Zenone Sovilla
La vicenda Tav richiede oggi come ieri equilibrio, moderazione, onestà intellettuale e competenza scientifica.
E sembra sempre più una questione in cui è dirimente il tema della conoscenza.
Nel main stream dei media – invece – si rincorrono soprattutto slogan (o poco più) e bollettini sull’ordine pubblico; salvo eccezioni, manca largamente una visione analitica e critica del fenomeno.
Sul quale permane un’opacità che non aiuta di certo chi volesse farsi un’idea libero da pregiudizi.
I pregiudizi e le insidiose dinamiche del potere investono in pieno questa vicenda e dovrebbero far riflettere, perché mettono a nudo una serie di criticità e contraddizioni della democrazia.
Uno dei pregiudizi principali descrive il Tav come la Grande Soluzione: niente più Tir e tutti felici. Un altro pregiudizio, di segno opposto, descrive l’opera come l’apocalisse per la valle, la fine di tutto. In entrambi i casi c’è un certo uso dell’iperbole che sacrifica la razionalità.
Poi a confondere il quadro ci sono le questioni di bassa bottega (come gli appalti miliardari per imprese private) e le odiose manipolazioni da marketing politico: dalle grigie torri d’avorio del potere costituito si invocano senso di responsabilità e legalità richiamandosi al rispetto di processi decisionali che in realtà sono stati solo formalmente democratici, lontani dai cittadini in carne e ossa.
Non mancano declinazioni mistiche, come le misteriose elucubrazioni istituzionali del tipo: qui è in ballo il corridoio Lisbona-Kiev, che in verità è un’astrazione, una categoria simbolica della retorica politica europea regolarmente ripresa sui giornali senza spiegare di che cavolo o più verosimilmente cavolata stiamo parlando.
Oppure le manovre ingannevoli di fabbricazione del consenso: i politici e gli articoli di stampa che ripetono come una cantilena la formuletta ufficiale, forse senza rendersi conto che a scatenare il dissenso sociale è questa medesima giaculatoria (con il suo triste portato simbolico) fatta peraltro anche di pure fantasie, come la pretesa adesione trasversale che il treno faraonico otterrebbe in Francia (vedremo più avanti che le cose non stanno affatto così).
Su questo registro probabilmente non si arriverà da nessuna parte, anzi, si getta benzina sul fuoco e c’è da sperare che il disegno politico non sia proprio questo: alimentare lo scontro formale – e puntare un milione di obiettivi, nelle manifestazioni, sui pochi comportamenti sopra le righe o più o meno violenti – per non confrontarsi sul merito, che poi significherebbe anche aprire la voragine dialettica sul deficit di rappresentanza democratica e sul fallimento di molti processi decisionali sempre più spesso condizionati e finanche diretti da cerchie oligarchiche e da truppe cammellate di lobbisti.
Un metodo per ritessere i fili e riconsiderare per l’appunto il nocciolo della faccenda potrebbe essere quello del buon senso.
Si tratterebbe, per le parti in causa, innanzitutto, di condividere una premessa: che un progetto nato oltre vent’anni fa è roba d’altri tempi e dunque potrebbe essere salutare per tutti (i cittadini della val di Susa, gli italiani, i francesi, gli europei, il mondo produttivo, la democrazia…) una pausa per cercare di avviare una valutazione seria (non il copione sbiadito e scontato andato in scena nel consiglio dei ministri di tre giorni fa) e chiedersi davvero se oggi sia utile alle popolazioni un investimento di venti miliardi di euro in quest’opera.
Gli strumenti per farsi un’idea non mancano. Basta dedicarsi con un po’ di attenzione a una ricerca online e spunteranno valanghe di documenti rilevanti.
Anche un gruppo di oltre 400 docenti universitari e studiosi, come il meteorologo Luca Mercalli che compare tra i primi firmatari, ci aveva provato qualche settimana fa, con una lettera piuttosto circostanziata inviata al presidente del consiglio, Mario Monti.
Un testo nel quale si elencano alcune criticità del progetto, motivi sufficienti – secondo i firmatari – ad archiviare il Tav per passare invece a un intervento diverso di potenziamento del ruolo della ferrovia.
I punti della missiva toccano, fra l’altro, l’assenza di un piano finanziario complessivo dell’opera (in altre parole, si naviga a vista con rischi finanziari per la collettività); il ritorno economico trascurabile (elevati costi, traffico modesto); le potenzialità dell’alternativa rappresentata dall’ammodernamento della rete esistente; il ruolo congiunturale irrisorio come volano anticrisi, date le incertezze e i tempi lunghissimi di questa spesa pubblica (altre opere favorirebbero subito le imprese e l’economia); l’irrazionalità funzionale del cosiddetto “corridoio europeo” e i riflessi sociali dell’impiego di risorse statali su questo fronte; gli effetti sull’ambiente naturale e sulla comunità umana, anche in termini di trasparenza e di democrazia.
Questo è un esempio di un breve documento (ma in rete si possono facilmente reperire dossier voluminosi) utile a chi volesse attrezzarsi per fare un ragionamento su una questione che, in fondo, a livello di opinione pubblica non è stata oggetto di grandi confronti nel merito (come notava Adriano Sofri qualche giorno fa, una consultazione popolare, oggi, potrebbe favorire dibattito e distensione).
Lo stesso impatto ambientale e sanitario di vent’anni di cantieri, scavi (in un’area geologica che presenta anche l’uranio) e movimenti terra non è stato debitamente illustrato all’opinione pubblica nazionale e come sempre fra i cosiddetti esperti c’è chi allarma e chi (non di rado vicino agli interessi dei costruttori) minimizza.
Per disporsi a una discussione leale, si dovrebbe intanto cominciare a sgombrare il campo dalle mistificazioni che mortificano il dialogo, per esempio la vulgata secondo la quale in Francia sono tutti a favore del Tav senza se e senza ma: le cose non stanno esattamente così, anzi.
In Savoia le voci critiche sono diverse: si va dal mondo ecologista al partito conservatore di Sarkozy (Ump). Uno dei nodi emersi riguarda la tempistica del progetto: la previsione del 2025 come anno di apertura del traffico merci con bypass del nodo cittadino di Chambéry delude le aspettative di molti e sembra invertire le priorità dell’intera infrastruttura, che almeno nel primo periodo sarebbe prevalentemente dedicata al modesto traffico passeggeri.
E che fine fa il celebrato trasferimento delle merci dalla gomma alla rotaia, quando la ferrovia potrà davvero trasportare i 40 milioni di tonnellate promessi? Se lo chiede anche Pierre Moreau, della Cipra, che ha inviato dieci domande critiche ai promotori del Tav.
A Parigi anche nei circoli della finanza c’è chi comincia a preoccuparsi per la sostenibilità economica della Torino-Lione, un aspetto che tocca anche l’Italia, specie se si tiene conto del non entusiasmante bilancio dell’alta velocità nazionale cui si sono rivolte negli ultimi anni le discutibili attenzioni delle Fs.
Sono tutti aspetti non marginali dei quali si dovrebbe tener conto prima di pronunciarsi.
Un dibattito aperto, sottratto all’opacità che finora ha avvolto il nocciolo della faccenda, potrebbe anche suggerire qualche interrogativo sulle classi dirigenti: quella italiana, per esempio, si eccita per il leggendario corridoio Lisbona-Kiev e per le freccerosse anziché varare un grande piano per rafforzare in tempi ragionevoli (non nei vent’anni promessi del Tav) le reti ferroviarie locali: si attenuerebbe largamente l’impatto dell’inquinamento atmosferico e le sue conseguenze sanitarie. E probabilmente le comunità locali, fatte di pendolari, accoglierebbero i cantieri a braccia aperte.
Insomma, si tratta di verificare se la vicenda Tav non rappresenti una delle frequenti circostanze in cui le classi dirigenti prendono e impongono decisioni sbagliate mentre fuori dalle istituzioni politiche i cittadini maturano controprogetti ispirati al buon senso.
Sarebbe un’ennesima dimostrazione che spesso è molto più semplice dire un “sì” frettoloso e superficiale (avviando megamacchine razionali solo per chi intercetta i denari pubblici degli appalti) ed è invece molto più complicato e faticoso elaborare attorno a un “no” di buon senso percorsi alternativi che rispondano (anche meglio) ai bisogni reali della società e dell’economia minimizzando gli effetti collaterali negativi sulla natura e sulla salute umana. Insomma, rifiuti costruttivi che diventano sì ragionati a soluzioni più serie: l’Italia è attraversata da simili manifestazioni di partecipazione popolare che supplisce alle carenze delle classi dirigenti coinvolgendo anche elevate competenze scientifiche; ma c’è chi ama liquidarle con arroganza come “ambientalismo del no” riciclando l’accusa odiosa e fuorviante del “non nel mio giardino”.
Va aggiunto che la responsabilità delle popolazioni è solo marginale nelle dinamiche di selezione di classi dirigenti che si rivelano mediocri, manovrabili o dogmatiche e dunque esposte a scelte gravemente sbagliate rispetto agli interessi generali.
Perciò risulta ammirevole e prezioso l’impegno civico collettivo col quale spesso si tenta, a posteriori, di porre rimedio a decisioni lacunose o erronee (ah, la demeritocrazia dirigistica di chi predica la meritocrazia e il liberalismo…).
In altre parole, una democrazia avanzata significa anche compartecipazione alle idee per avvicinarsi alle soluzioni massimamente condivise, che in genere sono le migliori per la generalità dei cittadini ma scontentano qualche appetito industriale e mettono a nudo la povertà intellettuale di classi dirigenti selezionate male nei circuiti del potere.