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Il condominio (che poi, novità...)
 

di MAURILIO BAROZZI

  Impossibile dire se nacque per volontà di chi chiedeva un tetto per ripararsi dalle intemperie e per ricoverare i propri beni o per la brama di chi così avrebbe potuto guadagnare ancora un po' di più. Eppure c'è. Una volta accanto alla taverna erano solo sterpaglie disordinate che offrivano rifugio ai topi — fuori e dentro, fuori e dentro (fuori affamati e magri; dentro satolli e grassi, come madri incinte, dopo aver saccheggiato la dispensa della locanda) — agli insetti e ai monelli che ci andavano a giocare. E a cercare le rane, sempre per giocare. Uccidendole. Sadicamente. Senza pietà per un dolore che loro non sapevano cosa fosse, innocenti, non lo avevano mai provato. Un sigaro acceso conficcato a forza nella bocca dell'animale gli faceva entrare il fumo nei polmoni senza permettergli di espirare. La rana si ingrassava, si gonfiava. E poi scoppiava tra le risa fragorose dei monelli. Che erano già alla caccia di un'altra vittima da sacrificare al loro ludico — innocente (ché non sanno cos'è il dolore) — passatempo. E ce n'erano così tante. Per una morta, quelle sterpaglie gracidanti testimoniavano una moltitudine vivente, riproduttiva, gravida di nuove vittime (dei monelli) e nuovi carnefici per i vermi e gli insetti, nutrimento principe degli anfibi anùri.

Sterpaglie stinte anche a primavera, nonostante la stagione delle piogge: erano irrorate prima dal vomito e dall'urina dei vecchi. Ubriachi e barcollanti, urlavano oscenità ai monelli, li cacciavano. Poi chini in avanti a ridare ai campi sotto forma di liquido miasmatico il succo che proviene dall'uva; oppure in precario equilibrio a mingere sull'erba e sulle scarpe. E di nuovo dentro la taverna, a bere vino, giocare a carte e bestemmiare, a blaterare. I vecchi: invenduti e invendibili libri e giornali di mille anni fa, che condivano di sacramenti ogni racconto e che s'inventavano eroiche gesta mai realmente esistite; ma che erano la storia e la cronaca di quello che la quotidianità — ingorda routine con poche, coraggiose o comode, eccezioni — non riusciva ad inghiottire nei ritmi sempre uguali del lavoro; sempre uguali delle ubriacature alla taverna; sempre uguali delle attenzioni alla procreazione animale; sempre uguali della messa della domenica — inascoltata ma vigliaccamente e reverenzialmente partecipata. Raccontavano; e non si dovevano neanche preoccupare di grattare via le scorie dalla storia: la storia erano loro. Erano la ruota che passa sulla terra nuda e lascia il segno. Erano il perno che la fa girare. Erano il motore che la spinge e la morchia che la unge ma a volte insozza il meccanismo. Essi erano: e se volevano quei grumi lerci potevano anche lasciarli.

Oggi i vecchi sono in pensione. Non quei vecchi; molti sono morti. Ma quelli che non erano vecchi, allora. E che adesso sono diventati vecchi: berciano ancora, anfanando contro il rumore che aumenta ogni giorno, schiavo del progresso, figlio del progresso, compagno del progresso; e quel rumore fa alzare la voce ogni giorno per nulla o per qualcosa o semplicemente per farsi sentire. Lì c'è il condominio spuntato come un grosso fungo il giorno dopo che le ruspe erano in azione. Dentro — nelle scatole tutte precise, ordinate, seriali — non ci sono più le stagioni. Non c'è più freddo e non c'è più caldo. Non c'è più il fuoco che scalda le notti lunghe dell'inverno, iniziate ancora prima di quando i succhi eupeptici possano aver fatto effetto. E interrotte presto, così presto: prima di quando la luce del sole abbia proiettato sulle tende delle finestre — allora basse — il profilo delle cose fuori, del mondo. 
 

   Allo specchio si deformavano un po', da lontano. Allora accostava il viso fino a pochi centimetri dal vetro che glieli restituiva esatti, precisi. Li osservava da vicinissimo. Poteva distinguerne i singoli peli. «Due gran bei baffi», pensava compiaciuto.
Appena tornava a casa dal lavoro si metteva in bagno e con il pettine cercava la giusta forma, la giusta impostazione per due mustacchi che si rendeva conto: erano regali. Ma anche la pettinatura giusta, una opportuna lisciata potevano evidenziarne i pregi. La parte superiore della bocca era completamente coperta così come gli angoli, nascosti da quella folta peluria. Solo quando apriva la bocca gli si potevano notare i denti, quelli della parte inferiore. Per gli incisivi superiori non c'era alcuna speranza: il baffo schermava tutto alla perfezione. «E pensare che una volta mi chiamavano dentone», pensava stirandosi le estremità.
Alla gara del baffo lo aveva iscritto per la prima volta - anni addietro - un conoscente, anche lui baffuto. A sua insaputa. Già, non ne sapeva nulla, lui. Un giorno si trovarono al bar e il suo compare lo informò: «Tieniti pronto e cura il baffo: ti ho iscritto alla più importante competizione del genere».
Nessuna altra parola.
Iniziò così una sistematica attenzione alla forma, all'infoltimento, alla dimensione del baffo. Prese a stare attento a come beveva, non voleva sbavarsi troppo sul mustacchio, con il rischio di snaturarne il colore, di far perdere a quel nero lucente la sua brillantezza. 
Il primo anno non andò benissimo, ma da allora la gara di baffo divenne il suo appuntamento di riferimento. E ora, dopo diverse partecipazioni, si sentiva pronto per sferrare davvero l'attacco alla posizione d'onore. Quel primo posto che lo avrebbe fatto entrare nell'albo d'oro dei baffoni. Non avrebbe fallito.
«Ahh, aaah! Guarda, guarda dove si annida! Maledetto pelo bianco! Ma adesso ti elimino subito. Non sarai certo tu a farmi perdere una gara che ormai è mia». Senza allontanare il viso dallo specchio, prese la pinzetta e lo cercò con un piccolo movimento circolare del polso. Lo imprigionò tra le due chele metalliche. Chiuse stretto.
Un rumore, fuori sulle scale, lo distrasse. Fu una frazione di secondo ma tanto bastò a fargli perdere quella presa così salda. La pinzetta allentò un attimo, poi riprese ad essere chiusa ma quando tirò quel pelo bianco era sfuggito. Se ne accorse un istante dopo, mentre lo riguardava.
«Porca troia, è scuro, dove è restato quel bastardo di pelo bianco? Maledetto è ancora lì! E io ho tolto uno dei miei buoni per colpa di qualche inquilino del cazzo».
Uscì dal bagno e con un passo fu sulla porta d'ingresso. La spalancò. Fuori, sulle scale non c'era nessuno. Ma lui sapeva che quel rumore qualcuno doveva pur averlo fatto. Qualcuno che adesso si nascondeva vigliaccamente nel proprio appartamento.
«Fate piano quando salite queste maledette scale, chiaro?! Mica tutti stanno lì a non fare un tubo. C'è anche chi deve far lavori di precisione, serve concentrazione. Fate piano su per queste stracazzo di scale», gridò. «Ora di sicuro l'ha capita, quel casinista» bofonchiò tra sé.
Si rimise allo specchio, riprese a la pinzetta e ricominciò a lavorare sui baffi.
«Ah, accoti qui, maledetto. Credevi tu! Ma non è ancora cresciuto il pelo bianco che possa farmela. Quella gara è mia. Non posso perderla» disse, dopo averlo finalmente staccato. 

   Sono arrivati in tre, un giorno. Avevano le camicie con i colletti puliti e inamidati, le cravatte e le giacche abbottonate. O magari non erano neanche tre, ma quelli che stavano alla taverna quel giorno dissero: tre (anche se certi raccontano che fossero stati solamente due). Hanno guardato la distesa di sterpaglie e indicavano col dito un punto non ben definito: marinai che tracciano la rotta in mezzo ad un mare che non è loro, ma che sentono loro; che cercano una terra d'attracco che non è loro, ma che credono loro; che scrutano un orizzonte che non sempre è roseo, ma che per il fatto stesso di essere orizzonte — futuro! — s'illudono roseo. Nessuno ha sentito cosa dicessero; poi sono entrati alla taverna e hanno bevuto, brindando, in mezzo a tutti i villani che invece tenevano le maniche di camicia arrotolate sulle braccia, senza giacche e con il collo consunto e sudicio, coi bottoni aperti. E chi aveva il coraggio di chiedere? Tutti ebbri dal vino che scorreva nei loro bicchieri e poi nelle loro pance e poi nelle loro teste, offerto subdolamente dai signori con la giacca. Ma ugualmente capirono: i buoi di ferro con i cingoli grandi come uomini arrivarono pochi giorni dopo, guidati da altri come loro — colli sporchi e camicie logore —, e solcarono la distesa di sterpaglia, unico rifugio di topi, insetti e vermi; riserva di caccia dei monelli durante il giorno e latrina a cielo aperto per i frequentatori notturni della taverna: i vecchi. Che poi non erano davvero vecchi, ma allora sembravano.

Tanti ci dormono, nel condominio. E impiegarono così poco a costruirlo — per abitare? per guadagnare? — sotto lo sguardo furtivo e attento, nascosto ma inesorabile di chi alla taverna ci andava per bere il vino. Dei vecchi di allora — ma erano poi così vecchi? — che dopo parlavano tra di loro; dicevano che non si poteva — troppo rumore —; che nuove case in fin dei conti non servivano. E tutti erano così d'accordo. Andavano poi a loro volta nelle rispettive case e raccontavano tutto alla moglie, ai figli: che stavano ad ascoltare. Non solo udivano, ma proprio ascoltavano. Le donne potevano annuire al discorso che era stato fatto alla taverna (mentre quando gli uomini alla taverna parlavano di carte, tornavano a casa e non raccontavano: ordinavano e mangiavano). Finalmente orgogliose e partecipi del ragionare del marito. Così le donne — precocemente vecchie: ormai mille volte madri, costrette e capaci di soddisfare i desideri di piacere e di nuovi contadini o braccia-lavoro dei mariti — il giorno dopo si trovavano a fare la spesa nel negozio e parlare con le altre donne — amiche? — di quello che avevano sentito il giorno prima dagli uomini. Anche loro a dire che quella enorme costruzione sarebbe stata inutile.
 
   Quando suonò il campanello, Eric finì di rompere la sigaretta e di lasciarsi cadere il tabacco nel palmo della mano sinistra. Poi si alzò ed andò ad aprire senza chiedere 'chi è'. Tornò a sedersi sul divano. Mischiò dell'erba al tabacco; mise tutto in una cartina e la chiuse, rollandola.
Carlo aveva fatto le scale. Entrò dalla porta senza bussare. Con lui c'era un altro tizio; aveva in mano la custodia di una chitarra.
«Hai portato un altro chitarrista?», disse Eric.
«Bassista», lo corresse Carlo. «Bassista. Viene dagli Stati Uniti».
«Hi», fece l'altro.
«Do you smoke?» chiese Eric, senza distogliere gli occhi dallo spinello che stava confezionando.
«Yes, please».
«A me non chiedi se fumo?»
«Lo so già. In frigo ci sono delle birre».
«Prima berrò un po' di questo vino», fece Carlo. E prese la brocca che stava appoggiata sul tavolo lercio. C'erano tre bicchieri sporchi, un portacenere pieno di cicche spente, le scorze di un salamino, un coltello, una forchetta e qualche pezzo di pane in mezzo a mille briciole. Il vino nella brocca sembrava pulito: non ci galleggiava niente. Carlo comunque non ci fece troppo caso. Prese uno dei bicchieri, gli diede un'occhiata di sfuggita e lo riempì di vino. Poi bevve.
L'americano tolse il suo strumento dalla custodia. Eric gli passò lo spinello. Si alzò dal divano e andò in cucina. Venne con una confezione di birre e con la sua chitarra. Si sedette. Anche Carlo aveva tirato fuori la sua chitarra.
«Può stare solo mezz'ora. Poi ha l'aereo. Ma la settimana prossima torna qui e si ferma un po'. Così, se siamo d'accordo, può venire a fare qualche serata con noi. Ci manca un bassista», disse Carlo ricevendo lo spinello dall'americano.
«Vediamo come suona – disse Eric –. Do you know Around the World?»
«Red Hot Chili Peppers?».
«Of course. Do you know this song?», chiese ancora all'americano mentre posava il joint che Carlo gli aveva ridato nel posacenere, per terra.
«Of course».
«Let's start».
Eric espirò l'ultima boccata di marijuana e iniziarono a suonare. L'americano andava bene. Carlo pensò che Eric fosse un gran bastardo a chiedere una canzone dei Red Hot Chili Peppers. Certo, grazie a quel pezzo avrebbero subito capito chi avevano di fronte. Però solo un figlio di puttana chiede a un musicista appena incontrato di suonare qualcosa di difficilissimo.
«Suona come dio comanda, mi sembra» disse Carlo, senza smettere di schitarrare.
«Ora lo capiamo», fece Eric. Poi si interruppe. Aprì le birre e le scolarono.
«What's your favourite song?»
«Starway to heaven».
«O.K.». Partì con l'attacco di Starway to heaven. Il nuovo arrivato si dimostrò decisamente all'altezza. Eric si rallegrò; mentre Carlo e l'americano continuavano a suonare, andò a prendere del bourbon. Ne versò nei bicchieri sporchi che stavano sul tavolo. Bevvero a rapide sorsate, senza fermarsi. Improvvisarono una session di jazz, così, al volo. Nessuno l'aveva proposto. Quelle note arrivarono automatiche.
Poi l'americano disse che doveva andarsene. Carlo e Eric si alzarono e lo accompagnarono alla porta.
«Bene – disse Eric –. When you come to Italy, call me. We will play together».
«Certainly!»
«Take it – fece Carlo mettendogli in mano la bottiglia con il bourbon che avevano avanzato –. If the airplane falls down...»
«Fuck off», disse l'americano avvicinandosi la mano che teneva la custodia del basso alle parti intime.
Risero.
L'americano scese le scale e se ne andò.
Eric e Carlo tornarono dentro. Aprirono un'altra bottiglia di whisky. Riempirono i bicchieri e bevvero. Eric iniziò a strimpellare la chitarra.
Sempre suonando, sbirciò Carlo con la coda dell'occhio.
«Non male, l'americano. Dove l'hai pescato?»
«L'ho incontrato al pub. Parlava di musica, diceva che voleva stare qui un po' di tempo e che avrebbe voluto suonare».
«Ho capito, le tue solite conoscenze occasionali...»
«Quando porto donne, però, non ti sei mai lamentato».
«Sono un uomo. E comunque neanche oggi mi sono lamentato, mi pare».
«Ah, ah. È vero. Anch'io sono un uomo. Dai, suoniamo I'm a man. Poi ci facciamo uno spinello».
«E che uomo».
Iniziarono. Carlo imbracciò la chitarra mentre Eric ripose la sua; lo accompagnava con l'armonica a bocca. Ogni tanto smetteva con l'armonica e attaccava a battere il tempo con le mani sul tavolo, come fosse un tamburo. O picchiettava sui bicchieri con una forchetta. Era anche un buon percussionista.
Bussarono alla porta.
Eric si alzò e andò ad aprire senza chiedere 'chi è'.
Carlo continuò a suonare la sua chitarra. Le ultime cose che vide furono la canna di un fucile spuntare dalla porta; la schiena di Eric squarciata spruzzare sangue sul muro; ancora la punta del fucile che lo guardava dritto; il balenare di una scintilla. Nient'altro.
 
   Lo sguardo vigile dei vecchi alla taverna era puntato sulla distesa mentre veniva violentata. Scrutava quello che non si poteva scrutare e poi vedeva quello che non avrebbe mai pensato di vedere: il futuro. Il loro futuro. Che quando sarebbe diventato presente per loro era già passato, già veduto, già vissuto. E i loro simili sulle ruspe — simili ma stranieri — a sudare sotto il sole, consapevoli di essere spiati e giudicati, notati e criticati non tanto per quello che stavano facendo nel presente (a parte il rumore), ma per quello che (ciò che facevano) si apprestava a divenire. Orinare nel verde o in una enorme fossa marrone di terra — ancor più simile alle latrine che gli uomini (vecchi?) avevano conosciuto durante la guerra —, cosa cambiava? Nulla. Ma sapevano che sarebbe finito. Domani — un domani vicino o lontano, che importa: sarebbe arrivato — sapevano che non poteva più essere così. Si sentivano spodestati di un loro diritto in nome di qualche cosa di cui non vedevano la necessità — che bisogno c'era di altre case? —, in nome di un concetto: il guadagno. Il profitto di uno di quei tre (o due, come ricordavano alcuni, lì alla taverna) che erano arrivati con le giacche e le cravatte al campo di sterpaglie, dal nulla. E quei loro simili, che guidavano le ruspe per il guadagno degli uomini con la giacca, non erano poi così simili (essi aravano la terra — la loro terra o la terra di qualcun altro — per raccoglierne i frutti e dunque potersene cibare [loro o qualcun altro]: sopravvivere — i ruspisti divoravano la terra [e dove finiva poi?] per fare guadagnare gli uomini con la giacca e la cravatta, che nel frattempo stavano guardando, con il loro braccio teso e l'indice puntato, verso un altro orizzonte ancora) ma avversari al servizio di un nemico astuto e inafferrabile che non si fa nemmeno vedere sul campo di battaglia. Che dopo aver esaminato il territorio una volta con gli ufficiali se ne va; e lì ci manda i soldati.
 
   «Sarà una splendida sorpresa».
«Certo che lo sarà. Deve rimanere un giorno indimenticabile».
«Lo ricorderà, lo ricorderà. Già adesso mi ha detto Anna che è tutto contento, che non vedeva l'ora. Ma dopo stasera sarà ancora più contento, vedrai».
«Uhuu, qui sta venendo una cosina con i fiocchi, senti che profumino».
«Quando aprirà la porta e lo sentirà sarà tutto contento... Ti sei ricordata la crema di cioccolato?».
«Diamine, che sbadata. Se non me l'avessi detto... Che guaio avrei combinato. Ih, Ih, Ih».
«Già, Ih, Ih, Ih. Come mai Anna non ha messo qui il crocifisso che le abbiamo regalato, qui nella cucina, in modo che lo si possa vedere ogni giorno?»
«Non lo so comunque... Sì, è vero: lì in quel piccolo atrio non c'è luce. Eppoi uno nell'atrio non ci sta per molto tempo, passa e via. Non è che lo può notare più di tanto».
«Sai cosa facciamo?»
«Cosa?»
«Spostiamolo, facciamo a Anna e a Giacomo un'altra sorpresa».
«Non so però se a Alberto farà piacere. Sai che quell'uomo è un irascibile».
«Un nevrotico».
«Un nevrotico miscredente».
«Già. Beh, comunque questo non è un buon motivo per farlo continuare a vivere nelle sue assurde atee convinzioni. Io direi che noi glielo possiamo spostare ugualmente. Tanto cosa vuoi che dica?»
«Eppoi è il giorno della comunione di Giacomo, cosa potrebbe dire proprio mentre il ragazzo è stato comunicato per la prima volta? Ma cosa è saltato in mente a nostra sorella di sposare quell'uomo. Ah, se fosse viva nostra madre... Non gliel'avrebbe certo fatto fare questo errore...»
«Vai a prendere il martello e un chiodo, mentre io cerco un posto dove potremmo appenderlo».
«Vai prendere tu il martello e i chiodi, che sai dove sono. Vedo io dove attaccarlo».
«No, l'ho detto io. E poi lo sai anche tu dove sono i chiodi e il martello».
«Sì ma io sto preparando la torta. Sai che figura se arrivano e la torta si è bruciata per colpa tua che non hai voluto andare a prendere il martello?»
«Intanto se non ci fossi stata io ad avvertirti a quest'ora tu avresti fatto una torta orribile e disgustosa. Senza neanche la crema di cioccolato. A Giacomo non sarebbe certo piaciuta. Mentre vai a prendere gli attrezzi io controllerò la torta. Tra l'altro ho avuto io l'idea di spostare il crocifisso da quell'atrio buio. Decido io dove sia meglio metterlo».
«Cosa vorresti dire? Allora se non fosse stato per me che ho avuto l'idea di chiedere ad Anna le chiavi dell'appartamento mentre loro andavano a far visita ai parenti di Alberto, non facevamo nessuna sorpresa a Giacomo. Non facevamo nessuna torta e non potevamo certo spostare il crocifisso».
«Se la metti su questo piano io ti mollo e me ne vado a casa. Tanto più che l'ho già detto io dove metterlo il crocifisso: in cucina».
«Vuoi andare a casa? Prego accomodati. Per la torta non ci sono problemi. E comunque in cucina il crocifisso non lo possiamo certo mettere».
«Figurarsi!»
«Certo che no. Alberto darebbe in escandescenze».
«Questi sono fatti suoi. L'abbiamo già detto: cosa vuoi che dica nel giorno della comunione di Giacomo?»
«Basta che lo tolga giù. Avrebbe già fatto il danno».
«Neanche per sogno. Il crocifisso va messo in cucina».
«No. Nella cameretta di Giacomo. Così lui lo vede ogni notte prima di coricarsi».
«Ma non lo vede nessun altro. E siamo daccapo».
«Lo vede anche Anna quando va a rifargli il letto».
«In cucina ci entrano anche gli ospiti».
«Ma Alberto?»
«Va a prendere il martello».
«Vai tu».
«Io vado a prendere il martello. Tu vai a prendere i chiodi».
«Mi sembri una bambina dell'asilo che fa le ripicche»
«Se fossi andata subito, senza tante storie, non ci sarebbe alcuna ripicca. E comunque io porto solo il martello, così impari».
«Gesù non sarà misericordioso con te. Sei una vipera velenosa».
«Gesù sa capire chi ha ragione e chi torto nelle diatribe: non avrà misericordia di te, che per la tua pigrizia non gli hai permesso di mostrare la sua immagine sofferente. Di fare da esempio. Fosse per te la sua morte non avrebbe insegnato nulla a nessuno».
«Gesù... La torta!».

  Sotto il sole che rende rovente il metallo della ruspa, gli operai sudavano; ancora di più perché sapevano di essere guardati e controllati come longa manus del nemico. L'avamposto di un esercito invitto e invincibile. Ma sapevano anche che non ci potevano fare nulla: dovevano solo fare il proprio lavoro — bello o brutto, più brutto che bello — per sopravvivere. E se poi gli uomini con la giacca e la cravatta avrebbero guadagnato senza nemmeno sporcarsi le mani, senza rovinare con il sudore il colletto della camicia, a loro (ai ruspisti) non doveva interessare. Prima o poi tutti avrebbero capito che non erano loro (i ruspisti) a cancellare quel prato di sterpaglie giallastre, stinte, maleodoranti — che però erano le loro (di quelli che andavano a bere vino alla taverna e dei loro figli — o figli dei loro amici — monelli) sterpaglie — ma che a cambiare i connotati del paesaggio era il padrone, l'edilizia, il guadagno, l'economia, il progresso, la demografia. Concetti. Eppure vivi: quasi dei. Anzi: dei. Con infinite schiere di templari al loro (dei concetti, degli dei) servizio.

Finita la buca — latrina vera e propria, ricettacolo di quella rabbia che faceva travasare anche la bile oltre alle copiose minzioni e il vomito di ubriacature furiose, consumate ad insultare il padrone, il guadagno (degli altri), il rumore — le ruspe se ne andarono e arrivarono altre truppe. Quelle della gru. Quelle dei muratori. Ancora più sporchi di quelli che guidavano la ruspa. E lavoravano ancora più duro. Bestemmiavano come loro (i contadini) quando l'aratro non voleva andare avanti, con il vomere incagliato in qualche pietra: lì a spingere con tutte le forze e maledire il giorno in cui avevano venduto il bue (oramai non serve più, avevano pensato). I muratori uguale. Portavano sacchi pesantissimi di cemento e sabbia sulle spalle. Stanchi già alla mattina presto. Assetati di vino e di storie di donne. Quelle che raccontavano loro (i contadini — vecchi?) dopo il lavoro alla taverna, ma più spinte, più chiare, più lunghe: perché dovevano servire tutto il giorno durante il lavoro e poi anche alla sera, in qualche bar chissà dove, nel quale sarebbero andati poi a ripeterle ad altri. E la sete non passava mai. Il sudore richiamava il vino che faceva sudare di più e sentire di meno la fatica e avere più voglia di sempre nuove storie, di donne, di bordelli. Un nuovo esercito arrivava e adesso ormai per chi stava alla taverna di sera si trattava di orinare sulle pareti ancora grezze di una casa che si stava annunciando grandissima — ma chi ci verrà ad abitare, un re? — Il futuro stava per dischiudersi; stava per diventare presente. E per i vecchi era già passato.
 
   La madre di Maria stava pulendo il pavimento. Aveva un lungo grembiule azzurro. Somigliava al camice dei medici, ma era consunto e troppo aperto sul davanti per essere quello di un medico. Sulla testa, sopra i bigodini – trucco per incresparle e ravvivarle un po’ i capelli ormai rinsecchiti –, una retina fissava il disegno della parte più alta della sua figura, le delineava il perimetro.
Era leggermente ricurva in avanti per fare pressione sul manico dello scopettone che governava lo strofinaccio a terra. Indossava dei guanti di gomma gialli, per proteggersi le mani dalla varechina messa nell’acqua dove sciacquava di tanto in tanto lo straccio. «Così si pulisce meglio, e si disinfetta», si era detta mentre versava il composto chimico nella bacinella.
Sopra il polso destro teneva il guanto ripiegato verso la mano e quell’avambraccio le rimaneva libero dalla plastica: era coperto solo dalla tela del grembiule, con la quale poteva detergere il sudore che le si formava a grosse gocce sulla fronte.
Faceva caldo, anche se era già sera. Il marito era uscito per andare alla taverna, subito dopo cena. E lei ne approfittò: «La casa è vuota e così posso pulire in pace», aveva pensato.
Quando suonò il campanello poggiò lo spazzolone e andò al citofono.
Era Maria.
La donna aprì la porta e si affacciò sull’uscio, per vederla salire quella breve rampa di scale.
«Aah benvenuta! Non dovevi star via solo tre giorni. E invece ti presenti a casa ora?», le disse.
«Sono stata via un po’ di più. Ma in fin dei conti sono soltanto cinque giorni, mamma», rispose Maria, tenendo lo sguardo sui gradini che stava percorrendo. La posizione leggermente ricurva in avanti le permetteva di non vedere la madre che si manteneva in piedi grazie all’aiuto dello stipite al quale era appoggiata con la spalla e, nello stesso tempo, di controbilanciare il peso dello zaino che teneva sulle spalle.
«Solo cinque giorni!? Ma se io alla tua età fossi stata al mare cinque giorni, anziché tre come avevo detto, tua nonna mi avrebbe mandato a dormire senza cena per una settimana. E poi guardati: sei più pallida e magra di quando sei partita. Altro che riposo».
«Ho preso brutto tempo», si giustificò Maria entrando in casa. Camminava nel breve corridoio cercando la sua camera. Era seguita dalla madre, che continuava a parlare.
«Stai attenta a dove metti i piedi che ho appena pulito, non vedi? Mentre la signorina era al mare io ho lavorato, cosa credi? Eppoi brutto tempo... A chi vuoi raccontarla? La so io la verità: sei stata in discoteca tutte le sere e di giorno stavi a dormire. Se alla tua età fossi andata io cinque giorni al mare sarei tornata olivastra, non bianca come un cadavere».
«Mamma, sono stanca».
«La principessa è stata al mare e ora è stanca. E io cosa dovrei dire, allora? Sempre qui a lavorare mentre gli altri sono in giro a divertirsi, eh? Va a dormire va la, così non mi sporchi il pavimento. A proposito: ha telefonato quel ragazzo, il figlio dell’avvocato Russo. Come si chiama... Marco. Ha chiamato un paio di volte. Mi ha chiesto come stavi. Dì: non sapeva che andavi al mare con le tue amiche? Ma non vi parlate neanche?»
Maria non rispose.
Entrò in camera.
Squillò il telefono.
La madre mollò subito lo scopettone e si precipitò all’apparecchio appoggiato su una mensola nell’atrietto.
«Pronto?»
«...»
«Certo che è arrivata, la regina. Ma adesso è stanca. Torna dalle vacanze con due giorni di ritardo, senza avvertire nessuno e poi arriva stanca, la signorina — disse forte, di modo che Maria potesse sentire dalla sua stanza —. Ora te la passo. Mariaaa, è per te. È Marco».
La ragazza disse che avrebbe usato l’apparecchio in camera, lei poteva abbassare la cornetta.
«Come stai, Maria? Andato tutto bene?»
«Si, bene. Ma non ho voglia di parlarne».
«Dai, non fare così, non ricominciamo. È stata la scelta migliore, no? Ma tua madre cosa dice? Mi parla di mare, cosa vuol dire, non sa nulla?».
«E tu cosa le hai detto», ebbe un sussulto Maria.
«No... Ho telefonato l’altro ieri, ho chiesto se eri già tornata. Lei mi ha risposto che non ti eri ancora fatta viva, che probabilmente ti stavi divertendo troppo. Allora ho lasciato perdere: non capivo se mi stesse prendendo in giro, se ce l’avesse con me o se non sapesse nulla. Ho preferito lasciar perdere», disse Marco.
«Ah, bene».
«Ma vuoi dirmi come è andata? Non hai sentito male, vero? Era come ti avevo detto, no? Però ti confesso che ero un po’ preoccupato, avrei voluto sapere...».
«Lasciamo perdere, ti prego».
«Perché insisti con questo atteggiamento, Maria? Cos’altro potevamo fare? Te l’ho già spiegato: era l’unica scelta possibile».
«D’accordo, basta. Ora vorrei dormire».
«Come? Non vuoi nemmeno raccontarmi come ti hanno trattata, se hai fatto amicizie...»
«Amicizie? Ma fai il piacere... Lasciami in pace, ti prego. Sono piuttosto stanca».
«Come, ho diritto di sapere...»
«Lascia stare i diritti. Te l’ho già detto: sono stanca».
«Ma allora mi racconti domani, eh? Dì: domani mi dici tutto, vero? Comunque stai bene, vero?»
«Si, domani».
 
   Essi (i vecchi) cominciavano pure ad essere stanchi di faticare come le bestie — ché le bestie le avevano vendute — nei campi. Qualcuno di quelli che andava alla taverna aveva parlato con l'uomo con la giacca ed il colletto pulito. Che gli aveva proposto di vendere un po' (o anche tutto, se avesse voluto) di quel terreno che ormai lo faceva soltanto sacramentare; che non riusciva a dar da vivere a lui e a tutti i suoi figli — nati dalla passione o dall'istinto animale che anni fa gli aveva fatto amare ogni notte la moglie e che ora riconosceva solo come balorda follia perché la moglie non riusciva più a desiderarla e i figli non erano braccia per i campi, come sperava, ma bocche da sfamare —; una terra che stava diventando più una maledizione che una vocazione o una fonte di vita. Ormai si vedeva sperduto in quel campo che gli era ogni luna che passa più avaro e ogni luna che passa più ostile; lo lavorava per abitudine non per guadagno, ancorato com'era all'ossessione — moderno Ahab nei mari del sud a caccia della Balena Bianca — di sottomettere la natura per domare il destino. Eppure se ci pensava, vedeva che quella lingua di podere non era più la risorsa alla quale attingere con fatica, ma con soddisfazione: la terra per lui era la maledizione del giorno che segue la notte. Era la natura che non si fa imbrigliare da un uomo: lui crede, s'illude di aver vittoria facile — per la irrisoria semplicità con cui la tatua, la marchia e la delimita con crepundi, la irrora di semi che poi offrono frutti (proprio quelli che voleva) — ma in realtà ne è quotidianamente sconfitto, incatenato in una prigione che lo tiene in scacco notte e giorno, giorno e notte. Di giorno la terra gli segna le mani — rugandole —, le braccia e le gambe — spossandole —, la schiena — logorandola —; di notte è un tarlo che fruga nelle pieghe della testa (ce la farò, domani?), la mette a soqquadro e divora il cervello; è il mezzo e il fine della sua vita; è Moby Dick che si lascia fiocinare dalla ciurma del Pequod, ma la trascina verso gli abissi di un coinvolgimento divenuto parossistico e incontrollabile.

E allora tanto valeva vendere. Il signore con la giacca, poi, poteva anche dare da lavorare ai figli: anch'essi sarebbero andati a costruire le case nuove e così guadagnarsi — guadagnare, ormai cominciavano a dirla spesso anche loro quella orrenda parola — da vivere, fare una loro famiglia. Su una nuova terra o una nuova sterpaglia — rifugio per altri topi e vermi, riserva di caccia per altri monelli, pisciatoio per altri vecchi ubriaconi. O loro o qualcun altro, che differenza fa? Le case sarebbero comunque state costruite, la colpa non era certo loro o dei loro figli se i campi venivano tolti a qualcuno per farci su una casa: faceva parte del progresso. Non era successo così anche per la terra, tanti e tanti anni fa? Quando le distese non avevano padrone e il filo spinato non era ancora comparso per ribadire: Mio. Prima quella terra era di tutti e il frutto dava da vivere alle persone e agli animali. Il braccio dell'uomo più forte e più svelto cominciò subito a lavorare e non era mai stanco. Martello, chiodi e poche travi: all'inizio sembrava una cosa innocente. All'inizio era innocente. Solo lavoro, buona volontà, sudore. Lo steccato veniva su. E quando fu finito la terra non era più di tutti. Di qua potevi camminare, di là no. L'innocenza era finita: la terra aveva un padrone. Il braccio non era più solo un braccio che tiene il martello e pianta i chiodi; il braccio, quel braccio così lesto, aveva creato il padrone.
 
   Ora che l'aveva stesa sul letto e spogliata, a Paolo veniva da ridere. Le vedeva le gambe grasse, il culo grasso, la pancia grassa che colava dappertutto e andava a coprirle i radi peli sul ventre. Non riusciva a dimenticare la battuta di Franco. «Altro che piercing - gli aveva detto guardandola in piscina, nel pomeriggio, dopo che avevano già bevuto diversi Martini - che si faccia una cura dimagrante». E giù a ridere. Lei non aveva sentito.
Paolo invece era stato attirato da quella cicciona. Quando era ubriaco andava pazzo per le grasse. Mentre Franco era al bagno, lui l'aveva avvicnata e invitata a cena. «Perche' no?», gli rispose lei.
Appena si incontrarono, poche ore dopo, non andarono nemmeno a cena. Paolo la portò subito a casa e già sulle scale del condominio stava desiderando di farci del sesso. Era ubriaco: ai Martini bevuti nel pomeriggio e resi violenti dal sole della spiaggia, ne aveva aggiunti altri due o tre, prima di incontrarla.
Appena in casa iniziò a baciarla e lei rispose ai suoi baci. Senza parlare la sospinse di là, in camera. Frenetico, le aprì la camicia. Poi le abbassò i pantaloni. Lei lo aiutò: si tolse le scarpe. Dagli slip che non le riuscivano a coprire nulla, sbucava il musetto di un gatto tatuato tra la coscia e il pelo pubico, giusto sotto al piercing che aveva all'ombelico. A Paolo venne in mente Franco «Fatti una cura dimagrante, altro che piercing!». Rise.
«Cos'hai da ridere?», gli disse lei.
«Niente» fece lui, cercando di toglierle le mutande.
«No!», lo fermò.
«Come no?».
«No e basta! Non voglio far l'amore con te. Sei uno di quelli che poi, domani, mi incontra per strada e magari neanche mi saluta».
«Eccome che ti saluto». E con le mani spingeva gli slip.
«Non scherzare. Hai capito quello che voglio dire! Sono appena uscita da una storia importante. Non voglio concedermi al primo che passa».
«Al primo che passa? Ti ho portato a casa mia. Altro che primo che passa».
«Ma domani?»
«Domani ti saluto di certo, se ti incontro».
«Questo l'ho capito. Ma intendo: mi richiamerai?»
Lui continuava a lavorarla tra le gambe e sul sedere. Lei si sedette sul letto, fermandogli la mano.
«Allora? Domani mi richiami?»
«Cazzo, siamo qui, adesso. Nel mio letto. Perché mi devi chiedere cosa farò domani. Pensa a ora, no?»
«Insomma non mi richiamerai?»
«Ma sì, magari ti richiamerò. Non lo posso sapere adesso, Cristo». La stese di nuovo e la baciò.
Lei tacque, si fece baciare. Egli si chinò e le baciò i capezzoli. Poi scese ancora. Col viso arrivò all'ombelico, al piercing e non potè non mettersi a ridere. La mordicchiò ridendo.
«Insomma perché ridi? Mi stai prendendo in giro, vero? Tu domani non mi chiamerai» fece girandogli il viso di lato, via dal ventre.
«Insomma, ora hai stufato. Te l'ho detto: magari ti chiamo. Se ho tempo ti chiamo. Non lo posso sapere adesso, cazzo!».
Lei allora scattò in piedi. Si mise una mano attorno al seno che le cadeva grossissimo e flaccido sulla pancia. «Tu mi prendi in giro. Ti viene anche da ridere. Sei un maledetto». Scoppiò in un pianto isterico.
«Ma no, dai Cristo...»
Lei si rivestì, singhiozzando. «Sei un maledetto! Un bastardo, maledetto!» ripeté.
«Basta! Che porca troia vuoi che ti prometta? Di sposarti? Eh? Ma siamo matti? Vaffanculo, va!»
Racattò la sua borsa e uscì di corsa, tra le lacrime.

Paolo rimase solo un attimo steso sul letto, nudo. Poi si alzò. Andò in cucina e si versò un altro Martini. Bevve. Prese il telefono e compose il numero di Franco.
«Pronto...» udì.
«Vai a farti fottere, tu e le tue battute del cazzo» disse. E riattaccò.
 
   Quando fu finito, il condominio era una montagna così grande da non vederne la vetta. Ma non era abitato da un re. Furono subito in molti, ad occuparlo. Tante persone — famiglie e solitari — che abitavano sotto uno stesso grande e alto tetto, divisi solo da sottili pareti, come stanze di fratelli. Arrivarono appena la costruzione fu finita. «Ma saranno tutti parenti?», si chiedevano in paese. Alcuni pensarono che allora la casa non era il frutto del dio guadagno — figlia della brama dell'uomo con la giacca che poco tempo prima era giunto con altre due persone (o un altro solo?) a guardare il campo di sterpaglie —; allora, forse, quella casa rappresentava il bisogno. Meglio: la soluzione del bisogno. E vennero dalla città anche vecchi. Diversi, molto diversi da quelli — ma erano poi vecchi? — che fino ad allora avevano frequentato la taverna, dopo aver sudato ancora, fino all'ultimo giorno di quella loro vita — avara e ingrata —, per lavorare la terra: i vecchi che vennero ad abitare il condominio non avevano nulla da fare, mantenuti dagli altri dopo che avevano lavorato anni per altri. Oggi potevano godersi l'ozio — né falliti, né malati —: ricompensati.

Ecco forestieri – fra loro né parenti e neanche amici – ad abitare il condominio. Ricettacolo anonimo e empio, capace di dir sì a chiunque possa pagare subito. Anche ai negri. Anche agli zingari. Anche alle puttane. A tutti. E la bandiera del padrone — l'uomo con la giacca e la cravatta — non garriva al vento: nessuna divisa, niente riconoscimenti — invisibile come durante la costruzione. Il padrone marcava la sua presenza solo intascando l'assegno del mese. Non c'erano più, lì alla taverna, solo i villani che si conoscevano per nome, e che conoscevano il padre tuo e il padre di tuo padre. Quei pochi rimasti lo dicevano: «Non si può più camminare tranquilli, in mezzo a questi forestieri». Arrivati in fretta, non avevano passato. Non lavoravano la terra. E magari non credevano in Dio. Ecco la colpa: il condominio era impuro. Una torre enorme, conficcata a forza nella loro terra, quella terra che avevano concimato. Ma che — maledetta, dopo anni e anni di sacrifici loro e dei loro padri — ora non offriva più il frutto sperato, né quello conosciuto. Altri uomini, diversi, pericolosi, stranieri — questo era il frutto che quel nuovo albero misterioso e duro, che non offre la resina né il creosoto, portava con sé. Altri uomini venuti su dal nulla, spuntati da un concetto: il guadagno dell'uomo con la giacca (ora sì, era chiaro: il nemico). Arrivati per guadagnare o per rubare a loro — ai vecchi (ma erano poi così vecchi?) — la terra, altre terre. Bere il loro vino. Occupare i loro posti alla taverna. Quello steccato, che la mano forte e rapida aveva costruito nella notte dei tempi, quando la terra era di tutti e di nessuno, si stava spostando. E anche la mano che aveva costruito il recinto apparteneva ad un uomo che stava per essere a sua volta spinto al di là della staccionata. In quella zona — ormai così piccola — che non aveva padrone, ma dalla quale proprio voleva fuggire, proteggersi quando decise di costruire il recinto: un riparo dai pericoli sconosciuti. Dai forestieri. Adesso quei forestieri cacciavano lui fuori dal suo steccato, fuori alla sua proprietà, fuori dalle sue abitudini.

Questo era, prima, quel condominio. Ma è impossibile dire se nacque per dare ricovero a chi lo chiedeva, o per la brama di chi — l'uomo con la giacca e la cravatta — così avrebbe potuto guadagnare ancora un po' di più, figlio di un concetto. Oggi lui è; sopravvive a tutto e tutti. Presente.
 

   Da quando gli era morta la moglie, era diventato un altro. Anche suo figlio se n'era accorto. Dopo migliaia di liti se ne andò via lasciandolo solo. Lo ricordava bene, quell'addio così movimentato. «La pensione ti ha fatto male», gli aveva detto. E mentre usciva, lasciando la porta aperta di modo che il padre potesse sentirlo parlare anche mentre scendeva le scale, aveva pure aggiunto che il governo faceva male a permettere che i vecchi andassero in pensione: «Stanno a casa tutto il giorno, guardano dalla finestra e non sanno che cazzo fare. E se si incontrano con qualcuno è per parlare male degli altri. Farli lavorare tutti, finché crepano. Tenerli occupati».
Lo aveva salutato così, suo figlio.
Ogni tanto ripensava a quelle frasi, soprattutto quando si ritrovava a guardare il pianerottolo dallo spioncino della porta. Osservava chi andava su e giù dalle scale. E gli piaceva l'idea di non essere visto.
Tra gli inquilini del condominio, quello che sopportava meno era il capellone che abitava sopra di lui. Un giovanotto che non aveva orari. Spesso si chiedeva cosa facesse per guadagnarsi da vivere. Non riusciva a darsi una risposta. Lui era abituato alle canoniche otto ore di fabbrica, quelle che aveva macinato per una vita: otto-sedici. Qualche suo coetaneo si era mantenuto lavorando la campagna. Lì gli orari potevano anche essere diversi, questo lo capiva. Ma quel capellone non lo aveva mai visto con le scarpe inzaccherate o con gli abiti sporchi di verderame. Trasandato e sporco, quello sì. Ma non di verderame.
Quando arrivava il suo amico, un ragazzo alto con dei baffi come manubri, facevano poi del gran baccano. Suonavano o ascoltavano musica. Ogni tanto, quando drizzava bene le orecchie, era proprio convinto che cantassero loro stessi. I carabinieri li aveva già chiamati diverse volte. Ma quelli arrivavano e prima gli dicevano che il rumore non era così forte. Poi — se insisteva — salivano di sopra e invitavano i ragazzi a fare più piano. Nient'altro. «Ai miei tempi li avrebbero arrestati», borbottava allora ai militi, mentre questi si allontanavano.
Aveva chiesto anche diverse riunioni condominiali, ma non era riuscito a convincere molti altri inquilini che quel tipo al piano di sopra faceva troppo rumore. Gli avevano detto che avrebbe potuto tranquillamente sopportare. «È una vita intera che sopporto», disse lui.
Quella sera oltre al ragazzo con i baffoni ne era salito un altro. Gli sembrava che parlasse una lingua diversa dalla sua. Non era tedesco, di cui vagamente conosceva i suoni dai tempi della guerra, ma gli somigliava. Forse inglese. E dopo un po' iniziò la musica. La solita solfa. Ma stavolta non aveva intenzione di sopportare a lungo. Chiamare i carabinieri non era il caso: erano anche loro giovani, sarebbe finita come sempre: «Fate più piano», tutto lì. No, stavolta decise di fare di testa sua. Era proprio stufo. Stufo di tutto.
La musica si fermò per un attimo. Sentì ridere. Poi qualche parola. Infine rumore sulle scale. Guardò dallo spioncino e vide che il terzo ragazzo se ne stava andando. «Meglio così — pensò —. Per tutti».
In un lampo la musica riprese.
«Ora basta», disse forte. Salì con il fucile carico: tre colpi. Uno a testa: due per i ragazzi e per lui: per il silenzio e il buio.
Bussò e appena gli aprirono fu l'inferno. Dopo aver sparato le prime due pallottole contro i musicisti, vide sangue dappertutto nel vestibolo-soggiorno. Stava per rivolgere il fucile contro se stesso, ma fu avvolto da un silenzio incredibile. «Non ho mai sentito questo bel silenzio», si disse. Poggiò a terra l'arma. Si sedette sul divano insanguinato, vicino ai due corpi esanimi.
   Poi spense la luce. Per il buio.


o
MAURILIO BAROZZI (Rovereto, 1967) vive a Mori, 
in Trentino

Eppure leggere e scrivere non mi era mai piaciuto, prima. Prima di quando? Impossibile da dire. Prima di iniziare l’università (al liceo ero un asino)? Prima di averla finita? Prima di aver capito il senso della frase? Prima di iniziare a viaggiare? Prima di fare il manovale, il no-leggiatore di windsurf, il raccoglitore di frutta stagionale, il facchino dei traslochi? Ma forse ha iniziato a piacermi dopo. Dopo aver allestito e gestito mostre fotografiche (come per il festival di teatro danza “Oriente Occidente”), dopo che gli amici mi chiedevano di raccontare loro qual-che viaggio, dopo che mi hanno proposto di scriverlo... Non sapevo come avrei potuto fare. Allora ho guardato come facevano gli altri. Quelli bravi. Scrittori e giornalisti. Ho cominciato a leggere di viaggi, dai più distruttivi (Kerouac), ai più ironici (Twain), ai più perduti (He-mingway) ai più surreali (Cervantes), ai più intimi (Kafka, Quasimodo, Montale), ai più letterari (Faulkner, Joyce), ai più simbolici (Melville). Diobono, visti così - non come a scuola - mi piacevano. Quasi di più i loro viaggi (letti) dei miei (fatti). Ho provato a scrivere, e talvolta mi è riuscito anche qualche cosa di buono; qualcuno me l’ha detto... Ora mi mantengo così: carta e penna.
L’università, quella sì, quella l’ho finita - mamma ci teneva -: sociolo-gia a Trento. L’ultimo giorno dei ventiquattro anni ho discusso una tesi sullo «Stato nazionale in Europa tra nuovi conflitti e spinte all’integrazione». Poi il professor Scartezzini (Relazioni internazionali) mi ha proposto di fare qualche lavoretto di ricerca per lui. Mi sono avvi-cinato alla geopolitica collaborando con la rivista LiMes (per la quale ho scritto saggi sulla regione Trentino Alto Adige). Nel frattempo iniziai a prestare la mia opera all’«Adige», quotidiano trentino, per il quale tut-tora lavoro come redattore.
Ho fatto parte dello staff che ha fondato la rivista «Altreconomia» e sono stato per alcuni anni responsabile della formazione per i corsi di Economia globale dell’Unip («Università internazionale delle istituzioni dei popoli per la pace», direttore Giuliano Pontara) di Rovereto. Ho collaborato con diversi giornali italiani (corrispondente per l’agenzia di stampa Agr) e riviste (da «Liberal» a «Cicloturismo», ad esempio). Ho scritto corrispondenze da Bruxelles e da Lussemburgo (Parlamento eu-ropeo); reportages dalla Spagna, dalla Turchia (emergenza curdi), oltre alcuni studi e libri sulla politica locale.
Ho ideato e realizzato assieme a Lanfranco Barozzi spettacoli che fondono assieme letteratura, teatro, musica. Il più noto si chiama «Bar-tleby nel ‘900» che vagabonda per teatri, pub, e auditorium.

M. B. 


Il sommario
dei racconti
 

(20 marzo  2001)

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di Nonluoghi
 
 

 

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