di LOUK HULSMAN e JACQUELINE
BERNAT de CELIS
E’ difficile imporsi con un discorso di negazione:
l’abolizionista del sistema penale prova proprio questa particolare difficoltà
nel giustificare il suo rifiuto del sistema attuale prima di essere autorizzato
a parlare della società senza sistema penale, che egli percepisce
essenzialmente come portatrice di positività. L’abolizionista prefigura
una società il cui sistema statalista costruito due secoli fa non
ha più nessuna ragione d’essere. Ma l’esistenza stessa di questo
sistema l’obbliga a dire preliminarmente perché spera di eliminarlo.
D’altra parte, vi è in questa necessità un vincolo positivo
che gli permette di stabilire realisticamente un contatto con i ricercatori
di oggi nei cui lavori si mette in discussione la giustizia penale e nel
contempo di invitare pensatori e operatori a oltrepassare il livello delle
constatazioni di fatto per lavorare espressamente all’elaborazione di una
logica alternativa che non si limiti alla critica del sistema penale ma
si adoperi alla ridefinizione dei problemi. La parola abolizione quindi
nasconde in fin dei conti un pensiero attivo, prospettiva cognitiva critica
e movimento sociale creatore di libertà, di cui si tenterà
di mettere in luce fondamenti e implicazioni.
I fondamenti della teoria
abolizionista
Due affermazioni
complementari manifestano il duplice fondamento della prospettiva abolizionista:
invece di risolvere i problemi che si suppone debba affrontare, il sistema
penale ne crea di nuovi, è un male sociale. Meccanismi paralleli
di risoluzione dei conflitti mostrano che una società senza sistema
penale funziona già sotto i nostri occhi. Riconoscerla e permetterle
di svilupparsi renderebbe il sistema penale privo di effetti.
Il sistema
penale è un male sociale. Le ricerche delle scienze umane mettono
in evidenza da alcuni anni un fatto molto importante: nel suo reale funzionamento
il sistema penale non risponde affatto agli obiettivi che gli sono stati
attribuiti. Si crede che il sistema penale sia il prodotto di un processo
politico-giudiziario ponderato e coerente che ne mantiene nello stesso
tempo il controllo. Si pensa anche, per lo meno nelle democrazie occidentali,
che il sistema penale è lo strumento indispensabile di una giustizia
che tutela sia i diritti dell’uomo che i valori che questi regimi proclamano
essenziali. Ma niente di tutto ciò è vero.
Il sistema penale è
infatti una macchina burocratica le cui sottostrutture, agendo indipendentemente
le une dalle altre, producono delle decisioni irresponsabili. E il sistema
penale disprezza le persone concrete dei cui problemi si appropria lavorando
senza di loro e contro di loro.
Perché il sistema
penale non funziona
Di queste due
fondamentali accuse mosse al sistema penale, la teoria abolizionista fornisce
un’analisi fondata.
Il sistema penale è
una macchina burocratica. Già nel 1975, un documento delle Nazioni
Unite in vista del quinto congresso per la prevenzione del crimine e il
trattamento dei delinquenti faceva notare che si ritiene logico e coerente
un sistema che «in realtà non lavora come un sistema»
e che non può, data la sua struttura, offrire la coesione che gli
si attribuisce. Il cosiddetto «sistema di giustizia criminale»
è infatti composto da sottosistemi gerarchici appartenenti a corpi
differenti, variamente collegati al potere centrale, le cui regole professionali,
la deontologia, i criteri d’azione, gli orientamenti ideologici si sviluppano
nell’indipendenza reciproca.
Difficilmente
si può chiedere a queste sotto-strutture di perseguire insieme,
nell’assenza di qualsiasi coordinamento concreto, i nobili obiettivi che
il discorso ufficiale assegna al sistema penale: lottare contro la criminalità,
fare giustizia, pr9teggere sia i diritti degli individui che quelli della
società e così via. Ricerche condotte a vari livelli mostrano
invece che la polizia, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria
e le altre istituzioni che partecipano direttamente o indirettamente alla
giustizia repressiva, sono rivolte in modo prioritario verso gli obiettivi
interni che interessano il corpo al quale appartengono: crescita di questo
corpo, benessere dei suoi membri, ricerca di un equilibrio nel compito
da adempiere.
D’altra parte,
l’estrema divisione del lavoro che si osserva nella successione dei piccoli
ruoli attribuiti a ciascuna parte in causa nel processo penale mostrano
fino a che punto la compartimentalizzazione e la professionalizzazione
disumanizzano questo precesso, frappongono uno schermo tra l’interessato
e coloro che consentono il passaggio del caso da una fase all’altra. E
pur vero che questo è un tratto caratteristico delle grandi organizzazioni
burocratiche delle società industriali moderne. Ma è anche
vero che messo in pratica nell’ambito di un sistema il cui obiettivo primario
è d’infliggere punizioni, un tale funzionamento genera delle conseguenze
alle quali conviene fare particolare attenzione: nessuno ha la padronanza
né controlla questa macchina penale concepita per produrre sofferenza,
nessuno può sentirsi responsabile di questa sofferenza né
impedirle di prodursi a un ritmo che è il caso di definire demenziale
poiché in Francia per esempio, il sistema penale manda in prigione
quasi centomila persone all’anno, cioè stigmatizza all’anno, se
si pensa alle famiglie coinvolte, circa mezzo milione di persone.
Il sistema penale opera
attraverso dei meccanismi di riduzione dei problemi umani. Il sistema penale
trasforma gli eventi vissuti in problemi-tipo astratti. Esso funziona a
partire da filtri interpretativi stereotipati che uniformano, riducono,
deformano la realtà.
L'astrazione dal contesto
personale e sociale
Sotto la stessa
etichetta sono perseguite azioni molto diverse: un furto con scasso in
una scuola vuota non è paragonabile a quello che è commesso
nell’appartamento di una persona anziana o sola. Un comportamento aggressivo
in seno alla famiglia non ha niente a che vedere con un atto violento perpetrato
nel contesto anonimo di una strada. Poiché astrae l’atto che incrimina
dal suo contesto personale e sociale e lo priva del suo spessore esistenziale,
il sistema penale lavora in fin dei conti su due falsi problemi, chiuso
in un universo concettuale che non ha più niente a che vedere con
le realtà vissute. E poiché è sua vocazione designare
dei colpevoli per punirli, il sistema penale, dopo aver reinterpretato
l’evento che ha registrato sotto etichetta rigida, rende stereotipata anche
la risposta: la stigmatizzazione dell’autore scelto in vista del castigo.
Il sistema
penale può solo punire, mentre ci sono tanti altri modi possibili
(e generalmente migliori) per reagire a un evento spiacevole o doloroso.
Consideriamo l’esempio della moglie picchiata dal marito. La condanna di
quest’ultimo, la sua eventuale carcerazione sono forse le uniche risposte
possibili? Le donne che di fatto vivono questa esperienza, hanno trovato
altre risposte: consultare un centro d’accoglienza, incontrare altre donne
con lo stesso problema, imparare il karate, andare via da casa, ricorrere
a una terapia familiare insieme al marito e ai figli.
I cinque modelli di risposta
La teoria abolizionista
ha identificato cinque modelli di risposta a una situazione che l’interessato
ritiene non poter sopportare e che attribuisce a un autore responsabile:
il modello punitivo, il modello compensativo, terapeutico, conciliatorio
ed educativo. Il sistema penale in pratica conosce solo il modello punitivo.
Infatti, qualsiasi altra misura, diversa dalla pena organizzata all’interno
del sistema repressivo statalista che ha voluto essere educativa o terapeutica,
non ha mai perso in realtà il suo carattere afflittivo e infamante.
E questo sicuramente a causa dell’origine stessa del sistema penale, concepito
in un’epoca di transizione tra la società religiosa e la società
civile, e rimasto debitore del modello scolastico, a sua volta ispirato
dalla cosmologia medievale. Una verità definita una volta per tutte
e imposta dall’alto, dai giudici che si suppone facciano una giustizia
assoluta quanto serena, un fardello di sofferenze inflitto in risposta
a degli atti ritenuti cattivi e che devono essere purificati, una filosofia
manichea che divide gli uomini in buoni e cattivi, innocenti e colpevoli,
questa è ancora e sempre la logica del sistema penale in vigore
nella società di oggi. Una logica da giudizio universale in cui
il dio onnipotente, onnisciente e vendicatore della scolastica è
stato costituito dal codice penale e dalla corte di cassazione. Alle due
fondamentali accuse appena mosse al sistema punitivo statale (nessuno ne
ha la padronanza, opera su dei problemi che esso stesso fabbrica) vengono
ad aggiungersene altri che finiscono per delegittimarlo.
Il sistema penale rafforza
le diseguaglianze sociali
E ormai chiaro che
il sistema penale si applica quasi esclusivamente alla fascia più
povera o più vulnerabile della popolazione, mentre uno dei motivi
della sua instaurazione, alla fine del diciottesimo secolo, è stata
la volontà di mettere fine all’utilizzo arbitrario e abusivo della
forza dei potenti contro i deboli. Il sistema penale opera infatti come
strumento di emarginazione sociale degli elementi in-desiderabili per le
forze al potere, contrariamente all’affermazione teorica secondo la quale
la giustizia deve essere uguale per tutti. Il sistema penale, tradendo
la sua vocazione democratica, rafforza le diseguaglianze sociali.
Il sistema penale
d’altra parte interviene con violenza nella vita delle persone. La sofferenza
inflitta a coloro che il sistema condanna (una volta su quattro o una su
cinque) alla carcerazione, è generalmente minimizzata. Tanto più
facilmente tra l’altro quanto più essa riguarda una parte della
popolazione a cui coloro che fanno le leggi e coloro che le applicano non
sono psicologicamente vicini. Il carcerato viene privato di molto di più
della libertà. La preoccupazione per i «diritti dell’uomo»
si ferma generalmente alla porta della prigione. Dietro questa porta, i
condannati sono lasciati irrevocabilmente nelle mani di un amministrazione
onnipotente autorizzata ad agire nel segreto. Ora, questi beni e questi
diritti che gli vengono tolti contravvenendo alle carte più solenni,
sono proprio diventati i valori-chiave della civiltà occidentale:
diritto all’avanzamento personale, attraverso l’istruzione permanente e
il gioco dei contatti responsabili e stimolanti con gli altri, diritto
ad avere una famiglia e a prendersene carico, diritto alla salute, diritto
a una vita affettiva e sessuale, diritto a condizioni di lavoro non umilianti,
diritto a degli spazi d’intimità personale.
Un castigo anacronistico
Il criminologo
norvegese Nils Christie sottolinea con
particolare enfasi, a ragione, questo aspetto spesso misconosciuto del
problema: nelle società occidentali, in cui il generale livello
di vita materiale, culturale e spirituale delle popolazioni tende a elevarsi,
la reclusione punitiva è diventata un castigo barbaro, esagerato,
un fossato troppo profondo scavato tra coloro che vi sono condannati e
la condizione ritenuta normale o auspicabile dal cittadino di un welfare
state. Un castigo anacronistico.
La sofferenza dei carcerati
è un male assoluto, perché sterile. Ci sono delle sofferenze
che fanno crescere, che rendono migliori. Questa, e tutti gli osservatori
oggi lo constatano, non è mai creatrice: isolando dei gruppi di
uomini per farli vegetare insieme, artificialmente, in un mondo che rende
infantili e aliena, essa li disumanizza e de-socializza. Questa sofferenza
è un non-senso.
Una società senza
sistema penale esiste già
Così
come è stato necessario vincere la forza di gravità per esplorare
il mondo esterno alla Terra, bisogna uscire dalla logica del sistema penale
per poter concepire una società nella quale sarà scomparso.
I concetti, il linguaggio del sistema penale ci trattengono nella sua orbita
e bisogna fare uno sforzo considerevole per poterne sfuggire.
Quando si parla
di crimine o di reato, sorge immediatamente.un ‘immagine, che lo si voglia
o no: quella di un attore colpevole. Se invece si utilizza la parola evento,
il termine situazione conflittuale, o qualsiasi altro di carica neutra,
si apre uno spazio nel quale possono esistere delle interpretazioni diversificate.
Se si s’ostituiscono i vocaboli delinquente e vittima con l’espressione
«persone coinvolte in un problema» si evita di fissare mentalmente
queste persone in ruoli prefabbricati che limitano la loro libertà
di coscienza e le trasformano ipso facto in avversari. Si lascia aperto
uno spazio nel quale possono essere trovate risposte diverse da quelle
del modello punitivo. Solo quando si esce dal metalinguaggio penale si
sfugge al circolo vizioso delinquenza-carcere-recidiva-carcere che nella
logica penale si presenta come intellettuale. E solo allora si smetterà
di guardare le persone che cadono nelle maglie del sistema come una categoria
a parte, infraumana della società, si smetterà di credere
che non ci sono altre soluzioni che l’emarginazione e che si diventerà
capaci, al di là ‘iella preoccupazione di prevenire che si riferisce
ancora alle definizioni del codice penale, d’immaginare degli adeguamenti
sociali che possano rendere meno frequenti o meno pesanti alcuni problemi
interpersonali indesiderabili.
Il sistema si occupa solo
di una minima parte dei casi potenziali
Ma una sorpresa
attende al varco l’osservatore che accetta di viaggiare fuori dalla gravitazione
del sistema penale: scopre infatti che questo sistema, nonostante determini
un male sociale aberrante, si occupa solo di una piccolissima parte delle
situazioni teoricamente criminalizzabili.
Di fronte al
considerevole volume di problemi interpersonali vissuti in ogni istante
dalla popolazione di un dato paese, pochissimi rientrano di fatto nella
meccanica repressiva, o perché ne rimangono al di fuori, nonostante
siano situati nel campo della sua competenza formale, o perché se
ne fanno carico altri meccanismi di risoluzione dei conflitti. Analizziamo
questo aspetto da più vicino.
Alcuni problemi
definiti di tipo penale non entrano di fatto nel sistema repressivo. Le
ricerche della sociologia penale hanno messo in luce un fenomeno che nell’ottica
penale viene definito il «dato nero» (i casi che dovrebbero
passare per il sistema ma che in realtà gli sfuggono) e che nell’ottica
abolizionista si preferisce considerare come un sintomo del carattere in
fin dei conti irrisorio del sistema penale, un segno del fatto che questo
sistema non è del tutto indispensabile alla società, contrariamente
alle pretese del discorso ufficiale.
Un certo numero
di osservazioni concordano su questo punto: le indagini condotte tra i
soggetti passivi degli atti criminali mostrano in particolare che un numero
molto elevato di atti teoricamente punibili non vengono nemmeno segnalati
alla polizia. D’altra parte, gli studi sui meccanismi di alimentazione
del sistema penale rivelano che la polizia in primo luogo, poi il ministero
della giustizia (nei sistemi continentali) prendono in esame solo una proporzione
limitata dei casi che vengono segnalati loro, cosicché, l’analisi
critica delle statistiche relative alle condanne penali permette di scoprire
che per dei fatti la cui frequenza è sperimentalmente notoria, il
totale delle condanne è praticamente insignificante.
Che ne è degi casi
"smarriti"?
Ci si può
chiedere che ne è dei problemi sui quali il sistema penale non interviene
pur essendo competente a farlo. E innegabile che in una certa percentuale
di casi, le persone lese non sporgono denuncia perché temono rappresaglie
o perché sono convinte che la giustizia sarà comunque impotente.
E che altri, che invece segnalano il proprio problema alla polizia, constatano
con rammarico che il loro caso ritenuto trascurabile dai responsabili dell’azione
penale, non ha seguito nel procedimento penale. Ma un’ analisi meno superficiale
delle situazioni nelle quali si trovano coloro che non ricorrono alle vie
legali, mostra che i problemi definiti di tipo penale che tuttavia non
entrano nel sistema, ne restano normalmente al di fuori per esplicita volontà
delle persone direttamente coinvolte.
Molto spesso,
il soggetto passivo di un reato non ne chiede conto a nessuno perché
non attribuisce l’evento a un autore colpevole o responsabile. Alcuni esempi
molto semplici permettono di cogliere la diversità delle reazioni
di chi subisce un reato. Quando qualcuno muore durante un’operazione, si
sente dire spesso: è stato un incidente, oppure dio l’ha chiamato
a lui, mentre altri chiamano in causa la responsabilità professionale.
Se qualcuno muore per aver ingerito troppe medicine, stesso concerto di
interpretazioni divergenti: alcuni accettano quella che definiscono fatalità.
Altri deplorano che il malato abbia ingoiato per errore, pensano, la dose
fatale. Altri ancora sospettano che la vittima si sia data volontariamente
la morte, approvando o condannando un tale gesto. E se alcuni credono di
intuire che un parente abbia aiutato il malato a togliersi la vita, ci
sarà chi accuserà questo terzo di essersi reso complice di
un suicidio oppure di non aver assistito una persona in pericolo, mentre
altri valorizzano il gesto coraggioso, il servizio supremo reso in nome
dell’amicizia.
I quadri di riferimento
della teoria abolizionisma
La teoria abolizionista
ha così messo in luce una specie di tipologia dei quadri di riferimento
nei quali classificare le interpretazioni che le persone danno di un fatto
vissuto. Un prima classificazione separa i quadri soprannaturali e naturali
da quelli sociali d’interpretazione. In un quadro naturale d’interpretazione,
l’evento è visto come un incidente. Nell’ambito dei quadri sociali
d’interpretazione, possiamo distinguere una griglia sociale strutturale
e una griglia sociale personale.
Nella griglia strutturale,
l'evento è attribuito a una struttura sociale (e la risposta a un
tale evento è quindi individuata nella riorganizzazione sociale).
Nella griglia personale l'evento è attribuito a una persona o a
un gruppo personalizzato. Nell'ambito di quest'ultima griglia si distinguono
dei tipi d'interpretazioni che si concretizzano in cinque modelli di risposta:
punitivo, compensativo, educativo e conciliatorio.
In questa linea d'interpretazione
dei fatti lasciata all'iniziativa degli interessati, si può affermare
che in un numero di casi certamente molto elevato, le persone coinvolte
in fatti che la legge penale definisce punibili non vi ravvisano personalmente
nessun problema, o comunque nessun problema che possa essere risolto con
un intervento criminalizzante. Tutti d'altra parte ne fanno esperienza:
quante volte l'insulto, la calunnia, la violenza nelle parole o nei gesti,
alcuni comportamenti sessuali, l'abuso di potere o d'autorità, fatti
vissuti abitualmente di cui si è stati vittime o attori, avrebbero
potuto motivare un'azione penale in virtù delle regole formali del
sistema e invece non si è fatto ricorso? Se la maggior parte dei
problemi non si risolvesse per vie naturali, la vita sociale sarebbe praticamente
impossibile.
Senza
negare l'esistenza, comprensibile, dei casi in cui è esplicitamente
, e talvolta violentemente, espresso un interesse personale, alcune ricerche
concordanti condotte in diversi paesi nell'ottica del soggetto passivo
del reato, mostrano che le persone che si ritengono vittime di un fatto
spiacevole attribuibile secondo loro a un soggetto determinato non cercano
normalmente la via penale: sperano in generale non di veder punito l'autore,
ma di ottenere il
risarcimento o di ricorrere
a un processo di conciliazione. In questo modo si rifanno, senza saperlo,
a una tradizione antichissima: la distinzione tra caso civile e caso penale
non esiste nelle società naturali , ed è comparsa in occidente
solo molto tardi. Si tratta di una distinzione giuridico-politica che non
si fonda su alcuna natura particolare dei problemi in questione e che le
persone lese ignorano.
I problemi definiti civili
o considerati tali nella pratica
L'analisi
fin qui svolta ha messo in luce che solo una minima proporzione dei fatti
definiti della legge penale come crimini o reati sono realmente perseguiti
e condannati. Questo dovrebbe indurci a porre una prima domanda (inquietante):
perché proprio quei
fatti? Ma un'altra domanda consolida la perplessità dell'osservatore
attento: perch il legislatore e la giurisprudenza sottopongono alla legge
penale alcuni atti o comportamenti piuttosto che altri? Con un'analisi
più approfondita, un numero considerevole di fatti che potrebbero
essere di competenza della legge penale (in virtù degli orientamenti
che sembrano guidare l'attività criminalizzante del potere) in realtà
non lo sono.
Il campo civile
interessa livelli e zone estremamente importanti e differenziate dell'attività
e delle relazioni in terpersonali, nell'ambito dei quali importanti eventi
vittimizzanti sono considerati in un approccio non stigmatizzante per le
persone che hanno portato pregiudizio agli altri, grazie al principio della
responsabilità cosiddetta civile e della nozione di rischio.
E’ estremamente
raro che si ricorra alla via giudiziaria e ancora più raro è
che il sistema penale entri in azione nei settori che hanno una grande
rilevanza economica per la vita di una nazione. Gli importanti problemi
doganali, finanziari, fiscali, ecologici che sorgono nel mondo degli affari
si risolvono normalmente attraverso negoziati, transazioni o arbitrati,
con l'assenso e talvolta su proposta delle amministrazioni pubbliche interessate.
Gli infortuni sul lavoro sono classificati in linea teorica come problemi
civili che vengono regolati dalla previdenza sociale. I problemi relativi
ai contratti e alle condizioni di lavoro sono anch'essi problemi di natura
civile.
Fra penale e civile
In che cosa i problemi
affrontati dal diritto civile si distinguono da quelli affrontati dal diritto
penale? Lo spirito giuridico s'ingegna a giustificare le classificazioni
del diritto positivo. Ma nessun criterio resiste all'osservazione dei fatti.
Gli infortuni sul lavoro, che in Francia producono circa tremila decessi
e più di trecentomila invalidità permanenti all'anno, costituiscono
un fatto di estrema gravità per le numerose famiglie coinvolte.
Le pratiche conciliatorie evocate a proposito del mondo degli affari riguardano
attività anche molto lesive o pregiudizievoli per dei gruppi importanti
della popolazione, talvolta per l'intera collettività nazionale.
Il fatto che i problemi di questo tipo possano cadere sotto la giurisdizione
del diritto civile, dimostra che l'importanza del danno causato non permette
di collocare a priori un evento nel campo penale n‚ di delimitare quest'ultimo.
Altrettanto
può dirsi del preteso “valore essenziale” secondo il quale bisognerebbe
proteggere dall'alto tutti gli altri valori. In Francia, i tre quarti delle
persone attualmente detenute lo sono (o lo saranno perché il 53
per cento sono imputati) perché‚ si sono impossessati di un certo
tipo di beni appartenenti ad altri. Possiamo veramente dire di aver fissato
in questo caso un valore superiore a tutti gli altri? E’ sicuramente sgradevole
essere privati di un proprio bene. Ma non siamo forse più profondamente
colpiti da altri fatti
che non entrano nel circuito
penale: per esempio i problemi riguardanti la condizione di lavoratori
stipendiati o quelli che sorgono nella coppia o nella famiglia? L'assenza
di una nozione ontologica di crimine o di reato, cioè il fatto che
non si possa attribuire ai comportamenti attualmente definiti come punibili
alcuna natura intrinseca particolare, viene messa in particolare evidenza
quando il potere si propone di ribaltare un intero settore da un campo
giuridico all'al tro, secondo gli interessi sociopolitici in gioco.
Essa dimostra
che tutto potrebbe essere civilizzato se esistesse una volontà politica
in tal senso. E questa è proprio la rivendicazione avanzata dagli
abolizionisti del sistema penale.
Le implicazioni della
teoria abolizionista
Quando
si considera il sistema penale un male sociale e quando si vedono già
vivere in controluce delle aree sociali in cui si è imparato a fare
a meno di questo sistema, può non volersi la sua totale soppressione?
Sforziamoci di non utilizzare un certo vocabolario asettico che tende a
occultare la realtà. Come fa notare Nils Christie, quando si parla
di “pena privativa della libertà”, di “responsabili dell'affidamento”
o di “interni”, si finisce per dimenticare di cosa si tratta. Chiamiamo
quindi le pene, l'amministrazione penitenziaria e i carcerati con il loro
nome e cerchiamo di uscire dal discorso puramente ideologico per porci
le vere domande, quelle che si pone da alcuni anni la sociologia penale
e alle quali risponde con una precisione sufficiente a colpire nel segno.
Per esempio: chi è in carcere? Per quali motivi?
In seguito a quali meccanismi
di discriminazione? Che cosa significa la carcerazione per gli uomini e
le donne chiusi nelle carceri così come si presentano oggi? Perché
le persone imprigionate sono escluse dai diritti dell'uomo? Come spie gare
la strana impotenza dei poteri pubblici di fronte all'inflazione dei testi
punitivi e all'aumento costante delle condanne alla pena privative della
libertà, mentre questi stessi poteri pubblici affermano di voler
fare della carcerazione la misura eccezionale di un sistema penale che
sarebbe esso stesso ultima
ratio delle giustizie ufficiali?
Umanizzare il carcere
è sforzo vano
La storia
insegna che è inutile cercare di rendere più umana la prigione
e che modificando gli scopi della pena, o la sua durata, o i suoi fondamenti
teorici o le sue modalità non si può cambiare nulla del sistema.
Così com'è, con le sue strutture burocratiche, i suoi meccanismi
stereotipati che sprezzano i protagonisti reali, e la sua finalità
remunerativa, il sistema penale può solo e sempre essere una macchina
per produrre sofferenze vane.
Se si
vuole uscirne, se si vuole veramente che questo sistema cessi di creare
il male che molti, onestamente, deplorano, bisogna immaginare altre soluzioni.
E quello che cercano di fare i sostenitori dell'abolizione, che pensano
nel medio o nel lungo periodo di farlo sparire e nel breve di disinnescarlo.
Lavorando nell'ambito di un nuovo quadro concettuale che si cercherà
di precisare, con i suoi effetti positivi prevedibili sulla dinamica sociale.
Il nuovo quadro
concettuale. Per l'abolizionista del sistema penale, non si tratta in primo
luogo di riformare dei testi legali, ma di instaurare altre pratiche che
conducono a un'altra visione della società e dei conflitti interpersonali
che attualmente si compongono e scompongono al suo interno. Certo, è
importante cercare di ritoccare i testi legali nel senso più ampiamente
decriminalizzante, poiché strategicamente è impossibile prospettare
nel breve periodo la loro completa sparizione. Ma bisogna anche lavorare
in un'ottica di lungo periodo.
Tener conto dell'esperienza
delle persone coinvolte
E in questa
prospettiva, che cosa propongono gli abolizionisti? Il quadro concettuale
dominante, che scaturisce dalla politica criminale, dalle legittimazioni
del sistema penale e dalla stessa criminologia, presuppone una nozione
ontologica di crimine, e la criminalizzazione primaria cerca di definire
quali sono i comportamenti che risponderebbero a questa realtà,
mentre la criminalizzazione secondaria cerca di reprimerli. La teoria abolizionista
invece negando l'esistenza di una nozione ontologica di crimine, cerca
di trarre le conseguenze da questa negazione. Si intende comunque scartare
qualsiasi schema concettuale che escluda l'esperienza vissuta dalle persone
direttamente coinvolte in una situazione che le vede soggetti passivi di
un reato. Queste osservazioni essenziali permettono di fissare alcuni punti
chiave nella ricerca del discorso alternativo che si tenterà di
elaborare.
L'abolizionismo in pratica
I primi articoli della
logica qui proposta potrebbero essere i seguenti:
- Nessun evento vittimizzante
è aprioristicamente attribuito a un attore colpevole.
- Solo le situazioni
che determinano problemi per qualcuno (persone singole o collettività)
possono essere occasione di un intervento esterno alle persone coinvolte
nella situazione, su domanda di queste.
- Le soluzioni atte
a risolvere o a far evolvere le situazioni-problema, non sono determinate
a priori: la scelta del modello di risposta da prospettare spetta agli
interessati.
- I conflitti che
si producono all'interno di un gruppo vengono risolti preferibilmente in
seno al gruppo. Tuttavia, quando una persona coinvolta in una situazione-problema
spera porvi rimedio con l'aiuto di un intervento esterno, puù ricorrere
sia a una mediazione psicologicamente prossima, sia a una giustizia ufficiale
che lavori sul modello civile di regolamento dei conflitti.
- Quando in una situazione-problema
non è prospettabile nessun ricorso concreto, deve esistere un processo
di sostegno e conforto che aiuti la vittima ad affrontare la situazione.
Una nozione flessibile
di crimine
L'abbandono
della logica penale, chiaramente espresso in quest'abbozzo di “carta”,
si basa su un approccio di cui conviene sottolineare l'originalità.
L'abolizionista intende problematizzare la nozione di crimine (o di reato),
fulcro del sistema penale, e far leva su una nozione flessibile che potrebbe
essere applicata a qualsiasi conflitto interpersonale che richiede una
soluzione: quella di situazione problema. L'abolizionista non vuole agire
come fa la maggior parte dei riformatori sulla fase finale del sistema,
nel momento in cui, dopo averne attraversato tutte le sequenze, l'accusato
diventerà irrimediabilmente un escluso. L'abolizionista, convinto
che le persone afferrate dal sistemane escano sempre in qualche modo degradate
(anche se se la cavano senza condanna), non lavora a valle, quando i giochi
sono ormai fatti, bensì a monte: cerca con ogni mezzo di evitare
che le persone entrino nel sistema.
Ciò
è consentito dall'uso prevalente della nozione di situazione-problema,
che implica il rifiuto del concetto lega le di crimine o di reato e che
è peculiare dell'approccio abolizionista. Da notare che la nozione
di situazione-problema non È proposta in sostituzione del concetto
di crimine, come se si trattasse di trovare una chiave migliore per aprire
la stessa serratura. Contrariamente al concetto di crimine così
com'è presentato e applicato nel sistema penale, quella di situazione-problema
è una nozione aperta, che consente agli interessati la scelta del
quadro interpretativo dell'evento e dell'orientamento da dare all'eventuale
risposta. Bisogna cercare anche di evitare che sotto un nome diverso (ad
esempio con il pretesto della terapia o dell'educazione) siano introdotte
nuove strutture che si rivelano alla fine simili al sistema penale.
Una teoria frutto di un'analisi
libera del presente e del passato
L'abolizionismo
si basa sulle osservazioni precedentemente sviluppate, secondo le quali
un gran numero di situazioni che attualmente rientrano nel campo d'azione
del sistema penale non verrebbero più considerate come necessitanti
un qualunque intervento esterno. Nella società senza sistema penale,
non solo nessun fatto, nessun comportamento sarebbe più definito
ed etichettato a priori come fatto punibile (crimine o reato), ma inoltre
nessuna situazione sarebbe oggettivamente predeterminata comeun problema
da risolvere.
Quindi, concepire
una società senza sistema penale non implica assolutamente che si
forgi un sistema di sostituzione con lo stesso stampo di quello del sistema
abolito. Al contrario, la società senza sistema penale non presuppone
nessun intervento esterno se non su espressa domanda delle persone interessate,
che vedono da sè e per sè questa situazione come un problema
che cercano di risolvere.
Verso una nuova dinamica
della vita sociale
I vantaggi della
logica abolizionista sembrano evidenti: innanzitutto, sopprime ipso facto
il male sociale che il sistema penale rappresenta. Ma altre conseguenze
positive deriverebbero dalla sua realizzazione.
Considerare
non più solamente un atto e il suo attore immediato, ma una situazione
complessa significa precludersi di pensare che l'unica soluzione possibile
consista inun intervento diretto nella vita di quest'attore. Si può
cercare di influire su altri
fattori che hanno potuto contribuire a creare questa situazione. Per esempio:
punire iconducenti può non essere l'unico modo per evitare gli incidenti
stradali.
Comincia invece a
essere messa in prati ca in alcuni paesi una politica di prevenzione nel
senso neutro del termine (senza riferimento al campo penale):
modificando i circuiti stradali,
impedendo la commercializzazione di alcuni tipi di veicoli o regolamentando
altrimenti la circolazione o la patente di guida, si spera di abbassare
la curva dei sinistri. Ancora, ma su un altro fronte, una politica di sdrammatizzazione
di alcuni fatti che i mass media tendono a far credere molto frequenti
e a esagerare, potrebbe far rientrare il senso d'insicurezza e creare un
contesto sociale più sano, in cui potrebbero essere valutati i rischi
reali, allontanata la paura fantomatica e affrontati i veri problemi. Non
si sostiene che qualsiasi evento decriminalizzato cesserebbe di costituire
un problema. Ma non classificare un fatto come punibile per principio significa
in numerosi casi permettergli di venire alla luce: nei paesi in cui non
sono più perseguibili, le donne che abortiscono possono provare
disturbi psicosomatici e i drogati un fenomeno di dipendenza che può
frenare lo svolgimento delle loro attività e il loro sviluppo personale.
La decriminalizzazione
dà in questi casi all'interessato la possibilità di parlare
del suo problema, di consultare le persone che possono dare utili consigli.
La soppressione della minaccia penale ha creato una situazione positiva
di apertura al dialogo e alla solidarietà.
Il ruolo dei mediatori
Nel caso in
cui si presentasse una situazione conflittuale in queste condizioni di
liberalizzazione, i gruppi ai quali appartengono gli interessati svolgerebbero
un ruolo privilegiato come già attualmente fanno per i problemi
che non rientrano nelle competenze del sistema penale. Ma la società
senza sistema penale richiederebbe certamente la moltiplicazione delle
piccole istanze flessibili specializzate nella mediazione che le società
naturali ben conoscono e che con successo vengono di nuovo sperimentate
in alcune regioni del mondo. Diverso dal conciliatore perché non
è un arbitro che impone una soluzione, bensì una persona
solidale che cerca di aiutare gli interessati a capire meglio la loro situazione
e a trovarvi da soli il rimedio, il mediatore è un personaggio da
promuovere nelle società dal tessuto teso.
Una società
in cui si diffondesse la mediazione, in cui le persone cercassero di prendersi
carico solidarmente dei problemi, presenterebbe dei tratti più pacati
e più condortanti che non quella che conosciamo, in cui la monopolizzazione
della giustizia da parte degli apparati ufficiali spinge i cittadini a
scaricare su questi problemi che in realtà sono i soli a poter risolvere
in modo soddisfacente (ammesso che esista una soluzione).
Alcuni problemi
sono infatti senza soluzione, notiamolo ancora una volta, e l'eccessivo
peso dato dalla società ai sistemi ufficiali di giustizia contribuisce
certamente a far credere che questi ultimi possano dispensare dei rimedi
miracolo. In una società in cui sia dato uno spazio importante alle
mediazioni naturali, le persone vittime di un reato sarebbero meno tentate
di credere a questi rimedi-miracolo e, aiutate da questa atmosfera di contorno,
comincerebbero subito a fare su se stesse l'indispensabile lavoro di matura
zione che permette di affrontare
i duri colpi.
Quali speranze ha l'abolizionismo?
La nuova logica
qui proposta ha qualche possibilità di essere favorevolmente accolta
dagli specialisti e dall'opinione pubblica?
Potrebbe sembrare
imprudente sperarlo viste la forza d'inerzia e le resistenze psicologiche
che fanno in modo che si esprima ancora la necessità di un sistema
penale, eventualmente ridotto
a un'espressione minima. Ma queste reazioni si basano su un falso consenso
e alcuni segni precursori di disaffezione mostrano come sia importante
elaborare una teoria dell'abolizione da mettere in
pratica nel momento in cui
forze importanti e convergenti della società si accorgeranno che
si tratta di un obiettivo futuribile. Nella sua posizione teorica, il sostenitore
dell'abolizione del sistema penale spicca certo tra tutti i revisionisti
e tutti i riformisti. Ma non è innanzi tutto un ideologo.
Giunto a questa
posizione attraverso il realismo dell'osservazione empirica e scientifica,
resta un uomo concreto, solidale nei confronti di tutti coloro che vengono
schiacciatidal sistema penale e desideroso di lavorare con tutti i ricercatori,
gli operatori, i penalisti e le persone di buona volontà che di
fatto sconfessano questo sistema.
Numerosi gruppi
di ricercatori hanno, già da molti anni, orientato i loro lavori
in un senso che permette ad alcuni di affermare oggi “la non evidenza del
penale” e di programmare una nuova serie di ricerche tendente a fondare
questa
diagnosi in modo inequivoco.
Altre indagini, realizzate a partire da eventi lesivi, contribuiscono a
mostrare la possibilità di sviluppo di una società senza
sistema penale che già esiste. Si pongono quindi le basi per il
momento in cui una reinterpretazione globale del settore abitualmente designato
come quello proprio della politica criminale sarà diventato agli
occhi di tutti indispensabile.
Una politica più
coraggiosa
Per quanto riguarda
l'opinione pubblica molti colgono gli aspetti nefasti e le controindicazioni,
se non la totale assurdità, del sistema penale. Vengono redatti
rapporti, denunciati scandali, manifestazioni (sporadiche o organizzate)
mostrano una preoccupazione
popolare certa, di volta in volta nei confronti dei carcerati e delle vittime,
i sindacati dei magistrati, degli avvocati, degli specialisti che lavorano
nel parapenale e nel parapenitenziario, anche i sindacati del personale
penitenziario mettono in evidenza nelle loro pubblicazioni specialistiche,
la crisi di coscienza che lentamente contagia tutti coloro che azionano
il sistema.
Resta il fatto che
i dubbi e le aspirazioni testimoniate da questi diversi movimenti non riescono
a coniugarsi per porre le basi di quello che è il vero e proprio
dibattito.
E’ necessario
quindi che una volontà politica osi rimettere in discussione gli
antichi condizionamenti sui quali poggia un sistema desueto ed escogiti
delle soluzioni sociali adatte alla mentalità e alle esigenze della
nostra epoca. Contributire a un tale risveglio costituisce forse attualmente
la principale sfida della teoria dell'abolizione del sistema penale.
(Traduzione
di Francesca Arra)
|
o |
L’approccio
abolizionista alle istituzioni penali
si
basa su due affermazioni fondamentali: l’attuale sistema penale crea iproblemi
che dovrebbe cercare
di
risolvere; non solo è possibile una società senza sistema
penale
ma
a un’attenta osservazione questa esiste già
e
comprende tutta quell’infinita varietà di casi che non rientrano
nelle maglie della legge. Un nuovo quadro concettuale e una nuova logica
permetteranno di abbandonare la tradizione su cui si basa l’attuale sistema
punitivo. Articolando con forza e precisione questa tesi, gli autori mostrano
le ragioni e i vantaggi della posizione abolizionista che, se applicata
coerentemente, condurrebbe nel lungo periodo a un nuovo modo di concepire
i rapporti e le dinamiche sociali.
Louk
Hulsman
è
professore
di
diritto penale
all‘Erasmus
Universiteit
di
Rotterdam.
Questo
articolo
è
tratto da
Volontà
4/90:
"Il
diritto
e
il rovescio",
raccolta
di saggi
di
Hulsman, Bernat de Celis, M. Cossutta, M. Foucault, T. Holterman,
M.
La Torre,
S.
Maffettone,
A.
Monis, S. Vaccaro, C. Wichman,
A.
Yassour.
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La
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