ii percorsi

Andrea Caffi, le minoranze e il socialismo libertario
Riscoprire un pensatore europeo (vissuto fra Russia, Italia, Germania e Francia) a lungo dimenticato
 

  di GOFFREDO FOFI

  Diceva Gobetti (è il motto dei suoi ex-libris): “Che ho a che fare io con gli schiavi?”; citava Platone e intendeva ovviamente la schiavitù morale non quella materiale.
   Diceva Chiaromonte: “Quelli che hanno orrore della servitù non è che siano tutti degli spregiatori del volgo”.
   Diceva Camus, ad affermare una comunità nel cui nome e nella cui difesa il singolo si ribella, un senso di appartenenza pur nella ribellione di uno: “Mi rivolto, dunque siamo”.
   Diceva la Weil: “Nulla al mondo può impedire all’uomo di sentirsi nato per la libertà”.
   Diceva Caffi: “La società è l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà”; parlava inoltre di “sovranità della ragione e di una socievolezza così affinata, intuitiva nella discrimi-nazione di distanze, vigile e tollerante da procurare alle persone assieme al calore di solidarietà immediata un massimo senso di indipendenza”.
   Altri nomi, altre citazioni potremmo proporre: Anders e Orwell, Bòll e Capitini, Silone e EIsa Morante e altri ancora.
   Sono nostri autori quelli citati. Essi ci hanno assistito e guidato lungo anni pesantemente conformistì, a non perdere la bussola. Ci hanno aiutato a trovare chiavi di interpretazione attiva del mondo contemporaneo fuori dagli schemi delle chiese e delle teorie d’appoggio ai sistemi di potere dominanti - negli anni tra la prima guerra mondiale e la fine della guerra fredda, ma con lo sguardo oltre, di chi sa vedere nel presente i segni di un futuro oscuro nei suoi modi ma chiaro nelle sue leggi. Ci hanno offerto una visione, se così si può dire, insieme “protestante” e “libertaria” delle nostre possibilità di intervento. Ci hanno liberato dai falsi problemi, dalle mitologie dei conformi, ci hanno mostrato cosa si nasconde dietro il progresso, dietro il comunismo, dietro le comunità nazionalistiche, dietro una società manipolabile e manipolata, non più alternativa o succube o altra rispetto al mondo della politica, ma sua complice. Ci hanno altresì indicato tutti i rischi delle convinzioni minoritarie dentro alvei maggioritari: dalla eccessiva fiducia nella centralità operaia, per esempio, o nell’autonomia del politico, o nel ribellismo estremistico, o nella testimonianza troppo disarmata di alcune correnti religiose.

Grande estimatore di Simone Weil

   Grande estimatore della Weil (e mi piace pensarlo, nei suoi anni Trenta e Quaranta parigini, essendo grande amico dello scrittore brasiliano Paulo Emilio Sales Gomez, autore della bella biografia del regista anarchico di Zero in condotta e L’Atlante, Jean Vigo, anche grande estimatore di quest’ultimo, poeta e non teorico, ma poeta pieno di teoria, cosi come è piena di poesia la teoria della WeiI) Caffi ha scritto pagine magistrali sulla violenza. Il suo saggio Critica della violenza è in assoluto tra i più radicali e convincenti sull’argomento assieme a quelli di Bonhoeffer, Hannah Arendt. Guenther Anders, Bobbio (raccolti, con quello di Caffi e con molti dei sostenitori della necessità della violenza e dei soste-nitori più convinti della nonviolenza, da Gandhi a Tolstoj a Capitini. in un volume di “Linea d’ombra”, Violenza o non violenza, 1992). Qui l’influenza della Weil delle riflessioni sull’iliade è evidente; ma piuttosto che su questo caposaldo del pensiero di Caffi voglio insistere su un altro punto per lui centrale, quello della minoranza (delle masse e delle maggioranze;  e dell’alternativa possibile alla loro alienante pressione), oggi assolutamente centrale, per noi, qui. “Protestante” perché? Perché rigorosa nelle morali e nella richiesta di concordanza tra idee e pratiche. “Libertaria” perché? Perché l’individuo ne è al centro, con il suo piccolo cerchio di comunità embrionale e solidale, e non rinvia niente a domani, chiede oggi la sua liberazione, bensì commisurata all’“obbligo”, al dovere di una solidarietà aperta, non esclu-dente, e dialogante.

Conquistare la maggioranza alle condizioni della maggioranza?

   La differenza centrale, più volte affermata da Caffi, è tra chi cerca la conquista della maggioranza alle condizioni che la maggioranza di fatto pone (su questo, per esempio, l’immane fallimento recente di tutta la sto-ria della sinistra, a chiusura di un ciclo d’egemonia comunista iniziato nel ‘20 e finito nel marzo del ‘94), e chi opera nella minoranza convinto della assoluta dignità che questo comporta. Tenendo ben presente che non tutte le minoranze, per il fatto di essere tali, meritano uguale interes-se (ci sono infatti anche quelle che nulla sono se non la dimostrazione di una esplosione narcisistica del sociale, lusso del superfluo, fuga dalla noia, ossessione di presunta centralità esibizionistica).
   La minoranza non ha per natura l’obbligo di diventar maggioranza, di conquistare i più. Deve avere l’orgoglio di sé, nella convinzione del ben operare che può isolarla dai più, che i più possono non condividere e in genere non condividono.
Il feticcio del sociale è, almeno dagli anni Trenta dei francofortesi. di Benjamin, della Weil, di Caffi, appunto un feticcio. La maggioranza è di per sé conformista, si potrebbe aggiungere oggi, lo è sempre, e la mino-ranza ha il dovere di non esserle (di non essere) conforme.

Sprigionare pagliuzze di umanità

   Dice Caffi che si tratta semmai di “sprigionare pagliuzze di umanità dalle scorie delle ‘masse”’, di “districare gli elementi di ‘popolo’ dall’ambiente di ‘massa’ che li meccanizza e li disumanizza”, e dice ancora che la povertà delle proposte politiche che un tempo si chiamavano “terzaforziste” (in quanto altro da quelle “comunista” e “borghese” o, per dirla con Capitini, da quelle dell’ “assoluto dello stato” e dell’ “assoluto del benessere”) sta proprio nella loro supinità di fronte alle logiche di massa, al loro desiderio di farsi maggioranza.

I servi matriali (e morali) del benessere burocratico

   Il “popolo” che Caffi contrappone alla massa, è ancora un pezzo del più generico popolo dei suoi anni - quello povero, subalterno, proletario e contadino, umile, spesso analfabeta, che aspetta giustizia e che può anche aderire alle proposte di massa e farsi massa (per esempio. nel fascino degli anni del consenso), ma che non per questo è colpevole.
Memore dei maestri del suo Ottocento russo e populista, memore di Herzen e dei grandi romanzieri, Caffi sa che si può essere “populisti”. che in questo c’è dignità e valore - poiché si tratta, per le minoranze, di operare per la coscienza e la liberazione di servi materiali che possono non essere affatto servi morali. Ma negli anni Trenta europei e americani, allargando lo sguardo, la forza della burocrazia gli è presente in tutta la sua mastodontica forza, e gli è presente che nuovi ceti si formano, di servi morali che hanno conquistato (cui i regimi danno, cui il progresso dà) sopravvivenza e benessere.
Negli anni Ottanta e Novanta dell’Italia, per esempio. si può essere “populisti” altrimenti che di destra  -  secondo le non contrapposte visioni di Bossi o Berlusconi e di Occhetto, e i loro richiami alla “gente”, entità collettiva di piccoli benestanti e di complici. arroccatissimi nella difesa ciascuno dei suoi privilegi, secondo una gamma che in Italia appare senza limiti?

"Via dal maneggio delle masse..."

Via dal “maneggio” delle masse, predica Caffi. In un’ambizione di socialismo, la parola massa va abolita, la massa è la negazione del socialismo, che può solo fondarsi su principi federativi (non di sottopoteri. di corporazioni, di dialetti e interessi come vorrebbero Leghe recenti in difesa dei vantaggi acquisiti), e nel rispetto e nella valorizzazione, in un quadro di vitale e produttivo “disordine”, del piccolo gruppo, della minoranza che è attiva nella proposta e nel cambiamento, contro una tradizione egoistica e di eterodirezione delle menti, di manipolazione dei modelli di vita a fini, diremmo oggi, di consumo e di consenso, a fini di gestione del potere da parte di una oligarchia che sa compiacere e controllare la maggioranza, i suoi bisogni, i suoi desideri.

La vecchia lotta per la giustizia sociale resta al centro

   Ci si distingue dalla massa per i nostri valori e per i nostri costumi, sostiene Caffi, e ipotizza quelle “minoranze irrequiete di uomini semplici” di cui parla Chiaromonte, riferendosi esplicitamente al pensiero di Caffi ma anche al “modello” Caffi.
Queste minoranze non possono aver dignità e saldezza che dal riconoscersi in un sistema di princìpi che contempla al suo centro “la vecchia lotta per la giustizia sociale”. Sono minoranze aperte e non chiuse, insoddisfatte e non compiaciute, critiche e autocritiche, non esaltate e settarie. I loro membri, avrebbe aggiunto Capitini, ma lo dice con altre parole anche Caffi, sono dei “persuasi” - stante la distinzione mìchelstaedteriana tra “retori” e “persuasi”, in cui i “persuasi” sono autodiretti, convinti weilianamente dei loro “obblighi” nei confronti di chi soffre l’ingiustizia sociale e del mondo.
Qui e ora, tutto questo. Senza scuse e senza rinvii. Senza aristocraticismi risibili e senza subire alcun ricatto di massa.

Se i rivoluzionari diventano i nuovi padroni....

   Tutto questo è presente in Caffi in modo estremamente diretto e pregnante. C’è anche negli altri pensatori che amiamo, ugualmente travolti e sradicati dalla violenza della storia, ma in lui in modo forse più diretto e più pregnante per aver egli seguito da dentro la storia della rivoluzione russa e dell’insediamento del potere sovietico - il proporsi e crescere ed esplodere e disfarsi nel disastro della minoranza golpista al potere, un potere da gestire con ogni mezzo, per fini inizialmente considerati “superiori” quali il progresso (“l’elettrificazione”) e il comunismo (la dittatura del proletariato), affidati a uno sparuto gruppo di intellettuali e burocrati che si sarebbero dimostrati capaci di tutto.
  
   Caffi ha visto in azione la lotta per il potere e verificato i suoi costi, ha visto come coloro che erano rivoluzionari sotto il regime zarista, sono diventati nuovi padroni, una volta conquistato il potere. Ritiene di conseguenza che nella lotta contro l’ingiustizia occorra partire da altrove, tenere strettamente congiunti fini e mezzi, e che non si tratta affatto di conquistare il potere ma di condizionarlo, di minarlo, di svuotarlo: di accerchiarlo, a partire da gruppi che si diffondono, che innervano dei loro principi e dei loro modelli una società manipolata e consenziente. In questo (e qui forse sovrapponiamo i nostri bisogni e le nostre idee a bisogni e idee di Caffi, ma consideriamo tutto questo la logica conseguenza del suo pensiero) sta l’attualità del pensiero di Caffi, nemico di ogni meschinità, profeta autoironico e persuaso della minoranza dentro un’epoca irresistibilmente “maggioritaria”...


o
Andrea Caffi (Pietroburgo 1887, Parigi 1955) è uno dei più significativi pensatori del Novecento, a dispetto della scarsa attenzione che le agenzie politiche e culturali dominanti (partiti, università eccetera) gli hanno dedicato. Figlio di italiani (provenienti, pare da Belluno e/o da Cremona) Caffi si può considerare un socialista libertario e il recupero del suo pensiero risulta tanto più utile in quest'epoca di smarrimento ideologico e di omologazione come spiega bene Gianpiero Landi nel brano che riportiamo qui di seguito, tratto dalla presentazione del volume "Andrea Caffi, un socialista libertario", edito dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, curato dallo steso Landi, e contenente gli atti di un convegnotenutosi a Bologna nel 1993. Per fortuna c'è chi si occupa del recupero di Caffi.

Scrive Landi: "Socialismo libertario, ha intitolato opportunamente Gino Bianco una breve raccolta di scritti di Caffi da lui curata e pubblicata da Azione Comune nel 1964. E libertario può essere definito senz’altro il socialismo di Caffi, deciso avversario del totalitarismo comunista ma estraneo anche al “mito burocratico” della socialdemocrazia, e critico rispetto alla pretesa di quest’ultima di risolvere la questione sociale mediante l’espansione del ruolo dello Stato nell’ambito dell’economia e della società.
Diversa è la soluzione antistatalista prospettata da Caffi, secondo il quale ci si deve muovere nella direzione della applicazione integrale del principio federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello Stato, e del completo superamento dell’idea di sovranità dello Stato-nazione. Lo Stato nazione, secondo Caffi, deve essere esautorato della sua sovranità a beneficio, da un lato, di organismi sovranazionali (a cominciare da una Federazione Europea in grado di mantenere la pace), e dall’altro da una serie di enti autonomi e associazioni di ogni genere (politiche, economiche, sindacali, cooperative, mutualistiche, culturali ecc.). che vanno rafforzati e ai quali devono essere deferite e trasferite molte funzioni di utilità sociale. Allo Stato va tolto radicalmente il monopolio del diritto. Per  Caffi, che si richiama per questo aspetto a Georges Gurvitch, dal “diritto statale” occorre passare al “diritto sociale”: ciascuno degli enti e delle associazioni in cui si articola la società deve produrre da sé il diritto per autoreggersi.
Queste concezioni, ma anche numerosi altri aspetti contenuti nei suoi scritti, giustificano e rendono opportuna oggi una rinnovata attenzione e una analisi più approfondita del pensiero di Caffi da parte di tutti i libertari, poco importa se provenienti dalle file del movimento anarchico o dalla militanza nel partito socialista, o magari da altre formazioni della sinistra vecchia e nuova.
In questi ultimi anni molte certezze sono crollate, barriere ideologiche consolidate dal tempo si sono rivelate anacronìstiche e ormai prive di senso. Si è generalizzata, fino a diventare luogo comune, la convinzione che è necessario ripensare alla radice le ragioni di un impegno politico di sinistra. Per quanto ci riguarda, siamo convinti che si debba recuperare anzitutto il contenuto essenziale del socialismo, la sua tensione etica in direzione di una “società giusta”, depurandolo di tutte le incrostazioni che si sono formate nel corso di un secolo e mezzo di Storia.
Vengono in mente le parole dello stesso Caffi, contenute in uno dei suoi ultimi scritti (1952), in cui si trova forse la spiegazione della sua fedeltà agli ideali del socialismo, mai venuta meno fino alla morte, nonostante i tanti errori, le sconfitte, le disillusioni:

"La tradizione socialista è, con tutte le sue deficienze e i suoi tragici fallimenti, la sola in cui permanga appunto questo: la preoccupazione per la società umana nel suo insieme, al di sopra dei pregiudizi statali e nazionali come degli interessi 
di classe e di parte".

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