ii percorsi

"Glocalizzazione": qualche idea per un'alternativa dal basso
Unire i frammenti della rete dello sviluppo sostenibile e partecipato
 

di ALBERTO MAGNAGHI   

   Credo che la guerra ci stia imponendo una radicalizzazione del nostro pensiero e del nostro agire. Il nostro compito di intellettuali militanti è innanzitutto approfondire il solco che ci sepa-ra dalla speranza del compromesso: approfondire la polemica con il mondo delle idee che ritiene possibile una dialettica positiva con questa forma di globalizzazione distruttiva, con la quale ci esercitiamo a trovare equilibri, relazioni possibili fra globale e locale; eserci-zi e acrobazie semantiche in cui cerchiamo la quadra-tura del cerchio fra nicchie di costruzione di un diver-so universo antropologico e i processi che ci sovrastano, la cui natura si rivela nuda, feroce, nella guerra; ritengo necessario aprire a tutto campo una nostra «guerra» molecolare contro la globalizzazione economica, più chiara e determinata, in tutti gli aspetti minuti della poli-tica, dell’economia, della quotidianità, delle relazioni sociali. 
   Ogni giorno scivoliamo nell’accettazione di piccole «sovradeterminazioni» che portano in seno la guerra di questi mesi. Il «glocale», stonato come la parola stessa, non funziona. Anche Aldo Bonomi ne conviene concludendo la sua lettera aperta sul «manifesto» del 27 aprile 1999 con "la necessità del rafforzamento della costruzione di razionalità altre".

Una lotta di liberazione dalla globalizzazione economica

   Molte sono state le ragioni etiche, in questo orribile secolo, delle guerre di resistenza. Bisogna lavorare, ciascuno come può, per trasformare il senso comune di resistenza alla guerra in lotta di liberazione dalla globalizzazione economica, che è la forza generatrice della guerra stessa. Come?
Quale rapporto tra globale e locale è possibile dopo (?) la guerra nei Balcani?
Se il globale è la Nato e il locale è Milosevic, siamo perduti. Questa sovradeterminazione ci schiaccia; distrugge ogni sereno ragionare sulle tattiche e sulle strategie di questa difficile relazione.
La Nato forza la globalizzazione economica alle estreme conseguenze del dominio:  scusate, scusate, ancora scusate, ma dobbiamo uccidere per l’estensione del dominio degli Usa. Milosevic è la dimostrazione del teorema Latouche: la globalizzazione crea i suoi mostri «etnici». Stretti in questa morsa che produce morti e sofferenze reali, tremendamente terrigni rispetto alle magnifiche sorti e progressive dell’eterea comunità virtuale del ciberspazio telematico (reti e ancora reti che ci salveranno dalla sanguigna piazza reale delle nostre antiche città?), ci aggiriamo tra le macerie ricercando un senso nel nostro agire quotidiano, nel nostro «fare società locale». 

Fare società locale. Come?

   Cerco allora telegraficamente di indicare alcune rotte possibili del «fare società locale», nel contesto drammatico della globalizzazione economico- militare.

   1] Se la globalizzazione produce per reazione rinserramenti etnico-identitari facili prede di nazionalismi autoritari non dobbiamo esorcizzare la tensione identitaria insieme con le sue forme violente e criminali, d igestione politica come sovente ha fatto la sinistra, in nome della modernizzazione universalistica occidentale. La contraddizione fra capitale e lavoro si è andata desituando nel postfordismo nella contraddizione fra omologazione, distruzione delle culture, «monoculture della mente», polarizzazione sociale e riaffermazione delle differenze, delle diversità; fra eterodirezione e autogoverno. 

Reti di scambio solidali e non gerarchiche fra società locali

  La rivolta identitaria, a scala regionale come nella città multietnica, può evolversi come energia costruttiva per l’affermazione di «stili di sviluppo» fondati sul riconoscimento delle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (ambientali, territoriali, produttive] e su reti di scambio solidali e non gerarchiche fra società locali. Ma questa evoluzione positiva delle enormi «energie da contraddizione» che la globalizzazione produce, richiede una radicale trasformazione della cultura politica centralista verso forme di federalismo neomunicipalista in cui la messa in valore del territorio e delle sue peculiarità come produt-tore di ricchezza avvenga all’insegna della valorizzazione e della cooperazione fra diversità e non dello sfruttamento - esogeno o endogeno - delle risorse umane e materiali. «Accompagnare» la rivolta identitaria verso il «fare società locale», e non negarla a priori ricadendo in un astratto universalismo dei valori, mi sembra il primo salto culturalpolitico da compiere.

Valorizzare le energie virtuose presenti nel territorio

2] In questo contesto è essenziale non guardare con nostalgia agli statuti societari del lavoro salariato e del fordismo. La costruzione di società locali auto-governate e autosostenibli è possibile solo «liberando» le energie del lavoro molecolare diffuso della società postfordista, oggi terminale della grande impresa e del capitale finanziario, verso reti complesse di abitanti-produttori, proprietari dei mezzi di produzione, che fanno società produttiva in proprio, in un patto per la valorizzazione del proprio patrimonio territoriale. La società locale non si inventa. Essa cresce valorizzando le energie virtuose già presenti nel territorio. Lavorare dunque ai nuovi statuti societari di autogoverno del «lavoro autonomo di seconda generazione», in cui il terzo settore può costituire la guida culturale ed etica per l’uscita dell’impresa dalla sua identità economicistica, mi sem-bra un secondo aspetto fondamentale del fare società locale.

Inventare nuovi aggregati comunitari

3] Superare le forme della politica connesse allo statuto del lavoro salariato consiste, come sostiene Marco Revelli nel numero di maggio 1999 di «Carta», nel “non operare in un gruppo omogeneo, ma connettere, contaminare, chiamare a raccolta gli eterogenei, tradurre i linguaggi sociali e metterli in comunicazione in un reticolo orizzontale”. Questa forma della politica è agli albori. Essa riguarda l’invenzione di nuovi aggregati comunitari, di nuove forme di democrazia fondate sull’agire comunicativo, dove un multiverso di interessi, di valori, di differenze trova, fra conflitti e riconoscimenti dell’alterità, le forme di un patto concertato, in continua evoluzione. Il fare società globale è qui un’incessante crescita della tela di ragno di reti civiche fra i soggetti insorgenti più disparati: donne, bambini, anziani, gruppi etnici, associazioni, centri sociali, gruppi di volontariato che ritessono spazio pubblico nella città; nuovi agricoltori che producono beni pubblici (qualità ambientale, paesaggio, economie locali); ecobanche e commerci solidali. Tutto ciò oggi è un’esplosione di frammenti puntiformi nel territorio ostile della globalizzazione. Connettere i frammenti di energie innovative facendoli precipitare sinergicamente in uno stesso territorio, cominciando a trasformarlo visibilmente come atto cooperativo della rete del multiverso di attori, costruendo scenari condivisi di futuro, mi sembra un altro aspetto importante del fare società locale.

Reti democratiche per superare le regole della competizione selvaggia

4] In questo processo si situa il radicale cambiamento di ruolo dei governi locali e dei municipi. Fare società locale significa anche consolidare istituti intermedi di democrazia, nell’incontro «a mezza strada» fra politiche «topdown» e reti sociali «bottom up». Il problema è cruciale. Assistiamo ad una forte promozione [Ue, Regioni, comuni] di processi di partecipazione, di progetti di sviluppo locale in cui la costruzione di istituti di concertazione fra attori locali è il prerequisito dei finanziamenti. Dunque le condizioni di un incontro fra «cantieri» di società locali in costruzione e istituzioni sono date. Ma l’incontro deve essere bilaterale, in grado di produrre nuovi eventi, nuove strutture e reti. L’attivazione di politiche top down non significa necessariamente far crescere società locale, se i progetti sono preconfezionati, se gli attori che siedono al tavolo pattizio sono pochi e forti, se le regole dello sviluppo sono quelle dettate dalla globalizzazione economica e dalla competizione sul mercato. Dunque è necessario che, a questi strumenti accedano reti di attori autoorganizzati, che il tavolo sia vasto e rappresenti anche gli interessi dei più deboli, che i soggetti locali siano portatori di progetti di valorizzazione durevole del patrimonio territoriale e ambientale, volti alla soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni e non alle leggi esogene del mercato. In questo incontro il nuovo municipio può assumere funzioni determinanti nel fare società locale, se agevola il processo di qualificazione e allargamento dei nuovi istituti di concertazione e delle reti di comunicazione democratica; se denota e favorisce gli attori portatori di iniziative di valorizzazione del patrimonio e sostenibli, seleziona e incentiva attività produttive virtuose; se fa emergere lo stile di sviluppo del proprio territorio da un ampio percorso «costituzionale» e statutario della società locale.

Reti orizzontali nel sistema locale/globale

5]  Il rapporto locale-globale si precisa in questa ipotesi come «globalizzazione dal basso». Nell’ipotesi «glocalista» lo sviluppo locale si forma nella misura in cui una comunità locale si contamina con il globale, riportando nel locale i processi che sono sostenibii in un viaggio fra «reti lunghe e corte»; c’è sviluppo locale dove la società locale sa costruire reti «orizzontali» nel sistema globale. Ma qui sta il problema della quadratura del cerchio, poiché l’intervento del globale nel locale tende a risucchiare energie e risorse e a restituire dominio. Il problema in discussione dunque è la modalità in cui si coniugano queste reti lunghe con la profondità del territorio senza che il locale ne esca con le ossa rotte. L’alternativa è: convivere con il globale, attraversando le sue reti lunghe, o resistenza attiva al globale e costruzione di reti solidali [globalizzazione dal basso]?
   A favore della seconda ipotesi: il globale attuale non consente un rapporto dialettico, simmetrico, poiché le sue regole escludono la sostenibilità del locale imponendo la competitività contro la cooperazione, lo sfruttamento delle risorse contro la valorizzazione del patrimonio, la polarizzazione sociale contro la complessificazione, e cosi via. Il globale, le reti lunghe sono connesse tra loro [dal mercato, dalle tecnologie forti, dalla finanza, ecc.] e «trattano» con ogni singolo «locale» isolatamente, entro rapporti gerarchici ad albero, in cui è predefinita la collocazione gerarchica di ogni singola regione, costretta a correre nella «disastrosa corsa verso il fondo [Brecher e Costello]

Costruire le nuove relazioni, la debolezza del locale

Dunque il "locale" è attualmente debole, deve rafforzarsi per andare ad una relazione non perdente con il globale costruendo:
relazioni informative e reti solidali che si interfacciano con le reti globali;
proliferazione e diffusione dei servizi rari nelle reti regionali periferiche in risposta ai processi di concentrazione delle «città globali»;
relazioni commerciali e finanziarie ecosolidali che sviluppano reti locali nel mercato mondiale; 
sistemi produttivi locali autosostenibii fondati sulla valorizzazione del patrimonio, che si relazionano nel mercato mondiale come agente attivo di produzione di nuova qualità della ricchezza e come agenti diffusori di nuovi modelli, originali, di produzione e consumo; 
reti di agenzie di sviluppo locale che interfacciano progetti top down con progetti bottom up;
relazioni culturali sud-sud, sud-nord che densificano trame sovrapposte alle reti nord-sud: e cosi via.
  

La crescita di una "cultura del luogo"

   Il problema comunque consiste, pur nelle diverse gradazioni delle relazioni possibili fra locale e globale, e in presenza di un globale sovradeterminato, traboccante, che "tratta" separatamente con ogni singolo «locale» trascinato nella competizione globale, nell’agire contemporaneamente nel rafforzare la coesione interna del sistema, la costruzione di legame sociale [in grado di autoalimentarsi] e la sua capacità di esprimere peculiarità dello stile di sviluppo autosostenibile [capacità di autoriproduzione del territorio fisico e antropico]; ciò richiede uno sviluppo di una cultura del luogo; di un diverso principio di razionalità, poiché è solo nel locale, nelle «reti corte», che si produce la socialità [risorsa scarsa] che dà valore aggiunto, giochi a somma positiva; costruire reti fra locale e locale (medie e lunghe) che modifichino il sistema fortemente gerarchico delle città globali nel sistema mondiale verso una complessificazione e moltiplicazione dei subsistemi regionali. Dunque, favorire tutti i sistemi di relazioni (fra città fra regioni, fra sistemi economici locali) che infittiscano i reticoli non gerarchici di scambio solidale, di sussidiarietà, di complementarità e di rafforzamento reciproco all’interno di macroregioni rispetto alle reti economiche globali (regione alpina, regione mediterranea, Unione europea, eccetera).

   In sostanza, l’ipotesi della «globalizzazione dal basso» riconosce la disparità della relazione fra locale e globale e non risolve il problema con cortocircuiti fallimentari per lo sviluppo delle società locali: propone di lavorare prioritariamente e strategicamente alla crescita delle reti locali e della loro "densità sociale" come condizione imprescindibile per poter affrontare relazioni e sollecitazioni dalle reti lunghe del globale.


o Pubblichiamo con molta convinzione questo bell'intervento di Alberto Magnaghi nel quale troviamo, tra l'altro, le ragioni del nostro impegno comunicativo per mettere in collegamento i "frammenti della glocalizzazione" dal basso di cui parla l'autore .

Alberto Magnaghi è docente di pianificazione territoriale all'università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni recenti, il volume "Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità" (Dunodi)

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