna fare le interviste. Se può, se i suoi compiti
istituzionali
glielo consentono, lo dica lei alla Moratti di invitarli
tutti
nelle scuole, a parlare coi bambini, questi nostri vecchi che
hanno
fatto le guerre; e che metta come testo obbligatorio da commentare
un
libro come le "centomila gavette di ghiaccio" di Mario Rigoni Sterne
sergente
della campagna di Russia, che l'ho letto che ero alto un
palmo,
dalla biblioteca di papà, oppure faccia vedere un film come
"Mediterraneo"
che c'ha dato tanto lustro nel mondo e c'abbiamo pure
vinto
l'Oscar. Gli italiani non amano le guerre e pure si trovano sempre
governati
da tronfi imbecilli che ce li spingono alle guerre, per i
territori
irredenti, per le colonie, per l'impero, per sedersi al tavolo
dei
grandi, per l'occidente, per chissà quale cazzo. E sarà per
questo
che
poi noi quelle guerre finiamo sempre per farle male e concluderle
peggio,
mentre invece ci riescono bene quelle in casa, quando si tratta
di
cacciare via austriaci e borboni, pontifici e tedeschi, barbari e
lanzichenecchi
- al gioco del calcio, è noto, noi eccelliamo nel
contropiede.
A volte ci riescono bene pure quelle contro i barbari e
lanzichenecchi
che produciamo in proprio. A volte li mandiamo via o li
buttiamo
giù. Perché, in fondo al cuore, a questa benedetta Italia
ci
teniamo,
sa?
Roma,
11 novembre 2001
PEPPE
SINI: FERMARE LA GUERRA E RIPRISTINARE LA VIGENZA DEL
DIRITTO
INTERNAZIONALE PER LOTTARE CONTRO IL TERRORISMO
(dal
Foglio di approfondimento "La nonviolenza in cammino", Direttore responsabile:
Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo,
tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it)
Occorre
fermare la guerra e ripristinare la vigenza del diritto
internazionale
per lottare contro il terrorismo.
Fermare
la guerra: far cessare le stragi, salvare le vite umane innocenti
che
stanno morendo sotto le bombe e di stenti.
Fermare
la guerra: prima che diventi una conflagrazione mondiale senza
fronti
e senza regole, un terrorismo generalizzato che puo' mettere fine
alla
civilta' umana: sappiamo tutti che esistono armi di sterminio di massa
sufficienti
a distruggere la gia' intaccata biosfera non una ma piu' volte.
Sappiamo
tutti che dopo Hiroshima ogni guerra puo' essere l'innesco
dell'apocalisse.
Fermare
la guerra: perche' essa si sta trasformando hic et nunc in un
genocidio.
Perche' essa sta imbarbarendo il mondo. Perche' essa sta
istigando
tutti gli esseri umani del mondo alla pedagogia della violenza,
alla
legge del taglione, all'uccidere come supremo regolatore di ogni
conflitto.
Perche' essa sta rendendo ogni giorno piu' grande e piu' forte il
terrorismo
come pratica e come ideologia.
Riristinare
la vigenza del diritto internazionale: perche' dove non vi sono
leggi,
c'e' una legge sola: quella della giungla, la legge del piu' forte
che
sbrana e divora il piu' debole.
Ripristinare
la vigenza del diritto internazionale: perche' gli stati la
smettano
di essere imitatori e complici dei gruppi criminali; perche' gli
stati
la smettano di essere terroristi; perche' gli stati la smettano di
uccidere
gli esseri umani invece di difenderne la vita, la dignita', i
diritti.
Ripristinare
la vigenza del diritto internazionale: perche' senza di cio'
l'umanita'
e' destinata a soccombere sotto la furia delle armi, del terrore,
della
guerra.
Per
lottare contro il terrorismo: che va affrontato e sconfitto con gli
strumenti
del diritto, della legalita', della democrazia.
Per
lottare contro il terrorismo: che va perseguito per quello che e': un
atto
criminale di organizzazioni criminali; che va quindi combattuto con
operazioni
di polizia e procedure giudiziarie. In relazione alle stragi
dell'11
settembre occorre dunque un'operazione di polizia internazionale
sotto
l'egida dell'Onu e un tribunale penale internazionale che giudichi e
condanni
i responsabili.
Per
lottare contro il terrorismo: per affermare tutti i diritti umani per
tutti,
per ogni essere umano, per l'umanita' intera.
Consentiamo
un futuro all'umanita': solo con la pace e' possibile.
IL
MANIFESTO VAURO SENESI INTERVISTA GINO STRADA
[Questa
intervista e' apparsa sul quotidiano "Il
manifesto" dell'11
novembre.
Vauro Senesi e' giornalista e noto vignettista; Gino Strada,
chirurgo
e fondatore di Emergency, ha raggiunto l'ospedale da lui fondato a
Kabul.
Per informazioni costantemente aggiornate: www.emergency.it]
Gino
Strada e' a Kabul. Li', da domani, l'ospedale di Emergency sara'
operativo.
Con lui ci sono altri due italiani, Fabrizio Lazzaretti e Alberto
Vendemmiati,
autori di Jang (fotogrammi del filmato girato nel viaggio dal
Panshir
alla capitale sono disponibili sul sito di Emergency). Gli unici
occidentali
a Kabul. La riapertura dell'ospedale e' un segnale di civilta'
nella
citta' martoriata dai taleban e dai bombardamenti. Dimostra che un
messaggio
diverso dalla guerra e' possibile e necessario. Lo abbiamo
raggiunto
telefonicamente.
Vauro
Senesi: Quattro giorni fa ti ho lasciato nel Panshir, ora sei a Kabul.
Gino
Strada: Emergency non puo' non essere a Kabul oggi. Per ragioni che non
hanno
niente a che vedere con la politica, ma con il fatto che in questa
citta'
c'e' gente che soffre, che muore per una guerra. Questa ragione e'
piu'
che sufficiente per essere qui.
V.
S.: Per raggiungere Kabul hai dovuto attraversare le linee del fronte
Nord.
Cosa mi puoi raccontare di questo viaggio?
G.
S.: Il tipico viaggio afghano, con tutti gli accordi presi intorno a
interminabili
tazze di te', in cui si arriva perfino a definire l'ora del
passaggio
del convoglio e il colore delle macchine. Bisognava informare
anche
chi stava volando sulle nostre teste. Siamo arrivati al fronte e
tutti,
regolarmente, stavano sparando, da una parte e dall'altra. Era in
corso
un bombardamento, e' durato tre ore, colpendo esattamente la strada
che
dovevamo percorrere.
V.
S.: La strada che stava percorrendo il vostro convoglio umanitario e'
stata
bombardata nonostante tutti fossero stati avvisati del vostro
passaggio?
G.
S.: Ci era stato garantito dai responsabili dell'Alleanza del Nord che
i
comandi
militari americani sarebbero stati avvisati del nostro passaggio.
V.
S.: Avviso senza effetti?
G.
S.: Si'... ma non vorrei fare polemiche. Sarebbe stupido aspettarsi il
rispetto
delle regole nella guerra. La guerra e', per definizione, l'assenza
di
ogni regola.
V.
S.: Sei l'unico occidentale ad aver visto gli effetti dei
bombardamenti...
G.
S.: Non li ho visti direttamente, ma lo staff Emergency afghano, mentre
veniva
a prenderci al fronte, ha visto in un villaggio bombardato, sulla
strada
per Tagab, raccogliere pezzi di membra umane. Abbiamo avuto conferma
di
almeno tre persone uccise da una bomba in una sola casa di quel
villaggio.
Abbiamo girato con le auto intorno a molti crateri freschi di
bombe.
Dall'aeroporto di Bagram, la strada e' una pista sabbiosa che si
ricongiunge
a quella asfaltata che porta a Kabul. La' non c'e' piu' niente.
I
pochi accampamenti di pastori e nomadi sono scomparsi. E' una zona
martellata
dai bombardamenti ogni giorno.
V.
S.: Raccontami l'ingresso a Kabul.
G.
S.: La quantita' di vittime e' impressionante.
V.
S.: Quindi e' una citta' ancora molto abitata? Alcuni sostengono che a
Kabul
ci sarebbero solo i taleban.
G.
S.: Sono coglionerie che mette in giro chi probabilmente pensa che Kabul
sia
nelle Filippine. A Kabul in questo momento ci saranno 800 mila, un
milione
di persone. Viene bombardata da un mese e nessuno pensa che anche
questo
possa essere un atto di terrorismo.
V.
S.: Ricordo Kabul a marzo, era gia' una citta' di macerie. Adesso?
G.
S.: E' difficile per chi ci ha passato quasi cinque anni della propria
vita
notare la differenza tra venti case in piu' o in meno. La gente pero'
e'
allo stremo. C'e' l'oscuramento, la contraerea e' incessante, i bambini
non
dormono piu'. Non vorrei augurare ai figli di mia figlia di vivere
esperienze
del genere. Anche in questo momento bombardano.
V.
S.: Oscurato anche l'ospedale?
G.S.:
Si'.
V.
S.: Non e' rischioso che non sia riconoscibile dall'alto?
G.
S.: Non poco. Domani andremo a rinegoziare. Ma per stasera c'e' un ordine
preciso
di oscuramento totale.
V.
S.: Come sei riuscito a convincere i taleban a farti riaprire l'ospedale
che
eri stato costretto a chiudere a maggio per una loro incursione armata?
G.
S.: Il primo contatto con il ministro degli esteri taleban l'ho avuto il
12
settembre, quando era chiaro che ci sarebbe stato un attacco militare
all'Afghanistan.
La proposta di Emergency e' stata: abbiamo avuto e abbiamo
divergenze,
forse insanabili, su molte questioni, pero' qui si profila un
disastro
umanitario e il nostro ospedale e' l'unico in grado di curare i
civili
gratuitamente e bene. Riapriamolo, accantoniamo problemi e divergenze
per
tre mesi. Quando il periodo di crisi sara' finito ricominceremo a
parlarne.
Allora, probabilmente, saremo tutti diversi, quindi ne parleremo
in
modo diverso. La settimana scorsa c'e' stato l'invito del mullah Omar,
e
il
viceministro degli esteri ha dato anche disposizioni al ministro della
difesa
di inviare suoi rappresentanti al fronte per guidare il nostro
convoglio.
V.
S.: Che garanzie di protezione vi hanno dato rispetto ai cosiddetti
"arabi",
la legione straniera taleban?
G.
S.: Nessuna. Questa e' una delle ragioni che rende la cosa molto
rischiosa.
Non ci sono altri occidentali a Kabul, siamo molto ben
identificabili.
V.
S.: Potete circolare nella citta'?
G.
S.: Solo nel tragitto casa-ospedale.
V.
S.: Ma la casa e' di fronte a un'abitazione degli "arabi"...
G.
S.: Si', ma ora i dirimpettai sono al fronte. Non ne sentiamo la
mancanza.
V.
S.: Al di la' del suo valore umanitario, la vostra iniziativa dimostra
anche
che interloquire con il "nemico" e' possibile.
G.
S.: Non faccio il politico. Credo ci siano due modi per affrontare una
situazione
internazionale cosi' grave: uno e' la guerra, l'altro e' il
dialogo.
Io credo nel dialogo. Il dialogo e' possibile, e' una cosa che si
costruisce
soltanto se e' preceduta dal rispetto, dimostrando che per te il
fatto
che chi hai di fronte sia vivo o morto non e' indifferente. L'opposto
della
logica "dead or life". La ragione per cui noi stiamo qui non e' che ci
stanno
simpatici i taleban, ne' i moujaehddin quando eravamo in Panshir.
Siamo
qui perche' qui gli ospedali non hanno medicine ne' cibo da dare ai
bambini.
V.
S.: Non voglio tirarti dentro polemiche, sono tornato da poco e ho
trovato
un paese piu' imbarbarito. Ma oggi sono andato a una manifestazione,
tanta
gente per il no alla guerra. Molti portavano lo straccio bianco della
campagna
Emergency. Vuoi dire loro una parola?
G.
S.: Voglio soltanto dire che mi sarebbe piaciuto esserci, e mi piacera'
essere,
in futuro, a tutte le manifestazioni contro la guerra. Non abbiamo
davvero
alternative. Il movimento per la pace non e' soltanto l'unico che
puo'
rendere il mondo piu' bello da vivere, e' anche l'unica strategia
possibile
per restare vivi.
PEPPE
SINI: UN COLPO DI STATO
Proviamo
a riassumere alcuni fatti caratterizzanti la situazione italiana
odierna.
-
Le recenti elezioni politiche, dopo le catastrofiche gesta dei governi
della
precedente legislatura, hanno portato al potere una coalizione di
personaggi
in rapporti con poteri occulti, mafia e corruzione, di persone di
formazione
neofascista, di razzisti e teppisti responsabili di infamie
indicibili.
-
Questo governo gestisce il G8 a Genova: ed e' un massacro (certo, anche
per
l'irresponsabilita' degli organizzatori della contestazione).
-
Il governo in questi mesi approva e fa approvare dalla sua maggioranza
parlamentare
una serie di leggi stupefacenti, a dir poco scellerate e
criminogene:
si legalizzano i reati, si ostruisce l'attivita' della
magistratura,
si favoreggia sfacciatamente il boss della coalizione; e si
progetta
la sistematica demolizione di quel che resta dei servizi pubblici e
dei
diritti sociali, si preparano provvedimenti in aperta violazione di
diritti
umani fondamentali. Si arriva al punto di proclamare che occorre
convivere
con la mafia.
Poi
avviene l'orrore dell'11 settembre, il mondo intero trema. A quelle
stragi
segue lo scatenamento insensato di una guerra illegale e criminale,
che
fa strame del diritto internazionale e della civilta' giuridica, azzera
l'Onu,
aggiunge stragi alle stragi, e sta provocando un'escalation verso una
guerra
mondiale che puo' mettere fine alla civilta' umana.
Il
governo italiano non solo rinuncia ad impegnarsi per la pace e il diritto
internazionale,
ma decide di avallare la guerra, e addirittura di prendervi
parte.
E
qui si e' passati all'alto tradimento della Costituzione della Repubblica
Italiana
che all'articolo 11 questa guerra e la partecipazione italiana ad
essa
dichiara illegale e inammissibile.
Qui
si e' passati al colpo di stato, che non cessa di essere tale per il
mero
fatto che un pezzo di opposizione parlamentare insipiente o
irresponsabile
o corrotta, e un capo dello Stato fedifrago, sono stati
complici
del golpe; o per il mero fatto che un crimine analogo fu commesso
gia'
due anni fa dal gabinetto D'Alema.
Questi
ci sembrano essere i dati di fatto salienti della situazione italiana
attuale.
E quest'ultima costellazione di fatti: la violazione della
Costituzione,
la guerra, le stragi in corso, il pericolo per l'umanita'
intera,
ci sembra essere dirimente e ineludibile.
-
C'e' o no materia perche' il potere giudiziario intervenga contro i
golpisti?
-
C'e' o no materia perche' il popolo italiano si levi in difesa della
legalita',
della Costituzione, dell'ordinamento giuridico, dello stato di
diritto,
delle istituzioni, della democrazia, della civile convivenza?
-
C'e' o no materia per chiamare alla resistenza nonvioolenta contro la
guerra
e in difesa delle leggi, e della fondamentale delle leggi italiane su
cui
tutto il nostro ordinamento si regge, la Costituzione della Repubblica
Italiana?
-
C'e' o no materia per chiedere l'impegno di tutte le persone di volonta'
buona
per la salvezza delle vite umane innocenti in pericolo, e sono milioni
di
vite umane; e per la salvezza dell'intera umanita' minacciata da una
guerra
che puo' provocare una catastrofe planetaria?
Lo
chiediamo a chi ci legge, ma per quanto ci riguarda lo sosteniamo ad alta
voce.
APPELLO
PER UNO SCIOPERO GENERALE CONTRO LA GUERRA
[Dal
Cobas Inpdap (migliori@tiscalinet.it)]
L'Italia
ripudia la guerra.
Sciopero
generale.
L'Italia
e' in guerra; dobbiamo ragionare su questa decisione
incostituzionale
presa a larga maggioranza dal Parlamento, violando le
stesse
leggi della democrazia.
Dobbiamo
capire che cosa si sta decidendo, dobbiamo farlo con onesta' morale
ed
intellettuale aprendoci al confronto delle idee, ma dobbiamo produrre
iniziative
per pretendere il ripristino della legalita' per continuare a
sperare
in un nuovo mondo possibile.
La
risposta del mondo del lavoro e del non lavoro e' stata finora
inadeguata.
Il
sindacalismo di base e le sinistre sindacali interne al sindacato
confederale
non riescono ad articolare iniziative unitarie di fronte al
nuovo
scenario della competizione globale che i signori della guerra e della
finanza
spingono a pericolosi arretramenti generali della condizione
sociale,
della tenuta della democrazia ed degli equilibri ambientali.
E'
necessario rispondere con un'iniziativa unitaria costruendo una giornata
di
lotta con sciopero generale in grado di coinvolgere tutti i cittadini e
i
lavoratori
che sono contrari alla guerra, creando coscienza oltre il nostro
cortile
di casa, facendoci aiutare dalla memoria per creare una nuova unita'
tra
realta' diverse che non sono disponibili a subire la guerra.
FRANCO
BORGHI: LETTERA A UN DIRETTORE DI GIORNALE
[Franco
Borghi e' impegnato per la pace e la difesa della Costituzione;
abbiamo
tolto i riferimenti ad personam poiche' ci pare che la sua lettera
possa
purtroppo valere anche per altri quotidiani italiani]
Egregio
direttore,
sono
tanti anni che la seguo e che leggo con interesse ed arricchimento
personale
i suoi articoli, sempre lucidi, motivati, stimolanti. Trovo in lei
un
punto di riferimento politico-culturale importante anche se non
esclusivo.
E'
per questo che sono rimasto sbalordito e profondamente addolorato e
tristemente
deluso del suo articolo di fondo di oggi.
Non
avrei mai immaginato che lei potesse dire delle assurdita' cosi'
grosse
a
proposito della guerra al terrorismo e dei pacifisti.
Se
c'e' una bugia enorme che circola ora e' proprio la favola, triste e
dolorosa,
della guerra al terrorismo, perche' ormai lo sanno anche gli USA
che
non arriveranno al risultato di combattere ed annullare il terrorismo,
i
terroristi,
che si annidano ovunque.La grande bugia e' questa guerra, la
grande
ipocrisia e' pensare che questa guerra serva alla sconfitta dei
terroristi.
Che
senso ha dire che e' importante inviare 2.700 soldati italiani per
conquistarsi
"un posto a tavola" della politica internazionale? Questa si'
che
e' ipocrisia. Quindi i nostri soldati vanno per conquistare un posto
a
tavola!
Che
senso ha approvare l'intervento in Afghanistan, con il nostro esercito,
e
poi raccomandare - somma ipocrisia - che si faccia in modo da limitare
le
sofferenze
degli afghani innocenti ed ignari, donne, bimbi, anziani,
invalidi,
miserevoli creature affamate e malate. Grande immensa ipocrisia di
cui
ci si dovrebbe solo vergognare.
Che
senso ha elogiare il Presidente della Repubblica per la sua attivita'
mediatrice
onde "tutelare la corretta applicazione delle regole
costituzionali"
quando la Costituzione dice proprio che non dobbiamo fare
guerre?
Altra grande ipocrisia.
Ma
intanto la gente muore.
Infine,
e' ora di smetterla di far passare i pacifisti come gente che non
vuole
combattere i terroristi afghani. Tutti i pacifisti sono contro i
terroristi.
Tutti i pacifisti hanno provato dolore per i morti delle due
torri
di New York. E lei lo sa benissimo.
Tutti
coloro che sono contro la guerra, contro questa guerra, sono
d'accordo
nella necessita' di combattere i terroristi, scovarli, ridurli
all'impotenza
e condannarli.
Perche'
i giornali e le televisioni su questo punto mentono? E anche il suo
giornale
mente e inneggia alla guerra con titoli da circo equestre...
Mia
nonna diceva: il diavolo insegna a fare le pentole, ma non i coperchi.
Verra'
giorno che queste cose verranno a galla.
GIULIO
VITTORANGELI: L'ORRORE E LA MEMORIA
[Giulio
Vittorangeli e' impegnato da sempre nella solidarieta'
internazionale]
Camera
e Senato hanno votato, a larga maggioranza, l'invio dei soldati
italiani
in Afghanistan.
Lasciando
da parte i deputati del centro-destra, non minimamente scalfiti
dai
dubbi sulla guerra (per loro la differenza tra "terroristi" e "danni
collaterali",
varia a seconda se sei tu che tiri le bombe, o le prendi in
testa),
forti dell'arroganza di chi possiede sempre la "chiave" in grado di
spiegare
tutto; ci chiediamo (forse ingenuamente) quando si risvegliera' la
coscienza
di quei deputati del centro-sinistra che hanno votato per la
guerra
(magari solo per disciplina di partito): dopo aver bombardato tre
ospedali
afgani? Oppure quattro? O quando il bilancio di vittime afgane
sara'
pari a quello delle Torri Gemelle? Quanti civili deve uccidere un
politico
cristiano guerrafondaio prima di avere un ripensamento? Eppure la
sofferenza
e la morte di innocenti, per mano di terroristi o sotto le bombe,
non
hanno confini, bandiere, lingue, culture: si manifesta sempre nella sua
oscena
rappresentazione di distruzione, di annullamento.
Dopo
questo voto quasi unanime di camera e senato (senza neanche piu' una
minima
traccia di quella tensione che pure in precedente occasioni aveva
testimoniato
di una volonta' di rifiuto della guerra da parte di una
consistente
minoranza parlamentare), e' stato, intorno a noi, un rifiorire
di
patriottismo e nazionalismo. Dimenticando che patriottismo e nazionalismo
quasi
sempre hanno covato i germi di ogni estremismo, che tanti drammi hanno
causato
nella storia dell'umanita'. Pensiamo al loro ripudio nelle belle
pagine
di "Signora Auschwitz. Il dono della parola" di Edith Bruck (Marsilio
Editore,
1999). Assistiamo ad una sconvolgente perdita della memoria, resa
ancora
piu' drammatica dalla rilegittimazione della guerra come risoluzione
delle
controversie internazionali.
Ci
dicono che per sconfiggere il terrorismo (quale? Quello "dall'alto", per
cosi'
dire, cioe' dello Stato o comunque delle forze egemoni; o quello "dal
basso",
quello agito dai disperati; oppure il terrorismo di Bin Laden?)
occorre
la guerra.
Allora,
ci chiediamo e domandiamo, chi ha scritto le pagine della nostra
Costituzione,
della Carta delle Nazioni Unite, e di tutte le altre
Costituzioni
che bandivano la guerra, erano solo delle "anime belle"? od era
stata
piuttosto la consapevolezza maturata sulle atrocita' della Seconda
Guerra
Mondiale (da Auschwitz ad Hiroshima: il tempo in cui "l'uomo e' lupo
all'uomo")
a spingere al rifiuto della guerra. E' vero, sarebbe seguita la
"Guerra
fredda", considerata il conflitto per eccellenza, anzi l'unico. Gli
altri
non contavano. L'unica cosa che importava era sapere quante bombe
(possibilmente
atomiche) avevano i due avversari. Ma con il crollo
dell'Unione
Sovietica (da molti interpretato come il trionfo della
democrazia,
del libero mercato e dei valori americani), il nuovo contesto
mondiale
unipolare, e poi con la Guerra del Golfo del 1991, si e'
sostanzialmente
rimossa la consapevolezza che la guerra non solo distrugge
persone
e risorse, ma distrugge futuro; anzi, annulla la possibilita' stessa
di
un futuro.
Ecco
perche' stiamo vivendo una stagione buia nella quale cercano, per
l'ennesima
volta, di prendere corpo quei fantasmi che si sono sempre
materializzati
nei periodi di crisi e che hanno segnato di lacrime e sangue
la
storia dell'umanita'. La speranza e' appesa a un filo, e "nel manicomio
globale,
tra un signore che si crede Maometto e un altro che si crede
Buffalo
Bill, tra il terrorismo degli attentati e il terrorismo della
guerra,
la violenza lo sta strappando" (Eduardo Galeano).
Se
non torna in scena la politica a mediare i conflitti, non sara' certo la
guerra
a risolvere le controversie internazionali. Una guerra che non puo'
che
peggiorare la vita di milioni di persone, tanto nei paesi piu' ricchi
quanto
nei paesi piu' poveri del mondo, e consentire ai pochi padroni della
terra
di ridistribuirsi aree geografiche, risorse e poteri. Questa guerra
alla
fine finira', magari sullo sfondo non ci saranno i funghi atomici, ma
le
macerie sono assicurate.
Anche
Berlusconi, dal suo punto di vista, pone il tema della memoria, con la
proposta
di trasformare l'11 settembre di ogni anno in una giornata dedicata
"alla
memoria delle vittime del fanatismo". Ma quella data e' gia' nella
nostra
memoria, dal 1973.
Cile:
colpo di stato del generale Pinochet, con la complicita' degli Stati
Uniti
(tutti i conflitti sociali e i tentativi di emancipazione in America
Latina,
da Cuba al Nicaragua sandinista, sono stati interpretati - in
maniera
piu' o meno strumentale - dagli Usa come congiure dell'allora Unione
Sovietica),
contro il socialista Salvador Allende e l'esperienza di Unidad
Popular
che cercava di realizzare giustizia sociale e democrazia.
Bombardamento
a tappeto del palazzo presidenziale e instaurazione per
quindici
anni di un regime di terrore (su questo ha scritto un
bell'editoriale
Ignacio Ramonet su "le Monde diplomatique" dell'ottobre
2001).
Ecco
perche' la memoria non e' neutra. La nostra ci permette di conservare
un
giudizio morale secondo cui i bruciati dal napalm in Vietnam o i morti
per
affamamento in Iraq non sono meno importanti o meno innocenti dei
massacrati
nelle Torri di New York. Per noi non ci sono ne' potranno mai
esserci
vittime di prima e seconda categoria; che la morte, ogni morte, pesa
come
un macigno sulla coscienza di tutta l'umanita', e che davanti a cio'
ognuno
di noi e' piu' povero perche' privato della prossimita' dell'altro,
dovunque
esso viva, lavori, riposi.
PRESENTAZIONE
DEL GERMINAL N. 87 (NOVEMBRE-DICEMBRE 2001)
E’
uscito il n. 87 di “Germinal. Giornale anarchico e libertario di Trieste,
Friuli, Veneto e…”
L’incubo
della guerra è al centro di una serie di articoli di apertura di
questo numero.
Il
convegno delle Donne in Nero svolto a Novisad (Jugoslavia) ha ribadito
le difficoltà della ricostruzione di rapporti umani accettabili
dopo l’infuriare della guerra (e della finta pace) nei Balcani. Continua,
tra mille ostacoli, la collaborazione tra donne palestinesi e israeliane
per fermare i massacri in corso. Anche in Afghanistan le donne “non sottomesse”
della organizzazione RAWA conducono una lotta assai rischiosa per limitare
i danni del fondamentalismo, mentre condannano i bombardamenti che non
servono assolutamente ad alcun processo di emancipazione ma solo a fare
altre vittime tra i civili.
I
due leader bellicosi, Bush e Bin Laden, appaiono incarnare i peggiori interessi
di potenza e di ossessione autoritaria, secondo l’articolo del regista
iraniano Makhmalbaf. E il conflitto in corso, dalla durata imprevedibile,
presenta uno scenario da “guerra per bande” tra gruppi di pressione economici
in lotta in uno scontro planetario e contro le popolazioni. Questo è
emerso pure dal recente convegno di Pordenone sulla NATO, braccio armato
del sistema occidentale, solo formalmente liberale. Un sistema che è
anche responsabile della costante minaccia di scomparsa di popoli nativi,
come gli indios della Colombia.
Segue
un altro settore di materiali densi, quello sulle giornate del luglio a
Genova, con note di discussione, anche polemiche, per interpretare le mobilitazioni
e le modalità della dura repressione poliziesca. Una sorta di “educazione
civica” che ha aperto gli occhi ai più giovani e ha confermato la
natura violenta dello Stato.
Com’è
noto, il dominio capitalista non scherza e, dalle nostre parti, si è
dimostrato pronto ad uccidere, per aumentare il profitto e il controllo,
centinaia di lavoratori tra Monfalcone e Trieste costringendoli per anni
a lavorare in ambienti saturi di amianto. Altri appuntamenti libertari,
promossi in questi mesi a Trieste e altrove, hanno evidenziato il ruolo
centrale dell’educazione alternativa che annovera, ormai da molti anni,
la concreta esperienza di Summerhill, nella realtà inglese per altri
versi soffocante. Come insopportabile appare il clima che il tradizionalismo
cattolico sta imponendo a Verona e in altre zone della regione. Comunque
qualcosa si muove… Nella profonda provincia friulana, a Gemona, è
comparso un giornaletto antiautoritario, dal grazioso nome di “Papillon”,
a turbare i sonni di conformisti e indifferenti. Novità positive
anche sul terreno artistico con il nutrito e stimolante convegno di Bologna
e le attività della rivista “ApArte” in cui ogni numero riserva
sorprese armoniose e raffinate.
La
lunga storia di Marco Camenish, nostro collaboratore detenuto da molti
anni in seguito ad azioni dirette di tipo ecologista, conclude questo numero
di “Germinal”, di 32 pagine di rabbia e libertà, di protesta e di
proposte.
Un
abbonamento annuo: L. 20.000 da versare sul C/C/P 16525347, intestato
al Gruppo. Per altre informazioni rivolgersi al Gruppo Germinal, via Mazzini
11, 34121 Trieste (tel. 040-368096, martedì e venerdì dalle
19 alle 21). E mail: gruppoanarchicogerminal@hotmail.com
BUSH E
BIN LADEN, CULO E CAMICIA...
Da "Umanità
Nova" n. 39 dell'11 novembre 2001
Come il culo e la camicia,
la pattaja per l'esattezza, ossia quel pezzo di stoffa del lungo camicione
dei nostri contadini che, passando dalla schiena sotto le "vergogne", andava
a ricongiungersi, indissolubilmente e nascostamente, alla parte anteriore
dell'indispensabile indumento di tela grezza. Così, allo stesso
modo, altrettanto indissolubili sembrano i rapporti, ben più vergognosi
delle pudende degli agricoltori di un tempo, che intercorrono fra l'establishment
a stelle e strisce e il cosiddetto "pericolo numero uno" del mondo libero.
Stando, infatti, alle solitamente
ben informate agenzie giornalistiche francesi, "l'inafferrabile" bin Laden
si sarebbe fatto curare, un mese esatto prima dell'attentato alle torri
di New York, nell'ospedale americano del Dubai. Da uno stimato medico chirurgo,
anch'esso a stelle e strisce, e non senza essersi incontrato, fra una dialisi
e l'altra, con un altissimo esponente della Cia. Chissà cosa si
saranno detti?
Culo e camicia, insomma!
I vecchi rapporti instauratisi quando il miliardario saudita trovava negli
americani la sponda per la sua guerra santa contro la Russia, devono essere,
evidentemente, ancora ben saldi. E produttivi.
Nonostante le inevitabili
smentite, questa storia, come le altre che poco per volta emergono con
sconcertante regolarità, fatte di inestricabili intrecci fra le
lobbies dei poteri americani e i signori del petrolio mediorientali, non
solo è plausibile, ma pienamente, fortemente credibile. La somma
di continue coincidenze diventa una regola, e la regola, a quanto pare,
è quella che, nella loro diversità, gli interessi del governo
americano e quelli del fondamentalismo islamico tendono allo stesso fine,
una bella guerra senza quartiere fra opposte schiere di fanatici, quelli
in divisa mimetica con la faccia macchiata di nerofumo e i capelli alla
marine e quelli in turbante col corano al posto del cuore e del cervello.
Una bella guerra che permetta, agli uni e agli altri, il raggiungimento
dei loro obiettivi altrimenti difficilmente perseguibili: da una parte
la penetrazione degli eserciti occidentali in un'area geografica importantissima
e fino ad oggi assolutamente off limits, dall'altra lo spostamento del
baricentro politico e sociale all'interno dell'enorme comunità musulmana
con lo scopo evidente di emarginare per sempre le borghesie e i centri
di potere troppo accondiscendenti col materialismo consumistico delle nostre
società.
E come sempre, come in tutte
le guerre e ancor più come nelle ultime di cui siamo stati testimoni,
chi fa le spese di questo scontro fra interessi egemoni e criminali non
sono i fanatici di cui parlavo in precedenza, bensì i civili: donne,
vecchi, bambini, persone innocenti con la sola colpa di trovarsi nel paese
sbagliato al momento sbagliato, e che sempre più stanno diventando
quella carne da cannone che una volta era costretta a indossare un'uniforme
e a partire per il fronte. Con, in più, il vantaggio che non c'è
neppure il bisogno di comprare loro una divisa per mandarli a farsi ammazzare.
È ormai confermato
che il territorio afgano, soprattutto intorno ai maggiori centri abitati,
è disseminato delle micidiali cluster bomb, le bombe a grappolo
inesplose all'impatto a terra ma pronte ad esplodere al successivo minimo
urto. Graziosi oggettini gialli a forma di lattina o di scatoletta, che
sembrano fatti apposta per essere raccolti da terra da chi li veda per
la prima volta. Soprattutto, purtroppo, dai bambini. Con ammirevole spirito
umanitario il governo americano ha deciso di cambiare di colore, dallo
stesso giallo al blu, alle generose razioni alimentari paracadutate con
la stessa dovizia sulle povere teste degli afgani. Dio non volesse, infatti,
che l'ignaro bambinetto nomade scambiasse l'una con l'altra e invece di
gustare le ali di pollo alla texana provasse in ben altro modo la generosità
dei suoi "salvatori". Ma come sono buoni questi amerikani!
Massimo
Ortalli
|
13
novembre 2001
UNO
STRACCIO
DI
PACE
Appello
di Emergency
Siamo
pericolosamente vicini alla guerra. Questo vuol dire che degli italiani
potrebbero anche uccidere dei civili, la maggior parte dei quali donne
e bambini e, a loro volta, essere uccisi.
Siamo
sicuri che molti di noi non vogliono che ciò accada.
Noi
vogliamo poter dire che siamo contrari, e vogliamo che chiunque ci veda
sappia che siamo contrari alla guerra.
Per
farlo useremo un pezzo di stoffa bianco: appeso alla borsetta o alla ventiquattrore,
attaccato alla porta di casa o al balcone, legato al guinzaglio del cane,
all'antenna della macchina, al passeggino del bambino, alla cartella di
scuola...
Uno
straccio di pace.
E
se saremo in tanti ad averlo, non potranno dire che l'Italia intera ha
scelto la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.
Sappiamo
che molti sono favorevoli a questa entrata in guerra.
Vogliamo
che anche quelli che sono contrari abbiano voce.Emergency chiede l'adesione
di singoli cittadini, ma anche comuni, parrocchie, associazioni, scuole
e di quanti condividono questa posizione.
Diffondere
questo messaggio è un modo per iniziare.
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