iriflessioni
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Sul carattere della letteratura
di MARCO PONTONI Magris ha probabilmente ragione; e aggiungiamo che, se delle proprie scelte pubbliche un artista risponde nella stessa maniera di ogni alto cittadino, non esiste alcuna "norma", perlomeno alcuna norma artistica, o estetica, che obblighi lo scrittore ad usare, nell'atto della creazione, le stesse cautele che orientano invece l’operato dello studioso - in questo caso dello storico, poiché è alla comprensione della storia che Magris faceva riferimento - il quale è guidato da criteri metodologici di tipo scientifico. Anzi, è probabile che se l'artista si attenesse a quei criteri, e adoperasse quelle cautele, la sua arte ne risulterebbe irreparabilmente immiserita. Bruce Sterling, al contrario, è fin troppo pessimista; proponiamo queste brevi note per tentare di abbozzare, senza alcuna pretesa di originalità (e con ciò esimendoci dall’obbligo gravoso di ripercorrere tutto quanto è stato scritto al proposito da Aristotele fino ai giorni nostri) una prima linea di difesa per un punto di vista affatto antitetico al suo, riassumibile così: la letteratura, in qualche caso, arriva dritta al cuore delle cose. Ma, e ritornando a Magris, con ciò vorremmo dire che la letteratura arriva anche, in circostanze particolarmente felici, al cuore della storia che si muove accanto o dietro di noi, e nell’impatto sviluppa una forza tale da toglierci il fiato. In tali circostanze proviamo questa curiosa sensazione: che l’autore abbia capito - e incidentalmente ci abbia spiegato - qualcosa che non si può trovare altrimenti che lì, nelle sue pagine. Spesso in qualche rigo appena. Se la narrativa riscrive storia e vita quotidiana... La nostra domanda
dunque è la seguente: che cosa contiene, di diverso, un romanzo
o un poema rispetto ad un testo storico (ma anche sociologico, politico-economico
o quant'altro, a seconda della disciplina scientifica alla quale lo si
voglia raffrontare)? In quali modi particolari una poesia o un romanzo
si accostano al mondo che ci circonda, e agli avvenimenti del passato,
producendo effetti che nessun altro tipo di scrittura è in grado
di produrre?
Fra emozioni e libertà di invenzione La speciale
miscela di libertà di invenzione e di intensità emotiva fa
sì che talvolta un’opera di fantasia possa essere non più
veritiera, più esatta, o più corretta ma forse più
"illuminante" di un saggio o uno studio scientifico. In questa sede vorremmo
soffermarci brevemente su due esempi. Il primo riguarda il tema del colonialismo.
Proviamo a prendere in mano il "Viaggio al termine della notte" di L.F.
Céline, pubblicato nel 1932 (noi lo facciamo nell'edizione Dall'Oglio),
e scorriamo velocemente le pagine del romanzo fino ad imbatterci in quel
famoso episodio, riportato anche in alcune antologie scolastiche, ambientato
in una colonia africana, in cui abbiamo una famiglia indigena di raccoglitori
di caucciù che dopo mesi di lavoro, presumibilmente coatto, nella
foresta (le amministrazioni coloniali imponevano agli africani delle tasse
per il pagamento delle quali essi dovevano prestarsi a corvèes lavorative
nei settori controllati dai bianchi), si reca all'emporio gestito dal mercante
europeo per vendere la sua brava palla di caucciù. Lo scrittore
ci descrive questa famiglia indigena, con tanto di mogli e bambini al seguito,
i cui membri forse non hanno mai visto prima un bianco in vita loro, nell'atto
di spalancare la bocca e di sgranare gli occhi dinnanzi alle "normali"
operazioni di quella che, per chi la sta eseguendo, è senza dubbio
solo un'altra, ordinaria transazione commerciale. I commessi del mercante
(indigeni a loro volta, ma già completamente smaliziati), pesano
il caucciù su una bilancia, truccata; poi il mercante fa due conti
su un pezzo di carta, e infine mette nella mano del capofamiglia indigeno
alcune monete d'argento, intimandogli di andarsene. Ma quello rimane lì,
interdetto. Forse nel villaggio dal quale provviene la moneta non ha ancora
completamente sostituito il baratto, o altre forme di commercio. Forse
non ha abbastanza dimestichezza con il denaro dei bianchi, e non riesce
a capire se lo scambio appena concluso è stato buono o cattivo.
Scrive a questo punto Céline: "Tutti gli amici bianchi si sbellicavano
dalle risa, talmente lui aveva sbrigato bene l'affare. Il negro rimaneva
piantato lì, intontito, dinnanzi al banco, con le sue mutandine
color arancio intorno al sesso. - Te non capire denaro? Selvaggio, allora?
- gli grida per risvegliarlo uno dei commessi, furbacchione abituato e
allenato senza dubbio a quelle perentorie transazioni - Non parlare fransè,
dì? Te essere ancora gorilla, eh? Te non parlare, và! Cous-Cous!
Mabilia! Te essere coglione! Bushman. Gran coglione - ".
Attenzione, perché
in questa pagina non vi è, da parte dello scrittore, alcun pronunciamento
di ordine morale; del resto, essendo Céline egli stesso com’è
noto impregnato di pregiudizi razziali e antisemiti, non sarebbe logico
attendersene. Eppure, forse a prescindere dalle stesse intenzioni dell'autore,
qui in poche battute la misteriosa luce della parola romanzata illumina
il colonialismo in quella sua speciale, raggelante maniera che solo la
libertà di espressione e l'intensità emotiva della parola
narrata possiedono. All'improvviso sembra che qui ci sia tutto: la vera
natura dei rapporti fra dominanti e dominati, il naufragio delle pretese
civilizzatrici dell'uomo bianco, la complicità che si crea fra una
classe particolari di dominati e i suoi dominatori (come, nel lager, fra
aguzzini e kapò), l'abiezione di una vita che si riduce ai soli
gesti del comprare e del vendere. Per quanta saggistica noi si abbia già
letto sull’argomento, la forza della parola narrata ci lascia davvero
senza fiato; dopodiché essa può anche dileguarsi. Riponiamo
il libro; ma l’impatto della parola narrata ha lasciato un’impronta nella
nostra memoria che, nei casi migliori, è destinata a durare anche
tutta la vita.
Italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol Il secondo esempio che vogliamo proporre riguarda un tema meno cruento, quello della convivenza fra italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol, provincia di confine che fu parte dell’Impero asburgico fino al termine della Prima guerra mondiale, quando, in seguito agli accordi di pace fra Italia e Austria, passò allo stato italiano, di fatto alla vigilia dell’avvento del fascismo (che col suo nazionalismo esasperato si macchiò di tante ingiustizie nei confronti dei sudtirolesi e mise in opera un tentativo di italianizzazione forzata di questa terra). Tale tematica non ha dato luogo a molte opere letterarie, quantomeno non a opere di particolare qualità e vigore; quella di gran lunga più nota e più valida è a tutt’oggi senza alcun dubbio "L'italiana" ("Die Walsche" il titolo originale), dello scrittore sudtirolese di lingua tedesca Joseph Zoderer, pubblicata nel 1982 da Carl Hanser Verlag e tradotta in italiano per Mondadori da Umberto Gandini nel 1985. Il libro è ambientato, a quanto è dato di capire, intorno agli anni ’70, in un’epoca quindi assai lontana dalla stagione del fascismo, la cui eredità è stata lentamente sanata con la concessione all’Alto Adige-Südtirol di uno speciale Statuto di Autonomia internazionalmente garantito. Può essere definito quindi un libro sulla “seconda generazione della convivenza”, quella che vive la copresenza di tedeschi e italiani sullo stesso territorio – in particolare nei maggiori centri urbani - come un dato acquisito. La storia ruota attorno ad una protagonista femminile, Olga, sudtirolese di madrelingua tedesca che, lasciata la valle nella quale è nata per andare a vivere in città, a Bolzano, si innamora di un italiano, Silvano, originario del Meridione. Un giorno la donna ritorna al paese natio per assistere al funerale del padre, che nel frattempo è morto, consumato dall’alcol. Il suo ritorno al paese, agli occhi del quale lei è divenuta la "Walsche" (cioè "l'italiana", il termine ha un esplicito connotato dispregiativo) rappresenta per Olga l'occasione per tornare a confrontarsi con un universo chiuso e per certi versi spietato, che non le perdona il suo "tradimento etnico", pur non essendo immune ai venti del cambiamento, quando il cambiamento produca vantaggi immediati (il riferimento è al boom del turismo). Zoderer e le rivelazioni della scrittura creativa Ora, la prima, ovvia considerazione
è che il romanzo di Zoderer fece tanto scalpore per la sua valenza
intrinsecamente "politica"; l'Alto Adige di cui si parlava non era quello
dei depliant turistici e la vita nelle valli tirolesi, o a Bolzano, perdeva
ogni patina oleografica. Non era nemmeno l’Alto Adige della SVP, il partito
di raccolta dei sudtirolesi, né quello degli Schützen o degli
irredentisti che, nel secondo dopoguerra, si sono battuti per la causa
del Sudtirolo libero. Era invece semmai un Alto Adige piuttosto gretto,
privo di autentica nobiltà e profondità morale, diviso fra
bigottismo e pragmaticità contadina. Ma, a prescindere dal giudizio
sull’originalità della visione delle cose espressa da Joseph Zoderer,
qui ci interessa fare notare come, rileggendo il libro a qualche anno di
distanza dalla stagione incandescente delle polemiche che aveva sollevato,
si possano apprezzare meglio alcuni dettagli i quali testimoniano, se mai
che ne fosse bisogno, del carattere rivelatore proprio della scrittura
creativa.
L'inconsapevole radice migratoria degli italiani altoatesini Ma l'osservazione dell'eroina
di Zoderer ci trasporta bruscamente in un altro habitat mentale. In esso
gli italiani dell'Alto Adige vengono visti alla luce delle vicende storiche
che li hanno condotti quassù, cioè come degli immigrati,
o a limite dei discendenti di immigrati, che pian piano hanno preso a prestito
tradizioni proprie degli autoctoni, i tedeschi (tuttavia senza assimilarle
del tutto; Olga osserva che "l'uno o l'altro ordinava perfino il tè
da bere con lo speck, anziché il vino"). Gli italiani non ne sono
pienamente consapevoli, ma la cosa non sfugge ad una spettatrice esterna
dell’altro gruppo linguistico, la quale sottolinea (o meglio stigmatizza)
anche l'inautenticità dei vestiti simil-tirolesi che Silvano e i
suoi amici si ostinano ad indossare. Certo forse Zoderer si allontana un
po' dall'esperienza comune quando fa dire a Olga che talvolta gli italiani,
trascinati dall'atmosfera del locale, intonano volentieri, assieme agli
avventori di lingua tedesca, "non solo la Montanara, bensì inni
nazisti, il più delle volte senza le parole perché non le
conoscevano (...)". È difficile pensare che a un altoatesino italiano
possa venire in mente di cimentarsi (per di più in un locale pubblico!)
con un canto tedesco, soprattutto ignorandone le parole. È più
probabile che si limiti ad ascoltare sorridendo, con l'espressione incuriosita
e vagamente imbarazzata che talvolta si dipinge sul viso dei turisti capitati
per caso, in un paese straniero del quale si ignora la lingua, dentro a
un locale affollato di nativi. E, per venire ai giorni nostri, è
forse più facile che, per effetto della globalizzazione, compagnie
italiane e tedesche, vestite con marche casual americane (made in Indonesia),
e riscaldate non dal Kalterersee ma da qualche birra irlandese, cantino
insieme una canzone di Zucchero, o delle Spice Girls, piuttosto che cori
della montagna o canti nazisti. E che ciò avvenga non in una Gasthaus
quanto piuttosto nella perfetta imitazione di un Pub londinese. Ma, come
dicevamo prima, uno scrittore è libero di inventare, e talvolta
qualche forzatura può essere indispensabile al fine di sottolineare
con maggiore forza una certa situazione.
Quando lo scrittore si confronta con i suoi simili Vorremmo aggiungere,
in conclusione, una nota su quella che sembrerebbe essere una caratteristica
che invece accomuna la storia (ma anche, in generale, altre scienze
umane) e la letteratura. Quando, poco sopra, sottolineavamo come, in un
lavoro scientifico, sia importante dar prova di conoscere bene le fonti,
e gli studi già prodotti sul medesimo tema (per evitare di gettare
via anni di lavoro cercando di dimostrare ciò che altri hanno già
esaurientemente dimostrato) avremmo dovuto aggiungere che anche lo scrittore
ha, per certi versi, se non un analogo obbligo, quantomeno un analogo "cruccio".
Quello di confrontarsi con gli autori che, per lo stile o per gli argomenti
di cui si sono occupati, in qualche modo si collocano nel suo stesso "campo
da gioco". Questo cruccio racchiude in sé infatti quella che Harold
Bloom definisce "angoscia dell'influenza", ovvero il condizionamento che
i classici del passato esercitano sugli autori del presente, obbligandoli
ad un continuo, incessante confronto.
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LETTURA GUIDATA Emozioni e libertà di invenzione Celine
Italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol Zoderer e
le rivelazioni
L'inconsa-
Quando lo
scrittore si confronta con i suoi simili
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