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pensieri

I nuovi ghetti italiani, rifiutare la complicità del silenzio e muoversi
Paure, allarmismi, repressione e ipocrisia: l'obbligo di non tacere sulle vite calpestate
 

di ZENONE SOVILLA

   Molti di noi probabilmente sono convinti che i ghetti non esistono più, almeno come spazio fisico; certo, non economico e sociale. Eppure, i ghetti ci sono ancora. E non si tratta soltanto dei molti quartieri d'Italia che le cronache amano definire "degradati". C'è dell'altro. Ci sono gli edifici cadenti, le fabbriche in disuso,
i sottopassaggi che diventano nuove case-trappola dell'emarginazione e della povertà. E poi, ci sono i campi nomadi. Forse, il simbolo più forte.
    Sono molti e fra loro diversi, più o meno abitabili, più o meno accettati. Ma restano un simbolo del ghetto. Un simbolo che si fa spazio fisico. Nel quale - a vedere anche da fatti recenti - ci si può aspettare di tutto, anche che ai suoi abitanti vengano revocati i diritti civili e umani. Come quando sono esposti al pugno duro delle autorità o ai ricatti delle medesime, che non esitano, con la complicità dei silenzi o delle notizie deformate, a sottrarre a queste persone la dignità di essere umano trasformandole in emergenza (per noi, altri, non per loro...), in anonimi e oscuri "pericoli pubblici".

   Come quando una cinquantina di rom bosniaci - di cui solo quattro oggetto di un vero decreto di espulsione - vengono trascinati fuori da un campo nomadi, quello romano di Tor de' Cenci, e rispediti a Vlasenica dove li mandano subito via e loro si ritrovano a Kladanj, senza denaro, senza cibo, senza niente. E con loro c'è anche una bambina di dieci giorni. O come quando un altro rom, a Torino, città in cui è cresciuto (era arrivato da bambino, ora ha trent'anni), all'improvviso viene chiamato in questura e espulso. E pensava che lo avessero convocato per dargli, finamente, il permesso di soggiorno che avrebbe significato un lavoro, una casa, mandare a scuola la figlia ora rimasta in Piemonte con la mamma. Invece si è ritrovato a Sarajevo. Senza niente, senza nessuno che lo conosca, senza sapere la lingua. 
   Era un clandestino in Italia? Lui come altri? Forse sì. Forse era fuori dalla "legge" e dalla sua burocrazia, altri come lui sono dentro le regole e vengono mandati via lo stesso, come denuncia il Centro europeo per i diritti dei rom (Ercc). Ma la legge poco importa, quando si fanno le perquisizioni all'alba con metodi brutali, come denuncia ancora l'Ercc. Allora, cos'è la legge e cos'è la coscienza di ognuno, davanti ai ghetti del 2000? Quante volte, nella storia, la legge è servita a umiliare gli esseri umani? Compresa la legge ferrea e bestiale dell'olocausto zingaro, spesso dimenticato, con i suoi fedeli esecutori di 700 mila condanne a morte nella catena di montaggio di una efficientissima necroburocrazia.

Ordine, legalità e nuovi lager

    Ordine e legalità è slogan ormai caro anche al governo di (centro) sinistra in Italia; ma che legge è quella che prima fa crescere in un ghetto (e per giunta sotto la spada di Damocle dello sgombero) un bambino e poi lo rispedisce in Bosnia da adulto? O quella che sbatte al freddo di un luogo loro ignoto un gruppo di profughi dai volti smarriti? Questa legge non può lasciare in pace la nostra coscienza. Così come quei ghetti postmoderni ci devono interrogare su dove stiamo andando, come comunità locali, nazionale, internazionale. Sento in giro tanta gente, politicamente corretta, che per i nomadi, però, non si emoziona più di tanto. Poi, dicono che molti rubano. Non so, magari è vero che fra i nomadi la categoria dei ladri o di chi vive di espedienti border line è sovrarappresentata. Sarà. Ma mi pare ragionevole immaginare che lo sia, più in generale, fra i poveri, fra i disperati, gli oppressi, gli emarginati, gli stigmatizzati. Parlo sempre di chi ruba trasgredendo alla "legge". Ladri di biciclette. Altro sarebbe, ovviamente, se andassimo a vedere il censo di chi ruba "legalmente" in queste nostre società... Rubano di più i nomadi o la mia banca? Un ragazzino manosvelta o una multinazionale assassina? Ti ruba di più un sistema ghettizzante e violento o le sue prime vittime che costringe a rubare per sopravvivere nel fango?

    Allora, vogliamo ghettizzare l'intera categoria "poveri" (e certamente non di spirito nel caso dei rom e delle loro tradizioni...)? Non sono un esperto di cultura rom, né un antropologo del nomadismo; ma so che le indagini più recenti indicano una stanzialità di fatto degli abitanti zingari dell'Italia, una loro aspirazione a un lavoro (per i non nomadi un’utopia infranta…), a una casa, a una vita comunitaria meno aleatoria.

Attivare l'incontro

    Dove voglio arrivare ora? Non so. Vorrei veder attivare l'incontro, il rifiuto del clichè, il meccanismo di autodistruzione di un buonismo che si riempie la bocca di società multietnica ma che - se va bene - i veri ultimi ignora. Multietnica se è come noi, vicina al nostro modello per non dire paradigma. Altrimenti è fuorilegge. A quel buonismo, che è buonismo di sinistra perché la destra neanche a questo arriva, rispondo con la mia indignazione e la mia vergogna. La vergogna della non-civiltà, delle frontiere, della violenza del confine del sangue e del suolo - intesi come valori dominanti e dominio inteso come disponibilità delle altrui vite. Questo è sbattere fuori una bambina rom di dieci giorni che diventa simbolo di un'intera comunità. Ma l'azione violenta, l'atto di pulizia e di polizia - come quando i buldozer spianano i campi malandati e le roulottes - è la grande rimozione del ghetto come specchio della nostra coscienza, del nostro fallimento civile, della nostra incapacità di inventare fuori dal già dato, fuori dai palazzi, fuori dai circoli viziosi di una omologazione che rischia ormai di imbarcare tutti, governi e opposizioni, buoni e cattivi, lupi e agnelli, nell'annullamento delle diversità in un grande lunapark in cui ognuno, al contrario, si sente così diverso da tutti. Affermare se stessi veramente, a questo punto del cammino, sull’orlo dell’abisso - come diceva Angela Carter - resta la risorsa unica e grande della responsabilità individuale, dell’etica, della coscienza di specie in nome della quale dire di no.

Disubbidire, rompere i circuiti del consenso

   Disubbidire, rompere i circuiti del consenso globale, aprire altri percorsi, non temere il confronto né il ricatto di un potere che è gara spensierata a chi governa meno peggio l'esistente (e forse è anche meglio così, che non si imbarchino in chissà quali avventure innovatrici i rètori fatalisti della competizione ineluttabile anima e cuore di tutto...). Ogni coscienza onesta può respingere il ricatto, cercare almeno di tenere viva l'indignazione, se non la estenuante ricerca di vie di uscita che si fatica anche solo a intravedere. Ognuno, nel suo mestiere, nei suoi consumi, nelle sue relazioni piccole e grandi, con la nonviolenza della disubbidienza civile e della non collaborazione può fare almeno un poco; può chiamarsi un po’ fuori dalla retorica del benessere e gettarsi nella mischia dei milioni di ultimi, dei milioni di ghetti (a ognuno, nessuno escluso, il suo). 

    Alzare la testa e non stare sempre al ballo anche se tutti ballano e se non balli ti gira la testa. Gridare il re è nudo, oggi, è rifiutare le ipocrisie di governanti illuminati che per strizzare l’occhio a colleghi più illustri e panciuti combattono guerre umanitarie devastanti. Gridare il re è nudo è rifiutare, per quanto si può senza lacerarsi del tutto, le corporazioni di protetti e protettori, le burocrazie arroganti e inumane, le porcherie degli affaristi a tutto campo, le gerarchie miopi e brutali, gli intellettuali accigliati e pensosi che svolazzano letterariamente angosciati sulla verità senza mai caderci dentro, perché scotta e se scotta fa male e finché si fa teoria si fa teoria ma dire le cose come stanno è altra e sconveniente cosa. Gridare il re è nudo significa, per esempio, esigere da questa politica che l’Italia non sia un paese di lager in cui i bimbi muoiono bruciati, che a queste persone si dia un’altra possibilità di vita.

Gridare il re è nudo

    L'alternativa alla connivenza passiva o alla fuga nel privato, via dalla nausea, resta questa: gridare il re è nudo. Se molto non ci va bene, diciamolo qui e ora; non quando sarà tardi. E' già tardi. Ognuno come e dove può non stia zitto ma gridi, per aprire con la prassi nonviolenta, ma inflessibile, piccole fessure di un altrove possibile, qui e ora, nel tragico monolite che racchiude ipocriti buonismi di una sinistra in corto circuito, solidarismi da discount, falsi allarmismi di destra, tragiche confluenze liberistissime di destra, di centro e di sinistra, cattoliche, laiche, postcomuniste e postfasciste. 

    L’alternativa alla connivenza passiva è tenere fermo lo sguardo sul ghetto. 
E’ portarsi sulle spalle tutto il suo peso. E così camminare, a stento, ma gridando. 
    Con la speranza di aver evitato, almeno, l’inganno più grande.

 "La giustizia è umana, tutta umana, nient'altro che umana;
è farle torto riportarla, da vicino o da lontano, direttamente
o indirettamente, a un principio superiore o anteriore all'umanità"
 (Pierre-Joseph Proudhon)

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Zingari
aprile 2000

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