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Andrea Caffi (1887-1955)
e l'attualità del socialismo libertario
Nonviolenza, democrazia, antistatalismo,
rifiuto della socialdemocrazia: il pensiero
di un intellettuale cosmopolita, con radici
e frequentazioni italiane, a lungo tenuto ai margini
Andrea Caffi è sicuramente una delle figure più affascinanti, ma anche più ingiustamente trascurate e dimenticate, del socialismo italiano ed europeo del Novecento (1). Intellettuale raffinato e dotato di una stupefacente erudizione, militante politico d'avanguardia partecipe di tutti gli eventi politici e culturali della prima metà del secolo, Caffi merita di essere riscoperto come un pensatore originale e di notevole spessore teorico in grado di fornire contributi di rilievo a una rifondazione libertaria del socialismo. Gli elementi di interesse e di attualità del suo pensiero sono in effetti numerosi, e tali da giustificare una attenzione e una analisi approfondita da parte dei libertari sia di formazione anarchica che socialista. "Irregolare" del socialismo, Caffi si colloca in modo originale in un territorio di confine tra diverse ideologie e culture politiche. Affiora spontaneo il confronto con un'altra eminente figura di teorico del socialismo libertario, Francesco Saverio Merlino, il cui pensiero "eretico" è per tanti aspetti complementare a quello di Caffi, anche per la matrice proudhoniana comune a entrambi (2). Come ha opportunamente rilevato Gino Bianco, vi sono alcuni temi costanti attorno a cui ruota tutta la produzione teorica di Caffi e che assicurano un elemento di continuità nel suo pensiero e nei suoi scritti, che si presentano all'apparenza quanto mai disorganici e frammentari. Questi temi costanti sono da un lato "una certa idea del socialismo" (un socialismo critico rispetto a Marx e al marxismo, aggiungiamo noi, e come già si è accennato di forte impronta proudhoniana), e dall'altro "la grande crisi in cui versa la società contemporanea", apertasi con la prima guerra mondiale e approfonditasi nei decenni seguenti col dilagare del totalitarismo in Europa e con la violenza di una seconda guerra mondiale, che di quella crisi avrebbero confermato la profondità e la vastità (3). Di grande acutezza
sono, in effetti, le analisi di Caffi sulla crisi dei regimi democratici
dopo il 1914 e sul totalitarismo. Caffi, precorrendo in parte Hannah Arendt,
riesce a cogliere analogie tra il comunismo sovietico, il fascismo e il
nazismo, senza mai perdere di vista le specificità che contraddistinguono
ciascuno di questi regimi politici.
Il concetto di società La concezione
che Caffi ha del socialismo si lega strettamente a quella che ha di ?società?.
Egli usa il termine in una duplice accezione. Da un lato riprende una tripartizione
comunemente utilizzata dai pubblicisti e dagli storici russi per più
di un secolo, e distingue tra "governo", "società" e "popolo". In
questa visione la "società" appare separata e distinta sia dal "governo",
formato da "principi, magistrati, sfruttatori, carnefici" (7), sia dal
"popolo", inteso come la stragrande maggioranza della collettività
"costretta non solo a lavorare per vivere, ma a vivere unicamente per lavorare".
Il popolo, scrive Caffi citando Proudhon, non ha mai fatto altro che "pagare
e pregare" (8).
In questo senso la società va intesa come"una sfera di esperienze intime e di rapporti con i simili dove si possono dimenticare ogni assillo di scopi economici e ogni costrizione connessa alla "gerarchia" politico-sociale" (9). Detto in altri termini, la società è "l'insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l'apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano che con mezzi "morali", mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha a trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la "società" esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza" (10). La vita di società - scrive ancora Caffi - si realizza ad opera di un "ceto emancipato dalla necessità di lavorare (e quindi dalla voglia di pregare) e, almeno fino a un certo punto, attaccato alle seduzioni della vita privata, e talvolta anche a quelle della 'vita interiore' ed emancipato dall?ambizione di dominare" (11). Ma il concetto
di società è centrale nel pensiero di Caffi, e in altri momenti
egli attribuisce al termine un significato diverso, assumendolo nella sua
dimensione di "civiltà". In effetti, sembra in questo caso che Caffi
si limiti e estendere a tutta la collettività, o a gran parte di
essa, quelle caratteristiche che già egli attribuiva alla "società"
intesa nella accezione più ristretta.
La critica alla civiltà di massa Un elemento che per certi versi si lega al precedente è la feroce critica che Caffi rivolge alla moderna civiltà di massa, e al concetto stesso di massa. Si tratta di un aspetto di estrema attualità, ma per coglierne a pieno l'importanza anche sul piano storico è opportuno ricordare che Caffi assume questa posizione in un'epoca in cui i partiti socialisti che si ispiravano al modello della socialdemocrazia tedesca, e in seguito i partiti comunisti nati dalle suggestioni dell'Ottobre bolscevico, facevano proprio delle "masse" il perno della loro azione politica, alle "masse" si rivolgevano con la loro propaganda, sul controllo delle "masse" basavano la propria forza e il proprio potere. Caffi
non ha alcuna simpatia per l'uomo-massa prodotto dalla società contemporanea,
anzi lo ritiene un pericolo che lascia intravedere sbocchi autoritari o
totalitari per il genere umano. In ogni caso, l'uomo-massa è incompatibile
con la concezione del socialismo che ha Caffi. Nel saggio Il socialismo
e la crisi mondiale, del 1949, egli scrive in proposito: "Il socialismo
in quanto: 1) capacità di concepire l'ambiente sociale alla luce
duna 'critica' rigorosamente razionale esplicata dalla 'facoltà
di giudizio' dell'individuo; 2) solidarietà profonda fra individui
che 'si sono compresi' non superficialmente fra loro e si sono sentiti
legati da un modo press'a poco identico di intendere (ma anche di sentire,
giudicare) la realtà circostante - non può assolutamente
adattarsi a una 'organizzazione di masse'.
In un altro scritto del 1952, Borghesia e ordine borghese, Caffi afferma: "E tuttavia qual è la qualità più evidente di tali masse? L'inerzia. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività umana che sola può farli funzionare non s'è prodotta: la 'massa' dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto 'collettività massiccia', essa è incapace di 'possedere' sia i mezzi materiali di produzione sia gl'ingranaggi complicatissimi di un'amministrazione economica. Sentendosi 'incapace', la massa subisce. Che fare? Accettare la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello 'sviluppo storico'? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirannide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la massa riuscisse ad abolirsi in quanto massa (...) E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gl'indivìdui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi di 'eguali' capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un'emancipazione reale" (15). Proprio l'attenzione
per gli individui, per le coscienze individuali con i loro processi a volte
anche lenti di maturazione e di crescita, porta Caffi a manifestare una
radicata diffidenza nei confronti dei partiti organizzati e dei grandi
apparati burocratici. La sua preferenza va piuttosto ai gruppi di affinità,
i piccoli gruppi di amici di cui preconìzza l'avvento nelle pagine
conclusive del suo saggio Critica della violenza, pubblicato per la prima
volta nel numero di gennaio 1946 della rivista «Politics» di
New York, diretta da Dwight MacDonald: "Oggi, il moltiplicarsi di gruppi
d'amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi
valori
avrebbe più importanza di qualsiasi macchina di propaganda.
Tali gruppi non avrebbero bisogno di regole obbligatorie né di ortodossie
ideologiche; non fiderebbero sull'azione collettiva, ma piuttosto sull'iniziativa
individuale e sulla solidarietà che può esistere fra amici
che si conoscono bene e dei quali nessuno persegue fini di potenza" (16).
Critica della violenza Tra i temi trattati da Caffi nei suoi scritti, grande rilievo assume la critica della violenza, a cui ha dedicato il saggio appena citato, che resta uno dei suoi più belli e penetranti. La tesi di Caffi è espressa con grande chiarezza fin dalle prime righe, dove afferma che un movimento "il quale abbia per scopo di assicurare agli uomini il pane, la libertà e la pace, e quindi di abolire il salariato, la subordinazione della società agli apparati coercitivi dello Stato (o del Super-Stato), la separazione degli uomini in 'classi' come pure in nazioni straniere (e potenzialmente ostili) l'una all'altra, deve rinunciare a considerare come utili, o anche possibili i mezzi della violenza organizzata, e cioè: a) l'insurrezione armata; b) la guerra civile; c) la guerra internazionale (sia pure contro Hitler, o... Stalin); d) un regime di dittatura e di terrore per consolidare? l'ordine nuovo" (18). Come ha scritto
Nicola Chiaromonte, "in un'epoca in cui non solo legioni di intellettuali
si son gloriati di essere affiliati al partito della violenza, ma si son
trovati filosofi per introdurre la violenza nella natura stessa del pensiero,
Andrea Caffi opponeva alla violenza in ogni sua forma un rifiuto radicale.
Quale che ne sia il punto di partenza, si può ben dire che il suo
discorso è sempre diretto a opporre le ragioni dell'uomo all'urgenza
delle forze che lo assillano, e talvolta lo sopraffanno" (19).
Le concezioni di Caffi, espresse negli ultimi anni di vita nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, trovano le loro radici sia in un comprensibile e molto umano sentimento di disgusto e di orrore per la violenza in sé, sia soprattutto nella convinzione che il ricorso ad essa sia inefficace e controproducente ai fini della creazione di una società libertaria e egualitaria (22). Se questo era vero anche per il passato diventa a maggior ragione fondamentale dopo lo spaventoso salto di qualità che i mezzi di distruzione di massa hanno raggiunto nel corso del nostro secolo e in particolare durante e dopo la seconda guerra mondiale (23). Scrive Caffi in proposito: "a) la violenza è incompatibile con i valori di civiltà e d'umanità socievole che noi vogliamo appunto preservare dagli attentati distruttori dei violenti; usando la violenza noi rinneghiamo necessariamente i valori che sono la nostra ragione di vivere e ne ritardiamo indefinitamente la propagazione e la fioritura; b) le risorse meccaniche e i sistemi d'organizzazione massiccia (eserciti e polizia Ceka e Gestapo, campi di concentramento, regime russo nei paesi satelliti) che vengono attualmente impiegati nella lotta fra gruppi umani hanno raggiunto un tale grado d'atroce efficienza che la distruzione completa della società civile se non del genere umano è diventata una possibilità effettiva. Non è affar nostro provocare l'Armageddon" (24). Se la condanna della violenza come strumento di una lotta politica socialista e libertaria è netta e inequivocabile, non è comunque da escludere - anche se la questione nel saggio citato non è minimamente affrontata - che per Caffi possano esistere situazioni estreme in cui il ricorso alla violenza si renda necessario come legittima difesa sia individuale che collettiva. Proprio il fatto di avere fondato la sua opzione nonviolenta su considerazioni di natura etica e pratica senza assolutizzare rende possibile ipotizzare delle eccezioni, ossia delle situazioni eccezionali e estreme nelle quali il ricorso alla violenza sia inevitabile se non altro per salvaguardare la propria vita e alcuni valori irrinunciabili. Non va dimenticata in proposito la partecipazione di Caffi alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale che gli costò tra l'altro l'arresto e le torture della Gestapo (25). Ma sembra di
potere concludere che per Caffi, ammesso che appunto ci siano casi limite
in cui l'uso della violenza si renda necessario, questo fatto rappresenti
comunque la presa d'atto di una sconfitta, l'accettazione del terreno di
scontro scelto dal nemico e a lui più congeniale. In ogni caso non
è attraverso la violenza che si può arrivare alla costruzione
di una società di liberi e di uguali.
Stato e Nazione La concezione
che Caffi ha del socialismo, già è stato sottolineato più
volte, è apertamente e dichiaratamente libertaria. Non è
un caso che nel 1964, nel presentare la prima raccolta di scritti di Caffi
da lui curata apparsa col significativo titolo "Socialismo libertario",
Gino Bianco abbia richiamato una citazione di Rodolfo Morandi che Caffi
avrebbe sicuramente condiviso e che potrebbe benissimo essere uscita dalla
sua penna:
Per Caffi, la direzione verso la quale ci si deve muovere è quella della applicazione del principio federativo alla struttura e alla macchina amministrativa dello Stato, e del completo superamento dell'idea di sovranità dello Stato-nazione. La struttura unitaria e tendenzialmente monistica dello Stato va modificata mediante una idonea azione costituente. Da un lato si deve sottrarre l?esclusiva della sovranità allo Stato nazionale attraverso la creazione di una federazione europea, dall'altro occorre creare e rafforzare tutta una serie di enti autonomi (cooperative, sindacati, associazioni politiche, |