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Sul carattere della letteratura


di MARCO PONTONI
In un'intervista rilasciata a Franca Eller (e ora pubblicata anche in nonluoghi qui) Claudio Magris sosteneva, con buoni argomenti, che "essere scrittori non significa necessariamente saper capire meglio la storia che si muove accanto a noi", ricordando tutti quegli autori, da Pirandello a Céline a Aragon, che hanno appoggiato regimi iniqui, nella loro vita pubblica e in qualche caso, cosa forse ancora più grave, anche nelle loro opere. Il maestro del cyberpunk Bruce Sterling, riferendosi al ruolo sociale della letteratura, ha dichiarato invece seccamente: "Molto periferico. La letteratura ha una struttura che non cattura quelle che sono le questioni cruciali".
   Magris ha probabilmente ragione; e aggiungiamo che, se delle proprie scelte pubbliche un artista risponde nella stessa maniera di ogni alto cittadino, non esiste alcuna "norma", perlomeno alcuna norma artistica, o estetica, che obblighi lo scrittore ad usare, nell'atto della creazione, le stesse cautele che orientano invece l’operato dello studioso - in questo caso dello storico, poiché è alla comprensione della storia che Magris faceva riferimento - il quale è guidato da criteri metodologici di tipo scientifico. Anzi, è probabile che se l'artista si attenesse a quei criteri, e adoperasse quelle cautele, la sua arte ne risulterebbe irreparabilmente immiserita. Bruce Sterling, al contrario, è fin troppo pessimista; proponiamo queste brevi note per tentare di abbozzare, senza alcuna pretesa di originalità (e con ciò esimendoci dall’obbligo gravoso di ripercorrere tutto quanto è stato scritto al proposito da Aristotele fino ai giorni nostri) una prima linea di difesa per un punto di vista  affatto antitetico al suo, riassumibile così: la letteratura, in qualche caso, arriva dritta al cuore delle cose. Ma, e ritornando a Magris, con ciò vorremmo dire che la letteratura arriva anche, in circostanze particolarmente felici, al cuore della storia che si muove accanto o dietro di noi, e nell’impatto sviluppa una forza tale da toglierci il fiato. In tali circostanze proviamo questa curiosa sensazione: che l’autore abbia capito - e incidentalmente ci abbia spiegato - qualcosa che non si può trovare altrimenti che lì, nelle sue pagine. Spesso in qualche rigo appena.

Se la narrativa riscrive storia e vita quotidiana...

   La nostra domanda dunque è la seguente: che cosa contiene, di diverso, un romanzo o un poema rispetto ad un testo storico (ma anche sociologico, politico-economico o quant'altro, a seconda della disciplina scientifica alla quale lo si voglia raffrontare)? In quali modi particolari una poesia o un romanzo si accostano al mondo che ci circonda, e agli avvenimenti del passato, producendo effetti che nessun altro tipo di scrittura è in grado di produrre? 
La risposta a questi interrogativi credo sia racchiusa in due formule: "libertà di invenzione" e "intensità emotiva". 
In primo luogo un testo letterario non pretende di attenersi ai fatti. Rispetto allo studioso lo scrittore è libero di scrivere tutto e il contrario di tutto, ed ogni tentativo di limitare questa libertà, adducendo ragioni etiche, pedagogiche, politiche, scientifiche, religiose, è fatalmente destinato a sfociare in una qualche forma di censura, imposta dall'esterno o anche autoimposta.
In secondo luogo la scrittura, anche per quegli autori che hanno esplicitamente teorizzato il contrario, come Bertold Brecht, prende corpo a partire da un'emozione ed è destinata a produrre un'emozione. Il contenuto emozionale di un romanzo, quindi, è l'esatto contrario di quanto viene richiesto ad un testo scientifico, il quale si pone due altri ordini di finalità: dire qualcosa di nuovo o di diverso su un tema o un fenomeno, e dirlo in maniera tale che le sue conclusioni, le tesi in esso contenute, possano servire come strumento di lavoro per altri studiosi che si cimenteranno con il medesimo tema (da qui ad esempio l'importanza della corretta citazione delle fonti, o la consultazione delle opere già scritte da altri studiosi).

Fra emozioni e libertà di invenzione

   La speciale miscela di libertà di invenzione e di intensità emotiva fa sì che talvolta un’opera di fantasia possa essere non più veritiera, più esatta, o più corretta ma forse più "illuminante" di un saggio o uno studio scientifico. In questa sede vorremmo soffermarci brevemente su due esempi. Il primo riguarda il tema del colonialismo. Proviamo a prendere in mano il "Viaggio al termine della notte" di L.F. Céline, pubblicato nel 1932 (noi lo facciamo nell'edizione Dall'Oglio), e scorriamo velocemente le pagine del romanzo fino ad imbatterci in quel famoso episodio, riportato anche in alcune antologie scolastiche, ambientato in una colonia africana, in cui abbiamo una famiglia indigena di raccoglitori di caucciù che dopo mesi di lavoro, presumibilmente coatto, nella foresta (le amministrazioni coloniali imponevano agli africani delle tasse per il pagamento delle quali essi dovevano prestarsi a corvèes lavorative nei settori controllati dai bianchi), si reca all'emporio gestito dal mercante europeo per vendere la sua brava palla di caucciù. Lo scrittore ci descrive questa famiglia indigena, con tanto di mogli e bambini al seguito, i cui membri forse non hanno mai visto prima un bianco in vita loro, nell'atto di spalancare la bocca e di sgranare gli occhi dinnanzi alle "normali" operazioni di quella che, per chi la sta eseguendo, è senza dubbio solo un'altra, ordinaria transazione commerciale. I commessi del mercante (indigeni a loro volta, ma già completamente smaliziati), pesano il caucciù su una bilancia, truccata; poi il mercante fa due conti su un pezzo di carta, e infine mette nella mano del capofamiglia indigeno alcune monete d'argento, intimandogli di andarsene. Ma quello rimane lì, interdetto. Forse nel villaggio dal quale provviene la moneta non ha ancora completamente sostituito il baratto, o altre forme di commercio. Forse non ha abbastanza dimestichezza con il denaro dei bianchi, e non riesce a capire se lo scambio appena concluso è stato buono o cattivo. Scrive a questo punto Céline: "Tutti gli amici bianchi si sbellicavano dalle risa, talmente lui aveva sbrigato bene l'affare. Il negro rimaneva piantato lì, intontito, dinnanzi al banco, con le sue mutandine color arancio intorno al sesso. - Te non capire denaro? Selvaggio, allora? - gli grida per risvegliarlo uno dei commessi, furbacchione abituato e allenato senza dubbio a quelle perentorie transazioni - Non parlare fransè, dì? Te essere ancora gorilla, eh? Te non parlare, và! Cous-Cous! Mabilia! Te essere coglione! Bushman. Gran coglione - ". 
Dopodiché il mercante si riprende le monete dalla mano dell'indigeno, sostituendole con un pezzo di panno verde, "e gielo legò al collo d'autorità, tanto per vestirlo". 

Il razzismo e Céline

Attenzione, perché in questa pagina non vi è, da parte dello scrittore, alcun pronunciamento di ordine morale; del resto, essendo Céline egli stesso com’è noto impregnato di pregiudizi razziali e antisemiti, non sarebbe logico attendersene. Eppure, forse a prescindere dalle stesse intenzioni dell'autore, qui in poche battute la misteriosa luce della parola romanzata illumina il colonialismo in quella sua speciale, raggelante maniera che solo la libertà di espressione e l'intensità emotiva della parola narrata possiedono. All'improvviso sembra che qui ci sia tutto: la vera natura dei rapporti fra dominanti e dominati, il naufragio delle pretese civilizzatrici dell'uomo bianco, la complicità che si crea fra una classe particolari di dominati e i suoi dominatori (come, nel lager, fra aguzzini e kapò), l'abiezione di una vita che si riduce ai soli gesti del comprare e del vendere. Per quanta saggistica noi si abbia già letto sull’argomento, la forza  della parola narrata ci lascia davvero senza fiato; dopodiché essa può anche dileguarsi. Riponiamo il libro; ma l’impatto della parola narrata ha lasciato un’impronta nella nostra memoria che, nei casi migliori, è destinata a durare anche tutta la vita.
Vale la pena qui di accennare brevemente ad un inevitabile corollario, che ci riporta ancora a Magris: la potenza della parola narrata può farci credere in cose che non esistono, perché nulla la obbliga a porsi al servizio di ciò che è giusto, vero, verificabile, o, per dirla "popperianamente", falsificabile. Quantunque è raro che l'artista inventi qualcosa di sana pianta (è più facile che dia forma a quello che già circola nell'aria) non si può negare che un bravo poeta possa catturarci descrivendo i rumori di una battaglia, il fragore delle granate, le urla delle ambulanze e i gemiti dei feriti, come se fossero altrettante partiture d'orchestra di strumenti ben accordati. Un bravo poeta può unire la sua voce a quelle che mandano i soldati a macellarsi vicendevolmente sulle trincee di qualche guerra, può alimentare l'odio razziale, può spingere alla delazione o al tradimento. In ciò è insita la pericolosità sociale della scrittura creativa, che è poi la pericolosità di tutte le arti. A parziale discolpa degli scrittori si può aggiungere invece che storici, filosofi, fisici, matematici, psicologi o botanici, non sono certo immuni dagli stessi errori, anzi, spesso le loro responsabilità sono ancora più pesanti e manifeste.

Italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol

Il secondo esempio che vogliamo proporre riguarda un tema meno cruento, quello della convivenza fra italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol, provincia di confine che fu parte dell’Impero asburgico fino al termine della Prima guerra mondiale, quando, in seguito agli accordi di pace fra Italia e Austria, passò allo stato italiano, di fatto alla vigilia dell’avvento del fascismo (che col suo nazionalismo esasperato si macchiò di tante ingiustizie nei confronti dei sudtirolesi e mise in opera un tentativo di italianizzazione forzata di questa terra). Tale tematica non ha dato luogo a molte opere letterarie, quantomeno non a opere di particolare qualità e vigore; quella di gran lunga più nota e più valida è a tutt’oggi senza alcun dubbio "L'italiana" ("Die Walsche" il titolo originale), dello scrittore sudtirolese di lingua tedesca Joseph Zoderer, pubblicata nel 1982 da Carl Hanser Verlag e tradotta in italiano per Mondadori da Umberto Gandini nel 1985. Il libro è ambientato, a quanto è dato di capire, intorno agli anni ’70, in un’epoca quindi assai lontana dalla stagione del fascismo, la cui eredità è stata lentamente sanata con la concessione all’Alto Adige-Südtirol di uno speciale Statuto di Autonomia internazionalmente garantito. Può essere definito quindi un libro sulla “seconda generazione della convivenza”, quella che vive la copresenza di tedeschi e italiani sullo stesso territorio – in particolare nei maggiori centri urbani - come un dato acquisito. La storia ruota attorno ad una protagonista femminile, Olga, sudtirolese di madrelingua tedesca che, lasciata la valle nella quale è nata per andare a vivere in città, a Bolzano, si innamora di un italiano, Silvano, originario del Meridione. Un giorno la donna ritorna al paese natio per assistere al funerale del padre, che nel frattempo è morto, consumato dall’alcol. Il suo ritorno al paese, agli occhi del quale lei è divenuta la "Walsche" (cioè "l'italiana", il termine ha un esplicito connotato dispregiativo) rappresenta per Olga l'occasione per tornare a confrontarsi con un universo chiuso e per certi versi spietato, che non le perdona il suo "tradimento etnico", pur non essendo immune ai venti del cambiamento, quando il cambiamento produca vantaggi immediati (il riferimento è al boom del turismo). 

Zoderer e le rivelazioni della scrittura creativa

Ora, la prima, ovvia considerazione è che il romanzo di Zoderer fece tanto scalpore per la sua valenza intrinsecamente "politica"; l'Alto Adige di cui si parlava non era quello dei depliant turistici e la vita nelle valli tirolesi, o a Bolzano, perdeva ogni patina oleografica. Non era nemmeno l’Alto Adige della SVP, il partito di raccolta dei sudtirolesi, né quello degli Schützen o degli irredentisti che, nel secondo dopoguerra, si sono battuti per la causa del Sudtirolo libero. Era invece semmai un Alto Adige piuttosto gretto, privo di autentica nobiltà e profondità morale, diviso fra bigottismo e pragmaticità contadina. Ma, a prescindere dal giudizio sull’originalità della visione delle cose espressa da Joseph Zoderer, qui ci interessa fare notare come, rileggendo il libro a qualche anno di distanza dalla stagione incandescente delle polemiche che aveva sollevato, si possano apprezzare meglio alcuni dettagli i quali testimoniano, se mai che ne fosse bisogno, del carattere rivelatore proprio della scrittura creativa.
   Eccone uno: nel corso del suo lungo monologo interiore ad un certo punto Olga si stupisce dell'amore che gli italiani del Sudtirolo nutrono per i locali tipici tirolesi, cioè per i locali tedeschi. "Quegli italiani - dice Olga - andavano tutti pazzi per le cadenti fattorie, per le Stuben tirolesi rivestite di legno, e a loro piaceva l'atteggiarsi goffo, imbarazzato, degli osti e dei contadini (...)".
Chi, come lo scrivente, è nato e cresciuto in Alto Adige, o chi per qualsivoglia ragione si trovi a dover vivere in questa terra di confine per lungo tempo, fino ad assimilarne usanze e  abitudini, associerà spontaneamente l'idea di "bel posto" (un bel posto dove passare le domeniche pomeriggio, ad esempio) ad una delle tante cantine disseminate in giro per la provincia, esattamente come gli italiani descritti dal personaggio creato da Zoderer. Allo stesso modo troverà naturale associare l'idea di "qualcosa da mangiare" allo speck e al vino (o al mosto e alle castagne) che si consumano in questo genere di locali “pittoreschi”. Quando riceverà degli ospiti da fuori provincia, è lì che li condurrà di preferenza; penserà infatti che le Stuben sono una delle cose che rendono piacevole la vita che si conduce in Alto Adige, da mostrare agli altri con quel bizzarro orgoglio che si prova anche per ciò che magari non ci appartiene veramente (in termini di pura proprietà e in termini di eredità culturale lasciataci dagli ancestors), ma che si considera comunque ”nostro”, essendo parte integrante della nostra geografia esistenziale.

L'inconsapevole radice migratoria degli italiani altoatesini

Ma l'osservazione dell'eroina di Zoderer ci trasporta bruscamente in un altro habitat mentale. In esso gli italiani dell'Alto Adige vengono visti alla luce delle vicende storiche che li hanno condotti quassù, cioè come degli immigrati, o a limite dei discendenti di immigrati, che pian piano hanno preso a prestito tradizioni proprie degli autoctoni, i tedeschi (tuttavia senza assimilarle del tutto; Olga osserva che "l'uno o l'altro ordinava perfino il tè da bere con lo speck, anziché il vino"). Gli italiani non ne sono pienamente consapevoli, ma la cosa non sfugge ad una spettatrice esterna dell’altro gruppo linguistico, la quale sottolinea (o meglio stigmatizza) anche l'inautenticità dei vestiti simil-tirolesi che Silvano e i suoi amici si ostinano ad indossare. Certo forse Zoderer si allontana un po' dall'esperienza comune quando fa dire a Olga che talvolta gli italiani, trascinati dall'atmosfera del locale, intonano volentieri, assieme agli avventori di lingua tedesca, "non solo la Montanara, bensì inni nazisti, il più delle volte senza le parole perché non le conoscevano (...)". È difficile pensare che a un altoatesino italiano possa venire in mente di cimentarsi (per di più in un locale pubblico!) con un canto tedesco, soprattutto ignorandone le parole. È più probabile che si limiti ad ascoltare sorridendo, con l'espressione incuriosita e vagamente imbarazzata che talvolta si dipinge sul viso dei turisti capitati per caso, in un paese straniero del quale si ignora la lingua, dentro a un locale affollato di nativi. E, per venire ai giorni nostri, è forse più facile che, per effetto della globalizzazione, compagnie italiane e tedesche, vestite con marche casual americane (made in Indonesia), e riscaldate non dal Kalterersee ma da qualche birra irlandese, cantino insieme una canzone di Zucchero, o delle Spice Girls, piuttosto che cori della montagna o canti nazisti. E che ciò avvenga non in una Gasthaus quanto piuttosto nella perfetta imitazione di un Pub londinese. Ma, come dicevamo prima, uno scrittore è libero di inventare, e talvolta qualche forzatura può essere indispensabile al fine di sottolineare con maggiore forza una certa situazione.
In ogni modo, un'analisi tanto sottile dei rapporti (anche solo psicologici) fra italiani e tedeschi dell’Alto Adige-Südtirol, e dei particolari "fraintendimenti culturali" che questi rapporti producono, è possibile reperirla in un testo scientifico? Forse sì. Ma certamente senza "l'epifania" che solo il testo letterario, o poetico, possono fare scaturire.

Quando lo scrittore si confronta con i suoi simili

   Vorremmo aggiungere, in conclusione, una nota su quella che sembrerebbe essere una caratteristica che invece  accomuna la storia (ma anche, in generale, altre scienze umane) e la letteratura. Quando, poco sopra, sottolineavamo come, in un lavoro scientifico, sia importante dar prova di conoscere bene le fonti, e gli studi già prodotti sul medesimo tema (per evitare di gettare via anni di lavoro cercando di dimostrare ciò che altri hanno già esaurientemente dimostrato) avremmo dovuto aggiungere che anche lo scrittore ha, per certi versi, se non un analogo obbligo, quantomeno un analogo "cruccio". Quello di confrontarsi con gli autori che, per lo stile o per gli argomenti di cui si sono occupati, in qualche modo si collocano nel suo stesso "campo da gioco". Questo cruccio racchiude in sé infatti quella che Harold Bloom definisce "angoscia dell'influenza", ovvero il condizionamento che i classici del passato esercitano sugli autori del presente, obbligandoli ad un continuo, incessante confronto. 


o
LETTURA
GUIDATA

Fra storia
e letteratura
 

Emozioni e libertà di invenzione 

Celine
e la denuncia
involontaria
 

Italiani e tedeschi in Alto Adige-Südtirol

Zoderer e le rivelazioni 
della scrittura creativa
 

L'inconsa-
pevole radice migratoria degli italiani altoatesini
 

Quando lo scrittore si confronta con i suoi simili
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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