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"Kosovo-Palestina 1991:
un viaggio"
diario tristemente profetico di Alex Langer
di ALEX LANGER Il 30 aprile 1991
parto per un insolito viaggio, che mi porta prima nel Kosovo, poi in Israele
e nei territori palestinesi occupati. Se all'inizio poteva sembrare che
ciò dipendesse da una mera coincidenza temporale in un'agenda molto
piena, molto presto invece si rivelò avere una densa connessione
tematica: un viaggio attraverso pesanti ferite dei diritti umani, attraverso
incompatibilità e implacabilità etniche, attraverso coraggiose
minoranze che cercano, da postazioni quasi senza speranza, di opporvisi.
Verdi "transnazionali" a Belgrado I "Verdi con
quartiere generale a Belgrado" così si definiscono perché
non vogliono considerarsi Serbi, ma un partito "transnazionale e umanistico"
attorno al barbuto Dragan Jovanovic, sessantottino dalle sembianze profetiche,
mi hanno invitato a unirmi alla loro carovana della pace nel Kosovo. Per
la prima volta dalla capitale serba e jugoslava esce un'iniziativa di dialogo,
che vuole tentare di instaurare dialogo e comunanza con gli Albanesi
fortemente oppressi dal 1989, anno della sospensione dei diritti autonomi
del Kosovo. Io dovrei entrare in scena come scudo europeo e i partecipanti
che ho invitato dal Sudtirolo e dall'Italia vengono accolti a cuore
aperto con grande gioia.
Carovana della pace in Kosovo Gli oltre 40 partecipanti
alla carovana della pace (la maggior parte in un autobus, gli altri in
automobile) sono molto variegati: gli "intellettuali di Belgrado" attorno
al prof. Zivotic, qualche femminista, un'operaia di una succursale FIAT,
che si dà da fare anche come sarta; studenti, impiegati
. Non poche
donne. All'inizio non si è del tutto consapevoli della situazione
drammatica alla quale si va incontro fa male, per esempio, che i Verdi
sloveni, con i quali i rapporti sono abbastanza freddi, siano alquanto
scettici nei confronti dell'iniziativa e che sembra abbiano detto, "mostreranno
agli stranieri solo Albanesi da esposizione
". Il primo maggio si sente
ormai soltanto ancora come un fine settimana allungato. Sulla strada per
il Kosovo visitiamo il convento serbo Studenitza. "Dopo la forzata ritirata
dei Serbi nella guerra con i Turchi questo convento è stato mantenuto
a lungo dagli Albanesi i Serbi abitavano prima nel Kosovo, i Turchi li
hanno scacciati, gli Albanesi sono arrivati più tardi" ci viene
raccontato. Per quale motivo allora il Kosovo non dovrebbe rimanere una
parte della Serbia? , risuona nel sottofondo.
È già troppo tardi? Zhur è
un piccolo paese vicinissimo al confine con l'Albania dove la polizia è
intervenuta più volte pesantemente e ha fucilato o ferito molti
giovani. Da mesi nessun poliziotto si fida ad andarci, all'entrata del
paese c'è materiale per fare delle barricate. Anche qui la riunione
per il dialogo si svolge nella scuola all'entrata ci aspettano circa
20 anziani del paese, ai quali stringiamo tutti la mano come saluto. La
sala è strapiena e altri abitanti del paese ascoltano da fuori attraverso
le finestre aperte. Si sono riunite tre-quattrocento persone.
Nel paese serbo Strpce viene denunciata, che la minoranza serba in Kosovo è terrorizzata e necessita di un forte stato Serbo come protezione, come si è dovuto imparare dolorosamente dagli anni di autonomia 1974-1989. Vecchi comunisti serbi ci raccontano alla meglio storie d'orrore di Albanesi assassini, stupratori e incendiari, "che oltretutto non hanno mai veramente lottato contro l'occupazione fascista, che anzi al contrario hanno simpatizzato con questa." Nel paese Lipjanla la riunione preannunciata nella scuola viene impedita dal partito di Milosevic, non ci si fida della delegazione internazionale e del dialogo. Molto commovente è invece l'incontro in una chiese cattolica-albanese a Stuble, dove si ritrova la gente di tutti i dintorni, vescovo incluso, e pur lamentandosi esplicitamente della privazione dei diritti, riescono a vedere una prospettiva solo in una buona convivenza. Questo è il motivo per il quale accolgono la nostra carovana di pace con simpatia e solennità, cosa che non manca di impressionare quelli di Belgrado. La nostra carovana arriva a destinazione l'ultimo giorno all'Università Albanese di Pristina. Qui si sono riuniti gli intellettuali e elencano sistematicamente le violazioni dei loro diritti: dallo scioglimento del loro parlamento e del governo alla decimazione del personale albanese nelle istituzioni sanitarie, dai licenziamenti di massa e un sistema fiscale ingiusto alla soppressione della loro stampa, dall'abolizione dei programmi scolastici albanesi alla fittizia rappresentazione del Kosovo nella presidenza jugoslava, Il comitato per i diritti umani attorno a Adem Demaci, che si dimostra sempre nuovamente una persona chiave, è diventato nel frattempo un riferimento internazionale. Si parla di una soluzione politica e si spera nei metodi democratici, si considera però cosa che non stupisce l'iniziativa per un dialogo da parte dei Verdi come un'eccezione positiva da parte di minoranza, ma senza speranza nella politica serba. Tutti guardano fiduciosi all'Europa, ma si avverte continuamente la speranza che la posizione degli Albanesi del Kosovo possa venire rafforzata dalla disgregazione della Jugoslavia, dall'indebolimento della Serbia e infine dallo sviluppo in Albania, più che non attraverso qualche contrattazione con il nazionalismo serbo, che si manifesta in tutte le sfumature da sinistra a destra. I media di Belgrado affermano con biasimo, che dall'altra parte del confine vengono fatte entrare centinaia di migliaia di Albanesi, per vincere una gara di soppiantamento, che viene anche concepita più amaramente sul campo di battaglia della demografia etnica grazie al tasso di nascite kosovaro-albanese estremamente alto. (Lasciamo il Kosovo e la
Jugoslavia il giorno dopo gli scontri per ora più sanguinosi tra
Serbi e Croati, e i nostri amici di Belgrado hanno paura di un ritorno
alla quotidianità "questa carovana della pace ci costerà
ancora cara", sostengono.)
Quanto più sacra la terra, tanto più aspra la contesa E proprio la
competizione demografica può costruire il ponte tra Israele
e i Palestinesi, dove sono diretto con una delegazione di otto parlamentari
di sei paesi europei. Contemporaneamente con l'inizio della quarta missione
Baker (e la prima Bessmertnych) e subito prima di una visita all'UE a Bruxelles
del ministro degli esteri israeliano David Levy. In collaborazione con
l'UNRWA, l'associazione d'aiuto dell'ONU per i profughi, visitiamo molti
campi profughi palestinesi nell'occupata Giordania dell'ovest (sia a nord
di Gerusalemme verso Nabuls, sia a sud, in direzione di Hebron). Nella
striscia di Gaza visitiamo ospedali e scuole, parliamo con rappresentanti
dei Palestinesi nei territori occupati (Gerusalemme inclusa) e dei
partiti israeliani, e a Gerusalemme ci incontriamo con i diplomatici occidentali
e giornalisti. Di propria iniziativa faccio incursione in direzione delle
forze di pace israeliane, di organizzazioni di volontari europee (cooperazione
con i Palestinesi) e del congresso mondiale ebraico, che ha luogo nel Hilton-Hotel
a Gerusalemme.
Se si viaggia per il paese, saltano subito all'occhio soprattutto su molte delle numerose colline gli insediamenti fortificati israeliani. Anche questa è una catena, solo che gli anelli sono più resistenti: la terra viene pretesa utilizzando vari titoli legali (secondo numeri palestinesi già circa il 60% della Giordania dell'ovest e 30% della striscia di Gaza) e trasformato in "terreno ebreo". I coloni hanno bisogno di case, di vie d'accesso, di posti di lavoro e soprattutto di molta acqua. Inoltre vivono nel pericolo e quindi sono autorizzati ad armarsi e soprattutto ad utilizzare le loro armi chi vede civili minacciosi e armati come parte "normale" della vita quotidiana israeliana, può credere di avere a che fare con i coloni. Oppure con persone della "security". "Sicurezza" questo sogno sempre presente, quest'ossessione, che porta all'utilizzo della legge del più forte senza tanti complimenti, invece di puntare sulla sicurezza mediante l'integrazione, buon vicinato e equità. "Indianizzazione" dei Palestinesi Nei campi vige una legge ferrea, dai tempi della guerra del Golfo- nella quale i Palestinesi hanno senza dubbi simpatizzato con Saddam Hussein e devono pagare per i loro errori del governo di esilio. Pattuglie israeliane girano dimostrativamente per i vicoli, punizioni collettive fanno parte della dura quotidianità (chiusure delle scuole, distruzione di case, coprifuoco, costruzioni attorno ai campi per impedire lanci di sassi ), gelo e odio si sentono dappertutto. Come sarà la società israeliana di oggi e di domani, se una grande parte degli adulti (uomini e donne) che si incontrano anche a congressi scientifici o a manifestazioni artistiche è stato in servizio di un esercito di occupazione, ha perquisito case, arrestato persone, forse sparato o minacciato con armi o interrogato spietatamente? Alcuni soldati e soldatesse, con cui ho parlato, non ci trovano niente di male anche ad entrare in uniforme (ma senza armi) a gruppi nelle moschee più sacre di Gerusalemme. Alcuni si giustificano riferendosi all'accerchiamento dell'Israele da parte di Arabi oppure al programma di principi della PLO. Non entra veramente nella coscienza della maggior parte degli Israeliani che l'1% dei Palestinesi è in prigione e circa un quinto degli abitanti dei territori occupati vengono marchiati come "sovversivi" con uno speciale documento verde, che prevede controlli più severi e una libertà di spostamento molto limitata, oppure non realizzano che i Palestinesi pagano tasse per un sistema di sanità e di assistenza sociale dal quale non traggono praticamente niente. E se tutto ciò entra nella coscienza, viene compreso come parte di una realtà dura ma inevitabile, una realtà che si chiama semplicemente guerra. "In questa regione
non c'è posto per un terzo stato di fianco all'Israele e alla Giordania,
e per questo non possiamo patteggiare con la PLO, dato che ciò che
è il loro scopo va contro i nostri interessi vitali", ci spiega
Dan Tichon del partito Likud.
L'abisso tra i popoli
Palestina, Kosovo Come si può
trovare una soluzione al conflitto israeliano-palestinese, a quello in
Kosovo (a Cipro, in Georgia, in Armenia
si potrebbe continuare a lungo
l'elenco) se umili "scavalcatori di muri" non portano fermenti di
dialogo? Ci vorrebbero dei "traditori" non disertori, ma coraggiosi,
che forzino il blocco. "Pensare in blocchi, blocca il pensiero" non vale
solo in campi militari o ideologici nel conflitto etnici ciò si
sente ancora di più. Soluzioni pure, immacolate esistono probabilmente
solo sulla carta e dove è stato tentato, come per esempio attraverso
trasferimenti tra Greci e Turchi alla fine della prima Guerra Mondiale,
sono rimasti lo stesso profondi fossati.
(Pubblicato
in lingua tedesca su "Kommune", Francoforte, giugno 1991,
e in "Die Mehrheit der Minderheiten", ed.Wagenbach). (traduzione di Sabina Langer) |
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Alex Langer (1946-1995) è passato lasciando una traccia profonda. Ha lasciato il valore concreto delle sue azioni politiche, del suo pensiero ispirato alla forza del dialogo, del mondo di simboli che arricchisce l'immaginario di molti, forse anche di quelli che ne erano "nemici" nella vita. E' stato protagonista di movimenti come Lotta continua a livello nazionale, la Nuova Sinistra Neue Linke in Alto Adige, i Verdi in Italia e in Europa (europarlamentare e consigliere regionale). Unendo realismo e utopia, riusciva ad affrontare anche la più complessa delle situazioni aprendo qualche breccia di speranza, spesso in virtù di una straordinaria inventiva, di una grande fantasia dell'azione. Dell'opera di Langer si occupa in particolare l'associazione Pro Europa di Bolzano che sta raccogliendo gli scritti in un grande archivio (responsabile: Edi Rabini). Lunedi' 3 luglio 1995 Alex Langer si e' tolto la vita sulla collina di Fiesole, sopra Firenze. Langer era oppresso anche dalla fatica di chi sperava realmente nella forza del Dialogo ma vedeva i progetti ambiziosi e l'impegno quotidiano naufragare nel mare della incompren- sione e dell'indifferenza. Tristemente esemplificativo e doloroso il fallimento dei suoi sforzi enormi per fermare il genocidio nella ex Iugoslavia. UN ALTRO ARTICOLO I LINK
(Foto O. Seehauser) Alex Langer
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