di DIMITRIS ARGIROPOULOS
Sgomberi
piccoli e drastici in ogni quartiere, trattamento abituale verso chi orbita
le periferie della città per assenza e proibizione di altri spazi.
Dodici persone
(due famiglie e due singoli) sono state espulse, Venerdì 18 Febbraio
2000, dal campo di Via Persicetana, all’estrema periferia di Bologna (Borgo
Panigale), dove avevano trovato accoglienza “abusiva” in un’area di proprietà
pubblica destinata alla sosta temporanea di carovane e di fatto istituita
come centro di prima accoglienza per 20 profughi della ex-Jugoslavia, quando
nei primi anni del ’94 fu applicata a Bologna la legge 390/92.
I trofei dello
sgombero: due camion di rifiuti, elemento e argomento ventilato per giustificare
una politica che ormai si basa esclusivamente sull’espulsione. C’è
da chiedersi se questa politica non abbia quel risvolto religioso che ha
investito “ecologicamente” la Carinzia. La storia si ripete. Lo sgombero
del Cerioli nel settembre ’99, unica soluzione prospettata ai circa 180
profughi rom per lo più serbi e kosovari che abitavano nell’area,
non ha cancellato la loro presenza in città.
Sgomberi, allontanamenti
ed espulsioni fanno ormai strutturalmente parte della politica di sicurezza
e della proverbiale ospitalità bolognese: nel 1998 dai dati relativi
all’attività della Polizia Municipale di Bologna risultano effettuati
120 sgomberi per occupazioni abusive di stabili e 677 allontanamenti di
caravan di “nomadi” dalla città.
Eppure a Bologna
la solidarietà non è mancata, anche se accompagnata costantemente
dalla minaccia/ricatto dell’espulsione che, alla fine, è diventato
il meccanismo per eccellenza per governare il fenomeno dell’immigrazione
e del rifugio umanitario. Dai due censimenti effettuati dal CIR nel 1993
e nel 1995 delle persone che erano allora accampate sul lungo Reno, risulta
che almeno 1099 profughi della ex-Jugoslavia, per la maggior parte di etnia
rom, sono arrivati a Bologna nei primi anni ‘90 a causa della tensione
politica e della guerra in corso nel loro paese.
Di questi,
solo la metà (498 persone) hanno trovato una sistemazione nei centri
di prima accoglienza aperti nel ‘94 in diversi comuni dell’area metropolitana
di Bologna, con progetti ben strutturati che miravano all’integrazione
e autonomia dei profughi.
A sei anni
di distanza, non si hanno notizie delle 600 persone che non hanno trovato
alcuna forma di accoglienza, e sono incerte anche le notizie intorno alle
120 persone che, alla data del febbraio ‘98, non risultano più presenti
nei centri di prima accoglienza.
E’ probabile
che una parte di loro siano rientrati in patria o abbiano trovato un’altra
sistemazione sul territorio, ma è pur vero che sono state effettuate
diverse espulsioni dai centri di accoglienza, rispetto alle quali non si
hanno informazioni più precise sulle motivazioni che sottostanno
a questa drastica scelta istituzionale.
Del resto,
l’espulsione è uno degli strumenti che hanno accompagnato gli interventi
di accoglienza a Bologna (Via Agucchi 1995 e 1996, Cerioli 1999, Persicetana
2000) ed è la causa principale della mancata sistemazione presso
i campi perfino di persone che pure hanno un permesso di soggiorno per
motivi umanitari e godono quindi di precisi diritti.
Il sistema di
accoglienza che si sviluppa con l’applicazione della legge 390/92 e che
coinvolge 15 comuni del bolognese nel ‘94, nasce anche come risposta istituzionale
ad un periodo caratterizzato dall’emergenza creata dalla logica terroristica
della Uno Bianca e dai suoi effetti. Una risposta istituzionale di emergenza
all’emergenza terroristica e non una risposta alla sopravvivenza/emergenza
che contemplasse pienamente gli individui e le famiglie del lungo Reno.
Questo procedere
con l’emergenza stabilizza una logica di gestione del sistema di accoglienza
che, almeno per il Comune di Bologna, è permeata da assistenzialismo,
repressione e controllo e si “giustifica” attraverso lo sfondo integratore
della “sicurezza” che imposta retorica e comportamenti istituzionali assai
autoreferenziali.
La parola solidarietà
che ha trovato timidamente un posto durante l’avvio della “bonifica” del
lungo Reno, scompare per lasciare posto alla repressione/espulsione giustificata
e al controllo che apre le piste di una autogiustificazione sempre più
profonda e sempre più generale e si snatura perché diventa
strumento e azione degli interventi sociali.
L’affaire Gabbiano
è l’emblema di questo agire. Filosofia e logica istituzionale e
del sussidiario privato sociale. Quello che soprattutto preoccupa, non
è tanto la vicenda giudiziaria legata alla gestione dei fondi che
ha coinvolto con l’opportuno scandalo la città, ma due questioni
fondamentali:
· la prima è
che questa cooperativa (e non solo questa) abbia avuto mano libera nella
gestione dei CPA sia sul piano tecnico che su quello amministrativo (ma
questo lo verificherà adeguatamente la Magistratura) perché
ha aderito pienamente alla logica istituzionale impostata sul controllo
e sulla repressione/espulsione e non sui bisogni delle persone, trovando
così la piena fiducia delle persone che avrebbero dovuto quanto
meno verificare il suo operato;
· la seconda, e questo
è il vero nocciolo della questione, è il fatto che tutto
ciò abbia trovato il consenso e la piena adesione fra molti
operatori sociali, pur muniti di titoli e professionali e accademici, che
si sono completamente uniformati a questa logica e che agiscono in modo
contorto assumendo ruoli ben lontani da quelli loro assegnati professionalmente
e socialmente.
Una intenzionalità
istituzionale e politica distorta e autolesionista che risponde all’emergenza
con l’emergenza, crea così una realtà operativa che le è
speculare.
Le espulsioni dai campi
dopo l’accoglienza, non giustificate a livello istituzionale, si legittimano
con un’operatività sociale conforme, che securitizza gli interventi
eliminando o distorcendo la mediazione e che si affanna a descrivere negativamente
il suo oggetto/soggetto di intervento. Intervento che si eternizza intenzionalmente,
facendo sì che la dimensione dei campi diventi l’unica possibile
per i profughi e non più superabile, se non attraverso l’espulsione.
Un’amalgama di eternizzazione
e securitizzazione attribuita esclusivamente all’altro, allo zingaro profugo.
Gli argomenti
operativi in proposito rafforzano le posizioni politico istituzionali,
anche adesso, a dieci anni di distanza dall’emergenza del lungo Reno, forse
perché le risposte alle emergenze si sono susseguite sempre uguali
a se stesse, facendo diventare l’espulsione lo strumento per eccellenza.
Il dilaniarsi
del privato sociale che oggi si interroga sugli appalti, non considera
proprio i soggetti in cui trova la propria ragione di essere.
Il clima politico
e culturale diffuso non è solo quello della sottomissione e dell’accettazione
passiva ma anche quello della frode diffusa, mentale e intenzionale, anche
se non sempre realizzabile, comunque pensata e accettata, che consiste
nel trarre vantaggi / profitti da questa situazione, perpetuando gli inganni.
Manca, nella città,
un confronto dialogico per esaminare le esperienze passate e per valorizzare
l’azione sociale della solidarietà che comunque c’è stata.
Tutto è
impostato sulla logica del mercato, gli interventi cominciano e finiscono
nell’emergenza e nei costi. L’appiattimento sulla logica del minimo ribasso
investe cultura e politica, diventando ovvio e unico contesto di confronto.
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Sui
temi della (non) accoglienza e dell'emergenza continua come comoda strategia
fra il pubblico e il privato di un certo terzo settore autoreferente, riceviamo
da Bologna un intervento di Dimitris Argiropoulos
di
Progetto Rom Europe e Centro Multietnico Navile.
(17
maggio 2000)
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