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"Sola andata": noi e gli immigrati
La mostra-teatro di Reggio Emilia: calarsi nella sofferenza di chi fugge e arriva alla frontiera
 


di MONICA DUCATI

   A Reggio Emilia si è recentemente conclusa la mostra-teatro “Sola andata”, un evento già ospitato a Roma, Parigi e Bruxelles, sui temi dell’immigrazione e della prevenzione del razzismo. Si è trattato di un’occasione unica di educazione culturale (non uso volutamente il termine ‘interculturale’ perché lo ritengo già troppo inflazionato), accessibile alle scuole e a chiunque sia interessato a confrontarsi con la realtà del nostro tempo. La formula è assolutamente irripetibile perché si serve delle risorse e delle energie che trova sul campo: gli operatori, gli attori del dramma (vero e proprio) che si svolge all’interno dei capannoni dell’area industriale sono infatti degli immigrati, residenti da tempo in Italia, che vengono selezionati a seconda delle loro motivazioni e capacità di interazione personale. E’ stato pensato un percorso che si distingue dalle altre pur lodevoli attività che si svolgono in relazione a questi temi: un convegno, un dibattito, un film, una relazione possono sempre servire a smuovere il fondo dei nostri latenti ed innegabili pregiudizi (che covano anche in chi è al di sopra di ogni sospetto), ma niente è così efficace e coinvolgente come il mettere in gioco noi stessi, il nostro corpo e le nostre emozioni.

   L’attività consiste nello scegliere un personaggio tra i tanti proposti (Fatos proveniente dall’Albania, Dugnul dal Kurdistan, Rachid dal Marocco, Joao dal Brasile…) e nell’assumersene, assieme all’identità, anche il percorso di vita e andare incontro ai rischi che esso comporta. Una volta effettuata la scelta, si va incontro ad un destino già prestabilito: accanto a coloro (pochissimi) che riusciranno ad ottenere un permesso di soggiorno in Italia ci sarà chi verrà costretto al rimpatrio forzato, chi rimarrà come irregolare, chi entrerà nell’orbita della malavita…

Capovolgere i ruoli

   Ho potuto confrontarmi direttamente con quest’esperienza accompagnando le alunne della mia classe verso questa meta, scelta insieme a loro come viaggio d’istruzione (mai come in questo caso un termine, spesso vuoto di significato, assume invece una rilevanza fondamentale). E mi sono trovata, assieme a loro davanti ad un terminale, a studiare i confini geografici e la storia del paese d’origine del personaggio da me scelto, a memorizzare in pochi minuti, prima di iniziare il percorso, quanti più dati possibili sulla sua identità: il luogo e la data di nascita, il lavoro svolto in precedenza, le cause dell’allontanamento dalla madrepatria, le motivazioni per la richiesta di un permesso di soggiorno. E ad un certo punto, dopo essere stata fotografata, mi sono accorta che tutti i dati relativi alla mia seconda identità sparivano di fronte alle domande nervose ed insistenti di un funzionario in divisa, che mi impappinavo sempre più causando irritazione e sospetto in chi mi stava davanti, che ero disposta a tutto, anche a farmi insultare e a fare le cose più ridicole, pur di ottenere un pezzo di carta. L’originalità dell’idea sta proprio in questo capovolgimento di ruoli: i militari, i poliziotti, gli operatori del volontariato “italiani” che incontravamo di tappa in tappa avevano la pelle scura, l’accento addolcito dalla erre moscia, gli occhi a mandorla… ed erano bravissimi, dei veri professionisti a simulare l’arroganza e la prepotenza esercitate nei confronti di chi, a tutti gli effetti, balbettava e non ricordava i dati più elementari, arrossiva e inventava scuse ridicole per giustificarsi… 

Il calvario di ufficio in ufficio

   Penso che sia proprio questa una delle emozioni più forti che mi sono rimaste dentro dopo questa giornata: veramente, anche se si tratta di un gioco, è impossibile ridere di fronte ad un mitra spianato, all’oscurità di una cella, alla stanchezza reale che prende, dopo un continuo girovagare per ore di ufficio in ufficio, dopo un continuo alternarsi di attese e sorprese. 
   E credo che, moltiplicata per mille, sia questa la condizione che prova chi, nel nostro paese, non capisce o non può rispondere perché non conosce la lingua, non riesce ad orientarsi, deve chiedere che vengano rispettati i suoi diritti più elementari. Non ho potuto ringraziare personalmente questi ragazzi e ragazze, uomini e donne che probabilmente avranno rivissuto almeno una delle scene previste per noi, il riposo sotto una tenda in un campo profughi – solamente qui vuoto di persone e angosciante -, il razzismo a buon mercato degli ispettori doganali, il lavoro in una condizione di sfruttamento, le proposte oscene e degradanti… 
   Avendo scelto di interpretare un personaggio maschile (il ruandese Badu, che scappava da un paese in guerra) mi sono scontrata con un itinerario più lineare anche se snervante, perché fatto di continue peregrinazioni e attese, da una scodella di minestra a una richiesta  di permesso, dagli uffici della Questura a quelli delle ONG, etc. Ben altre esperienze hanno provato le ragazze che avevano scelto di impersonare la nigeriana Patricia, la colombiana Lorena, di fronte all’alternativa tra la prostituzione e il rimpatrio, di fronte alle perquisizioni e alle accuse di spaccio.

"Chi non si sposta non apprende..."

   Ho visto anche ragazzini molto piccoli giocare e correre, per nulla intimoriti da un poliziotto in divisa che li costringeva al muro, e ho pensato che forse a loro rimarrà il ricordo confuso di un gioco un po’ strano, se e quando fra qualche anno ci ripenseranno. Credo comunque che poi avrà valore l’esperienza di ognuno di noi, che ci è passato con la sua sensibilità e i suoi vissuti, con le sue reazioni e le sue conoscenze e i suoi desideri, se è vero quello che dice M. Serres:
   “Un giorno, in un momento o nell’altro, ognuno passa nel mezzo di questo fiume bianco…Nessun apprendimento evita il viaggio…Partire esige uno sradicamento che strappa una parte del corpo alla parte che resta aderente alla riva di nascita, alla prossimità della parentela, alla casa e al villaggio degli abitanti, alla cultura della lingua e alla rigidità delle abitudini. Chi non si sposta non apprende…”.
 


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