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"Tra
la gente di Volgograd per tentare di capire..."
Parla un volontario: viaggio da molto
lontano per avvicinarsi al cuore dei conflitti nel Caucaso
Nel
giugno del 2000 siamo stati in Inguscetia e abbiamo incontrato i profughi
di una guerra dimenticata dai media ma soprattutto dalle diplomazie di
tutto il mondo che si inchinano al fatto che la Russia è più
grande e potente della Jugoslavia di Milosevic. Le poche organizzazioni
internazionali lavorano scortate, il pericolo dei rapimenti è concreto
e rende il Caucaso uno dei posti più pericolosi per gli stranieri.
I rapitori sono sicuramente ceceni e ingusci ma pare che anche una certa
parte del potere russo abbia interesse che questa “tradizione” locale continui.
Abbiamo incontrato
i profughi che vivono nei numerosi campi in Inguscetia e, in Cecenia, abbiamo
incontrato chi è rimasto durante tutta la guerra e chi sta cercando
di ritornare a casa. Tutte queste persone sono accomunate da una profonda
sofferenza e disagio nella vita quotidiana. Per chi vive nei campi c’è
il disagio della vita in tenda o negli stretti vagoni ferroviari, per chi
è rimasto in Cecenia si aggiungono le paure di rimanere coinvolti
nelle schermaglie fra forze russe e cecene che tutt’oggi si fronteggiano.
Il viaggio ci ha fatto capire che per entrare in questa guerra dobbiamo
conoscere profondamente la cultura e la lingua russa. Riuscire a valutate
il rischio dei rapimenti da soli è un obiettivo che ci permetterebbe
di avere i mezzi per stare in mezzo alle persone che per questa guerra
soffrono, senza dover utilizzare una scorta armata al nostro seguito. Ci
viene chiesto chi siamo e che cosa vogliamo fare per questa gente.
Entrare nella guerra
in Caucaso è, però, difficile e il metodo diretto che abbiamo
usato finora, qui non funziona. Noi bravi pacifisti occidentali dobbiamo
fare un bagno di umiltà e entrare in questa guerra da lontano. Queste
premesse ci hanno portato a fare dei passi indietro e ci hanno portato,
nel gennaio 2001, a ricominciare da Volgograd.
C’è anche chi ci parla
di Putin, il presidente russo, come l’uomo forte, quello che ci voleva
dopo Eltsin. Ci dicono anche che da pochi giorni, su volontà presidenziale,
è stata abolita una legge che risaliva alla glasnost gorbacioviana
che impediva le denuncie anonime. Può sembrare una sciocchezza ma
può essere un ritorno alla politica della delazione di sovietica
memoria.
Una sola donna con la madre
è scappata recentemente. Alla domanda su come abbia vissuto la pace
tra le due guerre (Tra Il ’96 e il 99) lei risponde: “con paura”. Racconta,
come tante volte abbiamo sentito da altri in altri posti, di essere scappata
con solo quello che indossava e di aver lasciato a Grozny tutto quello
costruito con il lavoro di una vita.
Riflettendo poi sulla breve esperienza nel campo mi rendo conto che, anche se l’approccio con questa gente é diverso, più difficile, rispetto alle mie esperienze precedenti ho sentito il calore del contatto il fatto che finalmente eravamo in mezzo alla gente che sta soffrendo per una guerra che a ogni nostro tentativo di entrarci ci respinge lontani. Non sappiamo ancora cosa potremmo fare per questa gente; siamo convinti che lo starci in mezzo, il favorire il dialogo, permettere a queste persone di sfogarsi sia una cosa concreta, evidente, ma da queste parti non possiamo essere quello che siamo stati nei Balcani o in Messico. Qui, forse, dobbiamo fare qualcosa di “concreto” per avere la scusa di vivere in mezzo a questa gente. Vediamo che le donne lavano i panni a mano e pensiamo ad un’idea quasi stupida che, però, potrebbe farci entrare in rapporto con i profughi: comprare una lavatrice e lavare i panni per loro. Abbiamo parliamo con la responsabile di un associazione locale la quale ancora non capisce perché vogliamo tanto andare a stare in mezzo alla gente e continua a parlarci di aiuti materiali. Io penso che vivendo
in mezzo ai poveri cercando di vivere come loro vivono la lettura dei loro
bisogni sarà piu’ chiara e l’aiuto che ne deriverà, concreto
o no, sarà più mirato. Questa mia convizione cresciuta con
la mia esperienza balcanica, fatta di condivisione e di osservazione delle
grandi macchine umanitarie, da queste parti sembra di difficile applicazione.
Forse per fare quello per cui siamo venuti fin qui dobbiamo metterci una
maschera, almeno all’inizio, o forse dobbiamo andare a testa bassa, passo
dopo passo, con umiltà e capacità di recepire una mentalità
che é diametralmente opposta alla nostra. Di due giorni passati
in quella baracca mi porto a casa i sorrisi di queste persone all’udire
il nostro russo ancora stentato, la grande ospitalità che ci ha
fatto sentire in imbarazzo. Come sempre i volti e le voci di queste persone
si scolpiscono nella memoria ma questa volta, come mi era accaduto in Inguscetia,
la frustrazione è maggiore. Capiamo l’importanza di stare in questa
zona, anche se sembra un posto tranquillo, il conflitto è vicino,
oltre alla presenza dei profughi, una settimana dopo la nostra visita sono
scoppiate tre auto bomba nella regione provocando trenta morti e circa
un centinaio di feriti. Non riusciamo ancora a trovare il modo di aiutare
e di stare con questa gente.
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o | Pubblichiamo
una pagina di diario
dal Caucaso scritta da un volontario italiano che ha partecipato alla prima fase di un progetto in RUssia dell'associazione Giovanni XXIII di Rimini. - Altri articoli Le
guerre
Interviste sul conflitto ceceno Italia,
un prete
(2 maggio 2001) Le
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