di MARTITA FARDIN
Vivono
nelle fogne di Como, come le pantegane. Le pantegane trovano nelle fognature
il loro ambiente naturale, gli esseri umani no.
Nel ventre
di Como, dell’opulenza, dove se non hai denaro e la giusta dose di snobismo,
sei tagliato fuori dalla vita sociale, dove bellissime ville piene di fiori
fanno immaginare una realtà da sogno, da “Beautiful”, dove c’è
Villa D’Este, famosa nel mondo per i meeting internazionali di grandi industriali
o capi di stato, dove la gente per Natale si lamenta per lo spreco consumistico
degli addobbi natalizi, perché andrebbe contro il rigore morale
dell’austerità cristiano lombarda, c’è un città sotterranea
che la gente ha preferito ignorare.
Como
è una città discreta, nel lusso, nel carattere degli abitanti
e schiva verso i diversi. Non ama il clamore, la gente, preferisce farsi
gli affari suoi. La chiamano discrezione, a Como. Invece il più
delle volte è indifferenza.
Così
la gente, con discrezione, ha preferito chiamare la polizia e fare sgomberare
gli intrusi. Gli intrusi, nel caso in questione, sono albanesi clandestini
che, per ripararsi dal freddo, dalla pioggia e soprattutto per sfuggire
ai controlli della polizia, si rifugiavano lì sotto. Sotto la galleria
cementificata in cui scorre il torrente Cosia, rigagnolo di veleni a cielo
semiaperto. Impossibile non notarlo.
Una vera
fognatura, senza usare giri di parole, torrente è un ipocrita eufemismo.
Da tempo il tunnel dove scorre il torrente Cosia era diventato il loro
dormitorio. Come ultima spiaggia. Dopo che erano stati cacciati da ex stabili
o fabbriche fatiscenti abbattute dalle forze dell’ordine.
Forse,
i clandestini si sentivano sicuri, lì sotto. Nessuno li avrebbe
fatti sloggiare: sopra il torrente Cosia c’è un ponte di collegamento
tra
due arterie di comunicazione della città e non può essere
smantellato. I cronisti (Corriere della sera, Il Corriere e La Provincia)
sopraggiunti sul luogo hanno raccontato, chi con maggior coinvolgimento,
chi con maggior freddezza, il viaggio nella Città dei materassi
e degli indumenti dimenticati. La Provincia di Como titola: “Clandestini,
controllo sotto il Cosia”. Occhiello: “Verifiche in tutta la città
da parte dell'ufficio stranieri. Nel mirino extracomunitari senza permesso”.
Tutto era iniziato nel 1999, quando era stata denunciata l’esistenza di
uno spazio sotto la carreggiata della tangenziale in cui si rifugiavano
la notte i disperati che si era sentiti affibbiare, loro malgrado, l’appellativo
di uomini topo. Il quotidiano “La Provincia” sostiene che “si tratta di
stranieri che durante il giorno chiedono l’elemosina ai semafori e che
la loro presenza era stata segnalata anche in altre aree della città”.
Questa la cronaca.
Questo
l’interrogativo: a nessuna associazione di volontariato – a parte Don Giuseppe
Tentori, parroco di San Bartolomeo, il vicino quartiere, che due anni fa
adottò un bimbo albanese Luca, pescandolo sotto un ponte, e si dispiace
di non essere riuscito a fare qualcosa per quei clandestini - è
venuto in mente di trovare per questa umanità ai margini un’altra
abitazione, dopo il ripristino di parte della Ticosa (stabilimento tessile),
l’abbattimento dell’ex palazzina Danzas e ancora la realizzazione di un
nuovo insediamento urbano (uomini topi esclusi ovviamente) a Monte Olimpino?
La calca dei disperati quale altra scelta aveva se non le arcate del fiume
Cosia? Quelle servono alla città, al traffico, alle macchine, alla
gente che ci va a piedi, che si reca nel vicino supermercato a fare la
spesa e non possono essere smantellate. Tutti quelli che transitavano di
lì vedevano, ma erano ciechi, quella cecità che noi chiamiamo
indifferenza o solidarietà ipocrita di chi si fa tre volte il segno
della croce, va a messa la domenica e poi appena l’ordine del gregge è
turbato, fa scattare il via ed arriva la polizia.
Oppure
erano persone esasperate dal popolo delle fogne, senza più tolleranza,
come la moglie del benzinaio: “L’estate scorsa facevano il bucato proprio
sotto ai nostri occhi e poi lo stendevano lungo la strada, Pantaloni, panni,
tutto. Albanesi sì, ma anche marocchini. Ad uno abbiamo offerto
di lavare i vetri delle macchine per noi, invece di stare al semaforo,
ma dopo ha preso piede e voleva comandare lui. L’abbiamo cacciato”. Sarà.
Ecco cosa hanno trovato le forze dell’ordine nel tunnel sotterraneo, in
base alla testimonianza del Corriere della Sera: materassi allineati, fetore,
sporcizia, ragnatele, miasmi terribili e una scarpina di bambina dimenticata
nella fuga. Quella è rimasta lì assieme ai materassi allineati,
ai letti non rifatti, a testimoniare che nel ventre di Como c’è
un’altra città, sotterranea e clandestina. A documentare che oltre
l’apparenza d’ordine, rigore, ricchezza, c’è la miseria, quella
vera.
Per ricordarci
che siamo a Como, non in un paese povero e sottosviluppato che vediamo
alla televisione come una realtà lontana e lunare. I clandestini
sono scappati via, forse verso un altro inferno. Hanno varcato il confine
verso la Svizzera, in cerca magari di un inferno migliore. Perché
non se ne stanno a casa loro?
Tanta gente
del comasco pensa. Probabilmente perché di fronte all’assenza di
futuro, chi non ha niente tenta la sorte. E se quei clandestini hanno accettato
di vivere in una fogna, forse quella fogna era sempre meglio che crepare
nella terra d’origine, controllata dai racket mafiosi. Ricordiamoci. Qui
non siamo né a Calcutta, né a Bombay, né nelle baraccopoli
del Kenya. Siamo a Como, città ricca, opulenta, ma tanto avara di
solidarietà. Scrive il Corriere: “Ci deve essere qualcuno che risiede
in una reggia nel comasco, per fare la media con chi dorme in una cloaca.
Ci deve essere chi dorme su imbottiture di cachemire per far la media con
chi la notte si raggomitola su questi materassi che assorbono il sudore
della terra e soltanto una scatola di cartone aperta cerca di isolare da
pozzanghere e rigagnoli scuri. E quanti piccoli lord ci vogliono per controbilanciare
gli incubi, affollati di ragni e topi della bimba della scarpetta rossa?”.
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Racconto
dalla realtà di una città ricca che ha i disperati - bambini
compresi - nel suo ventre sotterraneo e maleodorante.
Martita
Fardin (Como, 1968), giornalista,
scrive
di cultura
e
società per
diverse
testate.
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Luca, salvato
dalla
strada
La
storia di Luca, albanese salvato dalla morte e strappato da una vita randagia
sotto ai ponti.
Luca,
vero nome Lufte, che in albanese vuol dire guerriero, è un ragazzino
preso in custodia due anni fa da Don Giuseppe Tentori. Adesso ha un permesso
di soggiorno, un buon lavoro in un’area di servizio vicino all’autostrada
e tanti amici, tra cui un vecchio di nome Daut, che ha accompagnato in
ospedale quando la dentiera gli è andata in tilt. Dicono che Luca
sia buono e gentile, fin troppo. Se fosse rimasto in Albania, sarebbe stato
destinato a crepare, assassinato in una guerriglia di clan, a Nord di Valona.
Due anni fa raccontò la sua storia a lieto fine ad un quotidiano
che,
molto sensibilmente, lo definì “l’uomo topo”. Luca ci rimase davvero
male.
Ma.
Fa.
I nuovi
ghetti
e
i silenzi
della
politica
l'editoriale
Idee
per un'urbanistica
dell'accoglienza
e
dell'identità
plurale
Silvano
Bassetti
(11
aprile 2000)
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