Inchieste&reportage
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Stefania, la vita di un
ragazzo ritrovata in un corpo di donna
Merano, il racconto di Stefania:
l'esistenza prima e dopo l'operazione
una storia raccolta da LUCA FREGONA Maggio 1997, ritorno a casa Dovessi vivere in eterno, non potrò mai dimenticare il suono della voce di mia madre all'altro capo del filo del telefono. Fu l'unica volta in cui mi sentii contenta di aver udito il mio nome al maschile; in quel nome, nel modo di pronunciarlo, mia madre aveva dato sfogo a tutte le sue paure, le sue angosce, la sua stanchezza e, soprattutto, a tutto il suo amore. Ero viva. Tre settimane dopo essere scappata di casa, avevo avuto il coraggio di chiamare e di chiedere aiuto. Volevo chiedere perdono per il fatto di essere così, ma era anche la telefonata di una ragazza disperata, tremendamente sola, l'ultimo tentativo per provare a rimanere agganciata alla vita. Se fosse andata male, la mia esistenza sarebbe terminata pochi secondi dopo, sotto un métro parigino. Invece andò bene. Tra le lacrime, mia madre mi chiese, quasi implorandomi, di tornare a casa, mi disse che tutto si sarebbe sistemato, che avremmo risolto ogni cosa. Io la supplicavo di venirmi a prendere, volevo solo lei, nessun altro, avevo troppa paura di tutti. Mia madre riuscì a calmarmi. Poi mi disse "Adesso ascolta Stefy, dovresti proprio parlare con tuo padre... Non ti preoccupare, è al corrente di tutta la situazione... Devi parlargli, sta soffrendo tantissimo". L'idea di dover parlare con mio padre mi fece gelare il sangue. Cosa dovevo dirgli e, soprattutto, cosa mi avrebbe detto? E poi, come? Cosa significava che "era al corrente della situazione"? Voleva forse dire che aveva saputo che il suo figlio primogenito era transessuale? E come l'aveva presa, lui che era sempre stato tanto rigido nei confronti di qualsiasi devianza sessuale? La paura di parlare con mio padre si rivelò del tutto ingiustificata; come ho avuto modo di verificare in questi due anni, ho dovuto cambiare spesso opinione sui suoi atteggiamenti nei confronti della "diversità". Al telefono piange anche lui. Mi toglie subito dall'imbarazzo: "Stefy, torna. Non avere paura, risolveremo tutto insieme". La testa mi girava, le mie paure, le mie angosce, i miei sensi di colpa si stavano liberando in un colpo solo, esplodendo con una violenza inaudita. Per la prima volta in ventisette anni avevo intravisto una seppur minima possibilità di farcela. Parigi rappresentava per me la città dalle mille possibilità, la città in cui io avrei potuto realizzarmi, vivendo una vita anonima. Ma io non ero pronta ad abbandonare tutto. Amavo troppo la mia famiglia per potervi rinunciare, ma forse l'amavo troppo anche per riuscire a rivelare loro che ero transessuale. Ero partita improvvisamente nella notte tra il 9 e il 10 aprile. L'idea di partire c'era, ma non l'avevo ancora elaborata completamente. Quella notte, però, era successo un fatto che mi aveva fatto accelerare i tempi. Ero stata fermata dalla polizia stradale in totale stato di ebbrezza, mi avevano ritirato la patente e sequestrato l'auto. L'alcol, negli ultimi tempi, stava diventando un pericolosissimo compagno di viaggio, un modo facile per negarmi alla vita. Quando i poliziotti presero la mia patente, mi vergognai moltissimo. Avevo capito di essere caduta troppo in basso, di aver toccato il fondo. E la mia reazione fu la fuga. A Parigi, vennero a prendermi i miei cugini francesi e mi portarono a Les Imbertes, in Provenza, la cittadina di cui mia madre è originaria. La sera sentii ancora mio padre al telefono: "Ascolta Stefy, noi arriviamo domani. Non ti preoccupare, non ti chiederemo niente di Parigi, non voglio sapere nulla di quello che hai fatto, di quello che è successo, a meno che non sia tu a volerlo". La voce era calda, calma e dolce. La voce di un padre che amava sua figlia più di qualsiasi altra cosa al mondo. Sabato 10 maggio, la Peugeot bianca dei miei fece il suo ingresso nel cortile della casa di mia zia. Faceva caldo, ed avevamo apparecchiato una grande tavolata in giardino. Mamma e papà scesero dalla macchina. Ricordo quel momento come fissato in una fotografia: i loro volti emozionati, illuminati ed esaltati dal sole. Ci abbracciammo forte. Fu mio padre il primo a sdrammatizzare. "Hai preso sole ai capelli, a Parigi?", mi disse scherzando, riferendosi alla mia tinta corvina. Furono di parola. Tranne qualche piccola, lecita curiosità non mi chiesero nulla. Ed io apprezzai enormemente questo gesto di rispetto. Passata la notte, bisognava ritornare a Merano. Ero semplicemente terrorizzata. Il pensiero di tornare nella mia città mi toglieva il fiato, mi accelerava i battiti cardiaci. Dissi ai miei, che non avrei visto nessuno, che non sarei uscita per alcun motivo, che non avrei risposto al telefono. Lo dissi con una carica aggressiva eccessiva, che li spaventò. D'altronde, io a Merano dovevo tornare. La mia situazione psicologica era grave, i pensieri suicidi costantemente presenti, ed avevo urgentemente bisogno dell'intervento di uno psicoterapeuta, prima che la cosa precipitasse. Domenica 11 maggio tornai a casa. Merano, provincia dell'Inferno "Portatemi via da qui, non
costringetemi a restare, non voglio stare qui": questi ed altri pensieri
di analogo tenore mi riempivano la mente. Era terrore puro. Parcheggiata
la macchina sotto casa, mi infilai velocemente in casa, convinta che non
ne sarei mai più uscita, per alcun motivo. Incominciava un periodo,
che avrebbe messo a durissima prova la saldezza dei nervi miei e dei miei
familiari. Mi strinsi forte a mio fratello Michel, rallegrandomi per il
fatto di sentire nuovamente il calore del suo corpo e del suo affetto e
poi, quasi buio completo. Cosa accadde nei giorni seguenti? Ricordo innanzitutto,
che la prima persona "esterna" alla famiglia che accettai di incontrare
fu la Leila, la ragazza di Michel. Ricordo anche l'enormità di telefonate
ricevute da persone che desideravano informarsi sul mio stato di salute,
di amici che volevano parlare con me, ed ai quali io mi facevo puntualmente
negare. Non riuscivo neppure ad ascoltare mia madre che parlava con loro
al telefono, tanto da dovermi chiudere in camera ogni volta che squillava.
Il mio aspetto fisico, in quei giorni, era estremamente ambiguo. Oltre
ai capelli tinti, avevo le unghie lunghe, le sopracciglia affinate, seppur
in maniera approssimativa, e nell'insieme davo l'idea di un ragazzo malaticcio,
con qualcosa che non quadrava. La mia paura era di essere scrutata come
un animale allo zoo, che qualcuno mi dicesse che ero un bel ragazzo, che
probabilmente non ero transessuale e che di certo non ero una donna. Inoltre,
mi portavo dietro un forte choc legato al mio periodo parigino: un giorno
ero entrata in un bistrò per pranzare. Ero vestita in tailleur,
ma il trucco eccessivamente pesante, il taglio di capelli ancora troppo
maschile e una rigidità di movimenti dovuta all'emozione e allo
stress tradivano decisamente la natura del "mio" sesso.
I miei genitori Le cose andarono differentemente per mio padre e mia madre. A mia madre avevo trovato modo di accennarne nel dicembre del 1996, grazie a un po' di birra in corpo. Ma il discorso si interruppe lì. All'epoca frequentavo una ragazza da circa un anno e mezzo, ed una delle prime domande che mi fece mia mamma fu "ma lei non può aiutarti a guarire?". Non avevo la forza per spiegarle che di transessualismo non si guarisce: quando una persona è transessuale, l'unica cosa che si può fare è eliminare quello che lei vive come problema fisico. Inoltre, data la mia particolare situazione psichica di quel periodo, che si traduceva anche in una forte aggressività verso di lei, mia mamma fu portata a credere che le avessi confidato un falso problema al solo scopo di ferirla. Malgrado questo, si mise a lavare i body che avevo comprato di nascosto. I discorsi attorno alla questione si interruppero definitivamente quando mi rifiutai di rispondere alle domande dirette che mi faceva. L'ho così costretta a mantenere un segreto enorme per mesi, senza che potesse condividerlo con nessuno. Mio padre, invece, è venuto a conoscenza del mio problema di identità durante la mia fuga a Parigi. Nel tentativo di riuscire a racimolare qualche indizio che gli consentisse di capire dove potessi trovarmi e perché fossi partita, aveva rovistato tra le mie carte. Trovò alcuni fogli di diario, dove parlavo della mia situazione, ed esprimevo la mia disperazione. Non riuscì a mettere immediatamente a fuoco la situazione. Chiese spiegazioni a mia madre, che poté finalmente condividere il suo segreto con lui. Il "Dottore" Gli incontri col "Dottore" furono subito proficui: mi dette subito la sensazione di avere tutto sotto controllo, di avere elaborato una strategia che non poteva fallire, e che inevitabilmente mi avrebbe riportata a vivere una vita "normale". In casa intanto la situazione non era più sostenibile. I rapporti si stavano sfaldando a causa dell'enorme stress a cui eravamo tutti sottoposti. Era necessaria una sferzata, che mi fu imposta da mia mamma. Invitò a casa Federico, Luca e Max, gli amici più casi sin dai tempi del liceo. Ci siamo sempre confidati tutto, tranne, ovviamente, una sola cosa da parte mia. Avevo timore, nel rivederli, che qualcosa fosse cambiato, che potessero sentirsi traditi dal mio silenzio. Arrivarono tutti e tre assieme. L'imbarazzo nel vederci era inusuale, ma perfettamente comprensibile. Giocammo a briscola. Non parlammo né di Parigi, né del mio transessualismo. Io sentivo che erano ansiosi di sapere qualcosa di più, ma non ero in grado (e non volevo) affrontare l'argomento. Rispettarono appieno questo mio desiderio. Quella sera era accaduto qualcosa di importante. Capii che avrei potuto mantenere un certo tipo di rapporto che avevo invece temuto di perdere. Non avevo paura tanto di non essere accettata, quanto piuttosto di essere accettata come una "diversa", un errore di natura; aborrivo l'idea che si potesse creare attorno a me una sorta di pietismo. Quando se ne andarono, l'atmosfera in casa era cambiata. L'umore di mia mamma, di mio papà e di Michel era stato alleviato da una ventata di ottimismo per il futuro. Non volevo uscire di casa Sebbene i progressi che stavo facendo erano evidenti, altrettanto lo rimanevano le mie magagne. Le telefonate continuavano ad essere filtrate da mia madre, ed io insistevo nel non uscire di casa. Inoltre, mi ostinavo a non voler parlare con nessuno del mio transessualismo. La cosa stava mettendo a disagio in particolar modo Luca, Fede e Max. Continuavano a venire a farmi visita, ma le serate si traducevano unicamente in partite a carte e chiacchierate sul più e sul meno. Una sera tutti e tre decisero di esprimermi il loro disagio. Era evidente come la loro non fosse una curiosità morbosa, ma dettata dal desiderio di sapere effettivamente che cosa mi stava succedendo; credo anche, che avessero bisogno di capire per dissipare i loro sensi di colpa nei miei confronti, dovuti al fatto di non aver capito prima che ero transessuale, e che, soprattutto, avevo vissuto una vita "finta". Chiesi loro di aspettare, di portare ancora un po' di pazienza. Sentivo che il momento, in cui sarei riuscita a liberarmi, stava arrivando, ma non era ancora giunto. Poi arrivò, finalmente, la prima volta in cui uscii di casa. Purtroppo, però, la strada era ancora lunga. Nel frattempo, le psicoterapie col Dottore continuavano e, come dalle tasche di Eta Beta, "risolto" un problema se ne presentava immediatamente un altro. Eliminata la fase acuta dei miei pensieri suicidi, la psicoterapia iniziò a focalizzarsi sull'aspetto cruciale della mia condizione. Lo choc riportato a Parigi, quando ero stata invitata a lasciare il locale in cui mi trovavo, continuava a produrre i suoi effetti negativi. Il risultato era che continuavo a presentarmi in abiti maschili all'esterno, limitandomi ad esprimere la mia femminilità (per quanto concerneva l'abbigliamento, s'intende) quando mi trovavo a casa mia o durante le terapie. Utilizzavo unicamente un abbigliamento unisex, jeans e magliette, ed un paio di superga rosa, assolutamente oscene. Non avevo però rinunciato a curarmi le mani, sebbene il fatto che la gente continuasse a guardarmi le unghie mi infastidisse. Inoltre, in casa evitavo di farmi vedere in abiti femminili da mio papà. Lui stava producendo uno sforzo enorme per capirmi e per aiutarmi, ed io temevo che vedermi al femminile gli avrebbe provocato uno choc, che poteva interferire con il lavoro che stava effettuando su se stesso. Affrontai l'argomento col Dottore, e stabilimmo una strategia: a mio padre avremmo dovuto proporre un cambiamento fisico graduale. Avrei incominciato col farmi vedere con un po' di fondo tinta, quindi con un po' di matita sugli occhi, e via via, sempre qualcosina di più. Effettivamente, in questo modo, il mio cambiamento fu assorbito più facilmente da mio padre. Per quanto riguardava l'espressione della mia identità, anche a livello di presentazione, verso l'esterno, occorreva ancora attendere. Il dottore aveva chiaramente capito, che un qualsiasi atto discriminatorio nei miei confronti, mi sarebbe stato impossibile da sopportare, e quindi la terapia in questo senso doveva basarsi su una strategia a medio-lungo termine. Io, nel frattempo, avevo deciso di seguire in toto i suoi consigli. Fu così, che da semplice terapeuta, il Dottore si trasformò in Pigmalione, e come tale si prese l'incarico di modificarmi non solo nella psiche, ma di aiutarmi anche nelle modifiche fisiche necessarie per accentuare la mia femminilità. Fu lui a portarmi da un parrucchiere ed a spiegare a quest'ultimo il taglio di capelli che doveva farmi; e fu sempre lui a consigliarmi di attenuare la vistosità del mio trucco. Desidero chiarire, che non mi sono mai sentita transessuale: io mi sono sempre sentita solo ed unicamente appartenente al sesso femminile, e questo senso di appartenenza al genere biologico diverso dal mio risale sino alla più tenera infanzia. Per quanto mi riguarda ho sempre pensato che i sessi siano due: maschile e femminile. Io sono stata, sono e sarò sempre una persona di sesso femminile. Ho sempre odiato il mio nome maschile: sentirmi chiamare al maschile, dover apporre una firma su un documento, utilizzando quel maledetto nome, mi ha sempre fatto star male, mi innervosiva, mi rendeva aggressiva e mi faceva piangere. Ritorno in Francia In estate tornai in Francia, da mia zia, per le vacanze. Avevo deciso di mettermi a mio agio a Les Imberts. Rimaneva però un problema da risolvere: Alison, mia cugina, che avevo tenuto a battesimo, aveva cinque anni, ed era solita chiamarmi "Parrain". Ora, si trattava di spiegarle che, in realtà, il suo "Padrino" era una ragazza. Ci facemmo mille problemi sul come affrontare l'argomento, problemi inutili, visto che ancora una volta dovemmo inchinarci alla capacità di comprensione dei bambini. Accadde che fu la stessa Alison a chiamare sua madre. Negli ultimi mesi, di nascosto, aveva carpito l'essenza dei discorsi degli adulti nei miei confronti ed inoltre, aveva avuto modo di constatare come i miei movimenti e le mie espressioni stessero lentamente assumendo quella grazia e quell'armonia tipicamente femminili. Presa sua madre da parte, le chiese con fare indagatorio: " Di, mais parrain il est bien un peu fillette, n'est ce pas?". Benché Alison, a modo suo, avesse capito tutto quanto, ritenni che fosse giusto da parte mia fornirle alcune spiegazioni, raccontandole in maniera chiara perché, tutto a un tratto, il suo padrino era diventato una ragazza. Presi Alison da parte, dicendole che le volevo raccontare una storia. Ci sedemmo tutte e due all'ombra del platano, nel giardino di mia zia, lei sulle mie ginocchia. Iniziai. "Ti sei accorta, vero, che il tuo padrino è un po' femminuccia? ". Annuì. "Allora credo sia giusto raccontarti come sono andate le cose. Vedi, quando io sono nata, i dottori, tatie Susie (mia mamma), tonton Bepì (mio papà) e tutti quanti, guardandomi, hanno detto: toh, guarda, è un maschietto...". Alison ascoltava con interesse. "Poi, gli anni passavano, e anche a me avevano detto che ero un maschietto. A me sembrava ben che qualcosa non funzionasse, però non ci facevo caso più di tanto. Ma, crescendo, le cose che non andavano erano sempre di più. Così, mi decisi ad andare a consultarmi con dei dottori. Mi visitarono da cima a fondo, e alla fine capirono. Pensa un po', ci eravamo tutti sbagliati, tutti quanti! Io assomigliavo a un maschietto, ma non lo ero, anzi, ero proprio una femminuccia, ti rendi conto?", e le sorrisi, facendola partecipe di questo errore collettivo. Alison si batté una mano sulla coscia e, con atteggiamento da signorina, mi disse: "Ah, certo che sono stati poco furbi...". L'abbracciai e le diedi un bacio sulla guancia. Poi, stette un attimo in silenzio, mi guardò, ed infine se ne uscì con il suo dilemma. "E adesso come devo chiamarti?". La guardai sorridendo: "Se vuoi, puoi chiamarmi Stefy. Ma se preferisci puoi continuare a chiamarmi Parrain", aggiunsi, timorosa di turbarla eccessivamente. "No, no, penso che sia meglio Stefy", concluse Alison, e se ne andò tranquilla a giocare con sua sorella. Grazie ad Alison, una bambina di cinque anni, ero riuscita per la prima volta ad affrontare il tema del mio transessualismo con naturalezza, senza bisogno di giustificarmi. Sulla scala della risalita Tornata dalle ferie, come previsto, ripresi la mia psicoterapia. E mi fu proposto di partecipare ad una psicoterapia di gruppo. Accettai, ma ero molto tesa. Come avrei reagito, se il gli altri mi avessero rifiutata? Prima di iniziare, avevo effettuato la mia terapia individuale col Dottore. Mi tranquillizzò e mi disse che quel giorno non sarebbe uscito nulla a proposito della mia situazione. Io non lo sapevo, ma stava mentendo spudoratamente. Eravamo una decina di persone, in maggioranza giovani. Non avevo il coraggio di guardarle negli occhi, e fissavo il pavimento e le mie superga rosa. Ero in abiti maschili. Il Dottore iniziò e ci presentò uno ad uno. Inevitabilmente, mi presentò agli altri col mio nome maschile. Sentirlo pronunciare ebbe lo stesso effetto di un pugno diretto allo stomaco. Mi irrigidii completamente, tirando tutti i muscoli del corpo e del viso. Finita la presentazione, il Dottore si rivolse a me: "Ho detto tutto giusto?" . "Insomma...", gli risposi. Poi, rivolto agli altri, aggiunse: "Bene, ricordatevi di quello che ha appena detto: insomma". Quindi, con un'abilità enorme, riuscì ad impostare la terapia attorno alla mia persona. Dopo aver spiegato ai presenti che non mi trovavo lì a seguito di un problema di dipendenza, li esortò ad indovinare quale fosse il mio disturbo. A turno, i miei compagni di gruppo elencarono tutta una serie di psicopatologie e di disturbi. Quando uno di loro disse "omosessualità", capii che era venuto il mio turno di parlare. Alzai la mano e iniziai a raccontare la mia storia come un fiume in piena. Le parole uscivano da sole. Quando terminai, nella sala, il silenzio continuava, interrotto solo dal mio pianto. Una ragazza si alzò, e venne ad abbracciarmi. Poi, uno dopo l'altro, i membri del gruppo mi espressero la loro solidarietà. Non riuscivo ancora a crederci: avevo buttato fuori tutto, avevo espresso i sentimenti, che mantenevo nascosti nel più profondo della mia anima, a persone che un'ora prima nemmeno conoscevo. Arrivò quindi il giorno, in cui dovetti presentarmi ai miei compagni in abiti femminili. Nel pomeriggio, mia mamma mi aveva accompagnata ad acquistare qualcosa per l'occasione: un completo giacca e pantaloni, abbastanza elegante. Arrivai in abiti maschili ed andai a cambiarmi in una stanza attigua. Al momento di fare il mio ingresso di fronte agli altri, mi sentivo il cuore in gola. Mi ritrovai davanti una decina di persone, che mi osservavano con sguardo compiaciuto. Poi, uno alla volta vennero tutti a complimentarsi con me. Restai per tutta l'ora seduta composta, parlando pochissimo, ma assaporando un gusto tutto nuovo: il gusto della normalità. Ben presto, arrivò il momento di uscire pubblicamente. Si avvicinava il periodo natalizio ed il gruppo decise di festeggiare andando a mangiare una pizza. D'accordo col Dottore, decidemmo che quell'occasione avrebbe dovuto rappresentare il momento in cui io sarei tornata a mostrarmi in pubblico in abiti femminili. Nelle settimane precedenti, i miei pensieri si concentrarono quasi esclusivamente su quel giorno: cosa sarebbe successo se fossi stata derisa davanti a tutti?, e se anche questa volta mi avessero chiesto di allontanarmi dal locale? Finalmente arriva il grande momento. Sono le otto di sera. Bolzano è deserta. Usciamo, il gruppo si accorge del mio stato di tensione, ed in un battibaleno mi ritrovo con cinque, sei persone attorno, che mi scortano. Poi, davanti all'ingresso della pizzeria, uno dei ragazzi mi offre il suo braccio ed assieme varchiamo la soglia. Mi sento addosso gli sguardi di tutti i clienti. In realtà, dopo una rapida occhiata per verificare chi stesse entrando, nessuno bada più a me. La prima "fase" è andata bene. La cameriera, con gentilezza, ci indica i nostri posti. Nessun paragone con Parigi: qui vengo trattata come una cliente qualsiasi. Non uno sguardo, una parola, un atteggiamento, che mi facciano sentire sgradita. L'incontro con la vita Arrivò la Primavera. Era trascorso quasi un anno dal mio ritorno a Parigi. Guardandomi indietro, mi sembrava fossero passati decenni: ero una persona completamente nuova. La mia famiglia, superato lo shock iniziale, stava crescendo con me. L'ultimo tassello a questo mosaico di speranza lo aggiunse, come sempre, il Dottore. Mi offrì di lavorare per un centro di lotta alla dipendenza da gioco da lui diretto. Fu il punto di svolta definitivo. Eravamo riusciti a resuscitarmi dalla morte emotiva, dal disagio, dai sensi di colpa e dagli incubi. Sin dal mio ingresso al Centro, stabilii un legame molto forte con Federico. Federico è stato spesso il "primo" nella mia vita. E' stato lui il primo a farmi un complimento, e sempre lui è stato il primo, che non fosse il Dottore, a venire, con me sola, a prendersi un caffè, senza imbarazzo. Piccoli gesti, ma importantissimi. Un giorno - eravamo con uno stand ad una fiera del sociale - Federico mi regalò una splendida rosa rossa, il primo fiore che ricevevo in dono in vita mia. Mi ero chiesta sovente, chi sarebbe stato il primo uomo a regalarmi un fiore. Mi ero immaginata diverse situazioni, e ci avevo ricamato sopra, sognando. Il modo in cui Federico mi porse quella rosa, il piacere che dimostrò nell'offrirmela, superava ogni mia precedente immaginazione. Non so se Federico se ne fosse reso veramente conto, ma era riuscito a farmi sentire realmente donna, né ex-uomo, né transessuale: donna, e felice. All'indomani, vennero a farci visita allo stand i miei genitori. Fu la prima volta che mio papà mi vide in gonna. Mi aveva già visto spesso in abiti femminili, ma non avevo mai indossato una gonna davanti a lui. Non mi disse nulla, anzi, si comportò con estrema naturalezza, parlando di me davanti agli altri come di "Stefania" e di "mia figlia". Nel frattempo, avevamo preso contatto con una psichiatra che avrebbe avuto il compito di accertare o meno l'esistenza di psicopatologie nella mia mente. Il ventidue giugno iniziai le perizie in cui fui sottoposta a visite mediche, anamnesi psicologiche e mediche e a tutta una batteria di test. Quindi, a fine giugno andai da un endocrinologo, all'ospedale di Bolzano, per iniziare la terapia ormonale. Il tre luglio, alle 12 e 43, con un rituale volutamente eccessivo, prendevo la mia prima pastiglia di ormoni, estrogeni coniugati; un dosaggio molto basso, che avrebbe dovuto aiutare il mio corpo ad abituarsi a questi nuovi agenti esterni, che erano comunque destinati a tenermi compagnia per tutto il resto della vita. L'inizio della terapia ormonale rappresentava un ulteriore, importante passo per me, lungamente atteso. Non si trattava solo di assumere una pastiglia, che in qualche modo avrebbe modificato fortemente il mio corpo, eliminando i caratteri secondari tipicamente maschili e sviluppando quelli femminili: era anche, in un certo senso, un taglio netto con il passato. Ricordo che la preparazione all'assunzione di ormoni non fu affrontata con leggerezza: quando agli estrogeni aggiunsi anche gli antiandrogeni, capivo benissimo che mi stavo castrando chimicamente, e che l'assunzione continuata di quegli ormoni mi avrebbe impedito per sempre di avere dei figli. Federico Dopo l'estate mi accorsi che stava accadendo qualcosa di strano, che stentavo a riconoscere. Mi innamorai di Federico. Innamorarmi di lui ha rappresentato l'abbandono, cosciente o meno, di una difesa razionale verso i miei sentimenti, che avevo eretto negli anni. Innamorarmi di Federico è stata una grande conquista, anche se forse sarebbe più giusto dire, che la conquista consiste nel fatto di essermi innamorata tout court, di aver aggiunto alle mie emozioni un sentimento, la cui assenza era di ostacolo alla mia piena realizzazione. Anche in questo, Federico è stato il "primo". Lui si dimostrò lusingato, ma..."non era innamorato di me". Malgrado i miei sentimenti verso Federico occupassero la maggior parte delle mie energie, avevo comunque iniziato le pratiche per ottenere l'autorizzazione all'operazione da parte del Tribunale. L'11 dicembre si tenne l'udienza, che nei primi giorni di gennaio arrivò il via livera all'intervento. Finalmente sentivo di avercela quasi fatta, di essere ad un passo da una vita normale in un corpo adeguato. Col Dottore, ci adoperammo subito per iniziare le pratiche del mio ricovero. Ci mettemmo subito in contatto con il primario della clinica urologica dell'ospedale di Cattinara, a Trieste, che mi spiegò nei dettagli l'operazione, e mi diede il numero di telefono per fissare la data. Cosa che feci immediatamente: l'operazione venne fissata per il 5 maggio. Molto prima di quanto mi sarei aspettata. Mancavano meno di ottanta giorni. La sera parlai con i miei genitori. Chiesi se si sentissero pronti, e li invitai ad affrontare un colloquio preparatorio col Dottore. Spiegai che, comunque, questa operazione era una cosa che riguardava solo me, che in nessun modo avrebbe intaccato i nostri rapporti personali, che l'intervento non mi avrebbe fatto prima morire e poi rinascere, ma mi avrebbe permesso di sentirmi in armonia col mio corpo, di non farmi schifo quando mi guardavo allo specchio. Si dichiararono abbastanza scettici (in particolare mio papà: "Se tu sei pronta, allora sono pronto anch'io"), affermando che si erano preparati per due anni a questo momento. La mattina seguente, arrivò il colpo di scena. Il Dottore si presentò nel mio ufficio: "Hanno chiamato da Trieste: l'intervento è anticipato. Devi entrare in ospedale il primo marzo". Mi ritrovai catapultata su Marte. Il primo marzo era tra dieci giorni, tra pochissimo. Mi accesi una sigaretta ed iniziai a girovagare per i corridoi dell'associazione con un sorriso inebetito stampato sul viso. Ultima fermata Trieste "Dodicesimo piano. Clinica urologica". La voce metallica dell'ascensore annunciò che eravamo arrivati a destinazione. Il mattino seguente, alle sei, iniziarono le analisi. Mi comunicarono che l'intervento era previsto per la settimana seguente. Le giornate scorrono veloci. Arriva domenica, il giorno peggiore dal punto di vista del mio stato d'animo: ho paura del dolore, dell'anestesia, che qualcosa vada storto... Non dimentico comunque ma, che presto sarò come ho sempre voluto essere, almeno da un punto di vista fisico. Martedì sedici marzo: il grande giorno, il giorno che più ho atteso in vita mia è finalmente giunto. La sveglia arriva poco dopo le sei. Alle otto sono in sala operatoria. Tornai di sopra poco dopo le tre del pomeriggio. L'unica cosa, che ancor oggi ricordo del mio risevglio, è il bruciore che avevo ai talloni. Mi sembrava che fossero in fiamme, e non riuscivo ad appoggiarli sul letto. Le sensazioni relative al mio nuovo stato fisico erano molto diverse da come me le ero immaginate. Nei miei "sogni", avevo creduto di poter percepire sin da subito i mutamenti avvenuti nel mio apparato sessuale. In realtà, non fu così. In parte, questo era dovuto ancora all'effetto dell'anestesia e dell'antidolorifico, in parte al catetere, al tutore vaginale e alla medicazione, ma soprattutto era dovuto al fatto, che non conoscevo il mio nuovo corpo. Tutte le sensazioni fisiche che provavo, le riportavo al mio stato fisico precedente. La neovagina ed il neoclitoride erano stati creati utilizzando i tessuti e le terminazioni nervose, che già avevo. Questo si traduceva nella sensazione, da parte mia, che nulla fosse cambiato. Da un punto di vista psicologico, invece, il discorso era ben diverso. Sapevo che lì tutto era cambiato, che tutto era come avrebbe dovuto essere sin dalla nascita e la consapevolezza di questo mi procurava uno stato di grande benessere interiore. Sembrava che le cose stessero andando per il meglio. Purtroppo, però, verso le sette ci accorgemmo di un imprevisto. Ero sdraiata sul letto, con le ginocchia sollevate. Non mi ero accorta di nulla, ma ero sdraiata su una enorme chiazza di sangue, che usciva dalla medicazione. Aperta la medicazione, poterono constatare una forte perdita ematica al livello del neoclitoride. Non era comunque una situazione particolarmente imprevedibile: in fase operatoria, infatti, si cerca di coagulare il meno possibile il neoclitoride, al fine di preservarne al meglio la sensibilità. Optarono per una nuova medicazione, che premeva sul punto dell'emorragia, e la cosa parve avere successo. Durante la notte, alle quattro del mattino, iniziai a sentire forti dolori e chiesi l'intervento di un anestesista, che puntualmente arrivò. In mattinata, l'emorragia riprese. Effettivamente, si trattava di una perdita dal neoclitoride. Nel frattempo avevo già perso parecchio sangue, mi fecero una trasfusione. Passarono poche ore, ed iniziai nuovamente a sentire il sangue che mi scivolava lungo l'inguine. Mi riportarono in sala operatoria. Stava succedendo qualcosa, che non avevo previsto e di cui non sapevo la gravità. Non ho coscienza di quello che accadde nei due giorni seguenti. La debolezza e l'anestesia mi hanno lasciato solo alcuni flash. L'intervento, fortunatamente, andò bene. Il professor Trombetta e la sua équipe riuscirono ad arrestare il flusso di sangue, preservando nel contempo la sensibilità clitoridea. Le cose cominciarono lentamente a migliorare. Finalmente, dopo tre gironi, fui in grado di alzarmi e di lavarmi da sola. La ferita si rimarginava bene e velocemente e, durante la medicazione, chiesi di poter vedere com'era fatto il mio corpo. Presi uno specchio, e vidi il riflesso di una vagina gonfia, senza peli e con i punti di sutura in bella evidenza. A dispetto della "spettacolarità" decantata dal professor Trombetta, mi apparve bruttissima. Pur avendo visto il risultato dell'intervento, non riuscivo ancora a percepire le sensazioni, che da lì mi giungevano. Continuavo a riportarle a "prima". Fu il giorno dopo, che per la prima volta mi resi conto che ero effettivamente cambiata fisicamente. Nel primo pomeriggio iniziai a provare alcuni dolori, dovuti al catetere. I medici decisero che si potevano togliere catetere e tutore. La più bella sensazione mai provata in vita mia! Sentivo, percepivo e capivo i cambiamenti del mio corpo. Era tutto vero! Non era più solo l'immagine riflessa in uno specchio o una sensazione, che non riuscivo a collocare in nessun posto: era il sogno diventato realtà, era il bruco che diventava farfalla, definitivamente e per sempre! Mi aspettava ancora da affrontare una prova: la mia prima pipì da sola. Siccome pareva non arrivare mai il momento di farla, ebbi la brillante idea di bere un litro e mezzo d'acqua nel giro di dieci minuti. Un quarto d'ora dopo mi accompagnò in bagno Francesca, l'infermiera che aveva il compito di controllare l'andamento della mia minzione. Fu un'avventura molto lunga. La mia "prima volta" durò, infatti, la bellezza di un'ora e dieci minuti, in una situazione che può ben definirsi comica: io, seduta sul water e Francesca sul bidè, a controllare l'andamento della cosa. Il primo effetto, fu la sorpresa. Non usciva da dove me lo sarei aspettata, ma da molto più in basso; poi, si dilettò in strane coreografie, dalla girandola all'evacuazione a gocce; infine, gli strani rumori, ai quali non ero abituata. Così, Francesca fu costretta a rispondere a domande tipo "perché esce di qua?" e "perché gira?" , oppure a commentare affermazioni tipo "ma fischia!". Nell'oretta, che trascorremmo assieme, Francesca mi insegnò i punti sui quali dovevo fare pressione, per agevolare la minzione, come tenere le gambe e come farmi poi il bidè. Domenica, ventotto marzo: dimessa. Venne a prendermi mio fratello. Guardai in lontananza la sagoma dell'ospedale, lì sulla collina, farsi via via più piccola. Tornavo a casa. Il sogno era realizzato, potevo imparare a vivere, da sola.
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Stefania
Gander è nata
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