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Province ordinarie, democrazia sospesa

Zenone Sovilla

Che cosa direste se alla scadenza della legislatura il governo portasse in Parlamento un decreto che sospende le elezioni, perché ha intenzione di riformare l’assemblea legislativa, magari con una legge ordinaria con l’obiettivo di superare il bicameralismo? Probabilmente vi verrebbe il dubbio che staremmo uscendo dallo stato di diritto.
Con questa apparente forzatura dialettica vorrei richiamare nuovamente l’attenzione del lettore su una vicenda a mio avviso molto grave che sta passando sottotraccia oppure, peggio ancora, se emerge è oggetto di depistaggi politici e mediatici: la cosiddetta “abolizione” delle Province ordinarie, che in realtà è una trasformazione, teorizzata dal governo Letta e in particolare dal ministro Graziano Delrio, che riduce questi enti intermedi a semplici agenzie funzionali dei Comuni, prive di organismi eletti direttamente dai cittadini (li nominano invece i consigli municipali).

Di là dalle valutazioni politiche su questo svuotamento di un livello democratico, colpisce in particolare l’ostinazione con la quale l’esecutivo ripropone lo schema della cancellazione “ordinaria” delle elezioni provinciali, malgrado tre mesi fa la Corte costituzionale abbia seccamente bocciato l’analogo provvedimento varato nel dicembre 2012 dal governo Monti (nel decreto definito con molta fantasia “SalvaItalia”).
A rigor di logica (e di norma), dopo questa sentenza della Consulta il governo avrebbe dovuto sbloccare la paralisi delle Province commissariate in cui da anni era stato sospeso d’imperio il diritto di voto.
Al contrario, da Roma è arrivato un nuovo decreto che posticipava al giugno 2014 i commissariamenti degli enti (sono una settantina quelli in cui è scaduta la legislatura o dove i presidenti si sono dimessi per crisi politiche) per dare tempo al ministro degli Affari regionali di elaborare e portare in Parlamento la sua legge “fondamentale” che svuota di senso questa articolazione delle autonomie locali.
Nel frattempo, giusto per darsi un contegno, il governo ha pure depositato una legge costituzionale (probabilmente destinata a restare nel cassetto fino alla scioglimento anticipato delle Camere) che cancella le Province ordinarie dalla Carta fondamentale.

Poi è passato un emendamento che riduceva di sei mesi (31 dicembre 2013) il termine dei commissariamenti, con conseguente e crescente nervosismo del ministro Delrio: senza un’improbabile approvazione definitiva della legge entro fine anno, le settanta Province andrebbero direttamente al voto in primavera. Nel frattempo anche nel suo partito, il Pd, cominciavano a levarsi voci contrarie alla riforma (o per meglio dire, la controriforma) così impostata.
La graziosa risposta di Delrio (che giorni prima aveva addirittura evocato la questione di fiducia per far passare il suo testo) è stata imporre un’altra accelerazione e ora il governo inserirà nella legge di stabilità un contro-emendamento che ristabilisce a fine giugno 2014 la scadenza dei commissariamenti: in questo modo si ritiene di avere il tempo necessario a far approvare dalle Camere la controriforma delle Province, il tutto naturalmente sfuggendo a qualsiasi tentazione di aprire un dibattito serio nell’opinione pubblica coinvolgendo innanzitutto i territori interessati e gli studiosi della materia.

È con questa improvvisazione, dai tratti chiaramente neocentralisti mascherati da un superficiale municipalismo, che si intende abbattere un pezzo dell’architettura democratica istituzionale.

Negli ultimi mesi si sono levate parecchie voci critiche sia sulla sostanza (la destabilizzazione del sistema di governance dei territori) sia sul metodo (la palese incostituzionalità reiterata).
Fra gli appelli a Letta affinché corregga la rotta vi è quello di 44 costituzionalisti, che hanno ribadito innanzitutto che il governo ha partorito un mostro giuridico: per rendere le Province enti territoriali non elettivi serve una riforma costituzionale. Punto e basta.

Molti altri studiosi, anche in ambito urbanistico o della scienza politica, hanno criticato fortemente la sostanza della visione governativa. Lo stesso Censis ha presentato un’indagine che riafferma l’utilità di un ente di area vasta democraticamente eletto e i rischi della polverizzazione voluta da Graziano Delrio nel suo furore municipalistico.

In altre parole, le Province sono diventate il capro espiatorio (forse per tentare di salvare dai “forconi” le vere caste politiche) ma rappresentano solo l’1,3% della spesa pubblica nazionale e la utilizzano largamente nell’erogazione di servizi che se passati ai Comuni si complicherebbero facendo lievitare i costi per l’indebolirsi delle economie di scala (per esempio nella gestione di strade e edifici scolastici).

La Provincia è un ente che corrisponde a contesti territoriali omogenei e coerenti, come da tempo si sforzano di spiegare motli studiosi di questa materia: si pensi a riformare l’istituzione, specie trasferendole nuove competenze piuttosto che polverizzare il quadro locale attribuendo poteri straordinari ai Comuni (con le ovvie complicanze del caso).

La questione  è complessa e chi la riduce a slogan politico e a riforme pasticciate non fa un bel servizio al Paese, anzi, lo danneggia sia nelle dinamiche democratiche sia negli assetti funzionali.

I grossi centri di costo (anche del personale politico) sono lo Stato e le Regioni ma stranamente ci si accanisce sulle Province, che fra l’altro sono un argine ai progetti (magari regionali o municipali) che devastano il territorio italiano. Certo, forse farà comodo a qualcuno appropriarsi del patrimonio edilizio (e non) delle Province oppure gestire, magari privatizzandoli, i loro servizi.

Ecco due opinioni autorevoli, diffuse ieri, sulla riforma imposta dal governo, natturalmente senza confrontarsi minimamente con i territori interessati (al punto che anche casi vicini al Trentino, come Belluno e Sondrio, stanno rincorrendo disperatamente una “indulgenza” romana almeno per questi territori alpini che rischiano l’abbandono e la desertificazione istituzionale).

Il direttore generale del Censis Giuseppe Roma: “La frammentazione della gestione di alcune funzioni crea inefficienze e un aumento significativo dei costi, soprattutto per quanto riguarda le scuole e le strade. Le scuole sono 7.036 in 1.484 Comuni e in media ogni Provincia ne gestisce circa 65. Cosa accadrà quando questa funzione passerà alle aggregazioni di Comuni?. Anche 111 mila km di strade cioè il 72,3% del totale, vengono gestiti dalle Province, che si occupano anche della loro manutenzione e progettazione, con un costo di 1,8 miliardi di euro. In Italia spesso le riforme hanno peggiorato la vita dei cittadini per questo serve lungimiranza da parte della politica e bisogna far attenzione a voler portare lo scalpo delle Province nelle mani
di chi non si sa, perchè magari il prossimo governo potrebbe
avere a che fare con costi maggiori”.

Paolo Savona, docente Luiss: “Il tema della riduzione della spesa si è concentrato sui costi della politica ma sotto questo profilo le Province sono quelle meno esposte a critiche, visto che la loro spesa media ammonta a 105 milioni di euro, vale a dire 1,8 euro pro capite. Diversamente le Regioni spendono per gli organi elettivi 842 milioni, cioè 14,2 euro pro capite; e i Comuni 558 milioni, quindi 9,4 euro pro capite. Tra il 2008 e il 2012 le Province, ha ricordato, hanno ridotto le spese del 21,3% contro il 4,5% dei Comuni e il 4,2% delle Regioni; lo Stato invece ha accresciuto le spese correnti e ridotte quelle in conto capitale. Infine, il costo medio del personale delle Province è pari a 41.949 euro contro i 58.241 di quello regionale”.

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Questo sito nacque alla fine del 1999 con l'obiettivo di offrire un contributo alla riflessione sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul ruolo dei mass media nei processi di emancipazione culturale, economica e sociale. Per alcuni anni Nonluoghi è stato anche una piccola casa editrice sulla cui attività, conclusasi nel 2006, si trovano informazioni e materiali in queste pagine Web.

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