di
MAURILIO BAROZZI
Impossibile dire
se nacque per volontà di chi chiedeva un tetto per ripararsi dalle
intemperie e per ricoverare i propri beni o per la brama di chi così
avrebbe potuto guadagnare ancora un po' di più. Eppure c'è.
Una volta accanto alla taverna erano solo sterpaglie disordinate che offrivano
rifugio ai topi — fuori e dentro, fuori e dentro (fuori affamati e magri;
dentro satolli e grassi, come madri incinte, dopo aver saccheggiato la
dispensa della locanda) — agli insetti e ai monelli che ci andavano a giocare.
E a cercare le rane, sempre per giocare. Uccidendole. Sadicamente. Senza
pietà per un dolore che loro non sapevano cosa fosse, innocenti,
non lo avevano mai provato. Un sigaro acceso conficcato a forza nella bocca
dell'animale gli faceva entrare il fumo nei polmoni senza permettergli
di espirare. La rana si ingrassava, si gonfiava. E poi scoppiava tra le
risa fragorose dei monelli. Che erano già alla caccia di un'altra
vittima da sacrificare al loro ludico — innocente (ché non sanno
cos'è il dolore) — passatempo. E ce n'erano così tante. Per
una morta, quelle sterpaglie gracidanti testimoniavano una moltitudine
vivente, riproduttiva, gravida di nuove vittime (dei monelli) e nuovi carnefici
per i vermi e gli insetti, nutrimento principe degli anfibi anùri.
Sterpaglie stinte anche
a primavera, nonostante la stagione delle piogge: erano irrorate prima
dal vomito e dall'urina dei vecchi. Ubriachi e barcollanti, urlavano oscenità
ai monelli, li cacciavano. Poi chini in avanti a ridare ai campi sotto
forma di liquido miasmatico il succo che proviene dall'uva; oppure in precario
equilibrio a mingere sull'erba e sulle scarpe. E di nuovo dentro la taverna,
a bere vino, giocare a carte e bestemmiare, a blaterare. I vecchi: invenduti
e invendibili libri e giornali di mille anni fa, che condivano di sacramenti
ogni racconto e che s'inventavano eroiche gesta mai realmente esistite;
ma che erano la storia e la cronaca di quello che la quotidianità
— ingorda routine con poche, coraggiose o comode, eccezioni — non riusciva
ad inghiottire nei ritmi sempre uguali del lavoro; sempre uguali delle
ubriacature alla taverna; sempre uguali delle attenzioni alla procreazione
animale; sempre uguali della messa della domenica — inascoltata ma vigliaccamente
e reverenzialmente partecipata. Raccontavano; e non si dovevano neanche
preoccupare di grattare via le scorie dalla storia: la storia erano loro.
Erano la ruota che passa sulla terra nuda e lascia il segno. Erano il perno
che la fa girare. Erano il motore che la spinge e la morchia che la unge
ma a volte insozza il meccanismo. Essi erano: e se volevano quei grumi
lerci potevano anche lasciarli.
Oggi i vecchi sono in
pensione. Non quei vecchi; molti sono morti. Ma quelli che non erano vecchi,
allora. E che adesso sono diventati vecchi: berciano ancora, anfanando
contro il rumore che aumenta ogni giorno, schiavo del progresso, figlio
del progresso, compagno del progresso; e quel rumore fa alzare la voce
ogni giorno per nulla o per qualcosa o semplicemente per farsi sentire.
Lì c'è il condominio spuntato come un grosso fungo il giorno
dopo che le ruspe erano in azione. Dentro — nelle scatole tutte precise,
ordinate, seriali — non ci sono più le stagioni. Non c'è
più freddo e non c'è più caldo. Non c'è più
il fuoco che scalda le notti lunghe dell'inverno, iniziate ancora prima
di quando i succhi eupeptici possano aver fatto effetto. E interrotte presto,
così presto: prima di quando la luce del sole abbia proiettato sulle
tende delle finestre — allora basse — il profilo delle cose fuori, del
mondo.
Allo specchio
si deformavano un po', da lontano. Allora accostava il viso fino a pochi
centimetri dal vetro che glieli restituiva esatti, precisi. Li osservava
da vicinissimo. Poteva distinguerne i singoli peli. «Due gran bei
baffi», pensava compiaciuto.
Appena tornava a casa dal
lavoro si metteva in bagno e con il pettine cercava la giusta forma, la
giusta impostazione per due mustacchi che si rendeva conto: erano regali.
Ma anche la pettinatura giusta, una opportuna lisciata potevano evidenziarne
i pregi. La parte superiore della bocca era completamente coperta così
come gli angoli, nascosti da quella folta peluria. Solo quando apriva la
bocca gli si potevano notare i denti, quelli della parte inferiore. Per
gli incisivi superiori non c'era alcuna speranza: il baffo schermava tutto
alla perfezione. «E pensare che una volta mi chiamavano dentone»,
pensava stirandosi le estremità.
Alla gara del baffo lo aveva
iscritto per la prima volta - anni addietro - un conoscente, anche lui
baffuto. A sua insaputa. Già, non ne sapeva nulla, lui. Un giorno
si trovarono al bar e il suo compare lo informò: «Tieniti
pronto e cura il baffo: ti ho iscritto alla più importante competizione
del genere».
Nessuna altra parola.
Iniziò così
una sistematica attenzione alla forma, all'infoltimento, alla dimensione
del baffo. Prese a stare attento a come beveva, non voleva sbavarsi troppo
sul mustacchio, con il rischio di snaturarne il colore, di far perdere
a quel nero lucente la sua brillantezza.
Il primo anno non andò
benissimo, ma da allora la gara di baffo divenne il suo appuntamento di
riferimento. E ora, dopo diverse partecipazioni, si sentiva pronto per
sferrare davvero l'attacco alla posizione d'onore. Quel primo posto che
lo avrebbe fatto entrare nell'albo d'oro dei baffoni. Non avrebbe fallito.
«Ahh, aaah! Guarda,
guarda dove si annida! Maledetto pelo bianco! Ma adesso ti elimino subito.
Non sarai certo tu a farmi perdere una gara che ormai è mia».
Senza allontanare il viso dallo specchio, prese la pinzetta e lo cercò
con un piccolo movimento circolare del polso. Lo imprigionò tra
le due chele metalliche. Chiuse stretto.
Un rumore, fuori sulle scale,
lo distrasse. Fu una frazione di secondo ma tanto bastò a fargli
perdere quella presa così salda. La pinzetta allentò un attimo,
poi riprese ad essere chiusa ma quando tirò quel pelo bianco era
sfuggito. Se ne accorse un istante dopo, mentre lo riguardava.
«Porca troia, è
scuro, dove è restato quel bastardo di pelo bianco? Maledetto è
ancora lì! E io ho tolto uno dei miei buoni per colpa di qualche
inquilino del cazzo».
Uscì dal bagno e
con un passo fu sulla porta d'ingresso. La spalancò. Fuori, sulle
scale non c'era nessuno. Ma lui sapeva che quel rumore qualcuno doveva
pur averlo fatto. Qualcuno che adesso si nascondeva vigliaccamente nel
proprio appartamento.
«Fate piano quando
salite queste maledette scale, chiaro?! Mica tutti stanno lì a non
fare un tubo. C'è anche chi deve far lavori di precisione, serve
concentrazione. Fate piano su per queste stracazzo di scale», gridò.
«Ora di sicuro l'ha capita, quel casinista» bofonchiò
tra sé.
Si rimise allo specchio,
riprese a la pinzetta e ricominciò a lavorare sui baffi.
«Ah, accoti qui, maledetto.
Credevi tu! Ma non è ancora cresciuto il pelo bianco che possa farmela.
Quella gara è mia. Non posso perderla» disse, dopo averlo
finalmente staccato.
Sono arrivati
in tre, un giorno. Avevano le camicie con i colletti puliti e inamidati,
le cravatte e le giacche abbottonate. O magari non erano neanche tre, ma
quelli che stavano alla taverna quel giorno dissero: tre (anche se certi
raccontano che fossero stati solamente due). Hanno guardato la distesa
di sterpaglie e indicavano col dito un punto non ben definito: marinai
che tracciano la rotta in mezzo ad un mare che non è loro, ma che
sentono loro; che cercano una terra d'attracco che non è loro, ma
che credono loro; che scrutano un orizzonte che non sempre è roseo,
ma che per il fatto stesso di essere orizzonte — futuro! — s'illudono roseo.
Nessuno ha sentito cosa dicessero; poi sono entrati alla taverna e hanno
bevuto, brindando, in mezzo a tutti i villani che invece tenevano le maniche
di camicia arrotolate sulle braccia, senza giacche e con il collo consunto
e sudicio, coi bottoni aperti. E chi aveva il coraggio di chiedere? Tutti
ebbri dal vino che scorreva nei loro bicchieri e poi nelle loro pance e
poi nelle loro teste, offerto subdolamente dai signori con la giacca. Ma
ugualmente capirono: i buoi di ferro con i cingoli grandi come uomini arrivarono
pochi giorni dopo, guidati da altri come loro — colli sporchi e camicie
logore —, e solcarono la distesa di sterpaglia, unico rifugio di topi,
insetti e vermi; riserva di caccia dei monelli durante il giorno e latrina
a cielo aperto per i frequentatori notturni della taverna: i vecchi. Che
poi non erano davvero vecchi, ma allora sembravano.
Tanti ci dormono, nel
condominio. E impiegarono così poco a costruirlo — per abitare?
per guadagnare? — sotto lo sguardo furtivo e attento, nascosto ma inesorabile
di chi alla taverna ci andava per bere il vino. Dei vecchi di allora —
ma erano poi così vecchi? — che dopo parlavano tra di loro; dicevano
che non si poteva — troppo rumore —; che nuove case in fin dei conti non
servivano. E tutti erano così d'accordo. Andavano poi a loro volta
nelle rispettive case e raccontavano tutto alla moglie, ai figli: che stavano
ad ascoltare. Non solo udivano, ma proprio ascoltavano. Le donne potevano
annuire al discorso che era stato fatto alla taverna (mentre quando gli
uomini alla taverna parlavano di carte, tornavano a casa e non raccontavano:
ordinavano e mangiavano). Finalmente orgogliose e partecipi del ragionare
del marito. Così le donne — precocemente vecchie: ormai mille volte
madri, costrette e capaci di soddisfare i desideri di piacere e di nuovi
contadini o braccia-lavoro dei mariti — il giorno dopo si trovavano a fare
la spesa nel negozio e parlare con le altre donne — amiche? — di quello
che avevano sentito il giorno prima dagli uomini. Anche loro a dire che
quella enorme costruzione sarebbe stata inutile.
Quando suonò
il campanello, Eric finì di rompere la sigaretta e di lasciarsi
cadere il tabacco nel palmo della mano sinistra. Poi si alzò ed
andò ad aprire senza chiedere 'chi è'. Tornò a sedersi
sul divano. Mischiò dell'erba al tabacco; mise tutto in una cartina
e la chiuse, rollandola.
Carlo aveva fatto le scale.
Entrò dalla porta senza bussare. Con lui c'era un altro tizio; aveva
in mano la custodia di una chitarra.
«Hai portato un altro
chitarrista?», disse Eric.
«Bassista»,
lo corresse Carlo. «Bassista. Viene dagli Stati Uniti».
«Hi», fece l'altro.
«Do you smoke?»
chiese Eric, senza distogliere gli occhi dallo spinello che stava confezionando.
«Yes, please».
«A me non chiedi se
fumo?»
«Lo so già.
In frigo ci sono delle birre».
«Prima berrò
un po' di questo vino», fece Carlo. E prese la brocca che stava appoggiata
sul tavolo lercio. C'erano tre bicchieri sporchi, un portacenere pieno
di cicche spente, le scorze di un salamino, un coltello, una forchetta
e qualche pezzo di pane in mezzo a mille briciole. Il vino nella brocca
sembrava pulito: non ci galleggiava niente. Carlo comunque non ci fece
troppo caso. Prese uno dei bicchieri, gli diede un'occhiata di sfuggita
e lo riempì di vino. Poi bevve.
L'americano tolse il suo
strumento dalla custodia. Eric gli passò lo spinello. Si alzò
dal divano e andò in cucina. Venne con una confezione di birre e
con la sua chitarra. Si sedette. Anche Carlo aveva tirato fuori la sua
chitarra.
«Può stare
solo mezz'ora. Poi ha l'aereo. Ma la settimana prossima torna qui e si
ferma un po'. Così, se siamo d'accordo, può venire a fare
qualche serata con noi. Ci manca un bassista», disse Carlo ricevendo
lo spinello dall'americano.
«Vediamo come suona
– disse Eric –. Do you know Around the World?»
«Red Hot Chili Peppers?».
«Of course. Do you
know this song?», chiese ancora all'americano mentre posava il joint
che Carlo gli aveva ridato nel posacenere, per terra.
«Of course».
«Let's start».
Eric espirò l'ultima
boccata di marijuana e iniziarono a suonare. L'americano andava bene. Carlo
pensò che Eric fosse un gran bastardo a chiedere una canzone dei
Red Hot Chili Peppers. Certo, grazie a quel pezzo avrebbero subito capito
chi avevano di fronte. Però solo un figlio di puttana chiede a un
musicista appena incontrato di suonare qualcosa di difficilissimo.
«Suona come dio comanda,
mi sembra» disse Carlo, senza smettere di schitarrare.
«Ora lo capiamo»,
fece Eric. Poi si interruppe. Aprì le birre e le scolarono.
«What's your favourite
song?»
«Starway to heaven».
«O.K.». Partì
con l'attacco di Starway to heaven. Il nuovo arrivato si dimostrò
decisamente all'altezza. Eric si rallegrò; mentre Carlo e l'americano
continuavano a suonare, andò a prendere del bourbon. Ne versò
nei bicchieri sporchi che stavano sul tavolo. Bevvero a rapide sorsate,
senza fermarsi. Improvvisarono una session di jazz, così, al volo.
Nessuno l'aveva proposto. Quelle note arrivarono automatiche.
Poi l'americano disse che
doveva andarsene. Carlo e Eric si alzarono e lo accompagnarono alla porta.
«Bene – disse Eric
–. When you come to Italy, call me. We will play together».
«Certainly!»
«Take it – fece Carlo
mettendogli in mano la bottiglia con il bourbon che avevano avanzato –.
If the airplane falls down...»
«Fuck off»,
disse l'americano avvicinandosi la mano che teneva la custodia del basso
alle parti intime.
Risero.
L'americano scese le scale
e se ne andò.
Eric e Carlo tornarono dentro.
Aprirono un'altra bottiglia di whisky. Riempirono i bicchieri e bevvero.
Eric iniziò a strimpellare la chitarra.
Sempre suonando, sbirciò
Carlo con la coda dell'occhio.
«Non male, l'americano.
Dove l'hai pescato?»
«L'ho incontrato al
pub. Parlava di musica, diceva che voleva stare qui un po' di tempo e che
avrebbe voluto suonare».
«Ho capito, le tue
solite conoscenze occasionali...»
«Quando porto donne,
però, non ti sei mai lamentato».
«Sono un uomo. E comunque
neanche oggi mi sono lamentato, mi pare».
«Ah, ah. È
vero. Anch'io sono un uomo. Dai, suoniamo I'm a man. Poi ci facciamo uno
spinello».
«E che uomo».
Iniziarono. Carlo imbracciò
la chitarra mentre Eric ripose la sua; lo accompagnava con l'armonica a
bocca. Ogni tanto smetteva con l'armonica e attaccava a battere il tempo
con le mani sul tavolo, come fosse un tamburo. O picchiettava sui bicchieri
con una forchetta. Era anche un buon percussionista.
Bussarono alla porta.
Eric si alzò e andò
ad aprire senza chiedere 'chi è'.
Carlo continuò a
suonare la sua chitarra. Le ultime cose che vide furono la canna di un
fucile spuntare dalla porta; la schiena di Eric squarciata spruzzare sangue
sul muro; ancora la punta del fucile che lo guardava dritto; il balenare
di una scintilla. Nient'altro.
Lo sguardo
vigile dei vecchi alla taverna era puntato sulla distesa mentre veniva
violentata. Scrutava quello che non si poteva scrutare e poi vedeva quello
che non avrebbe mai pensato di vedere: il futuro. Il loro futuro. Che quando
sarebbe diventato presente per loro era già passato, già
veduto, già vissuto. E i loro simili sulle ruspe — simili ma stranieri
— a sudare sotto il sole, consapevoli di essere spiati e giudicati, notati
e criticati non tanto per quello che stavano facendo nel presente (a parte
il rumore), ma per quello che (ciò che facevano) si apprestava a
divenire. Orinare nel verde o in una enorme fossa marrone di terra — ancor
più simile alle latrine che gli uomini (vecchi?) avevano conosciuto
durante la guerra —, cosa cambiava? Nulla. Ma sapevano che sarebbe finito.
Domani — un domani vicino o lontano, che importa: sarebbe arrivato — sapevano
che non poteva più essere così. Si sentivano spodestati di
un loro diritto in nome di qualche cosa di cui non vedevano la necessità
— che bisogno c'era di altre case? —, in nome di un concetto: il guadagno.
Il profitto di uno di quei tre (o due, come ricordavano alcuni, lì
alla taverna) che erano arrivati con le giacche e le cravatte al campo
di sterpaglie, dal nulla. E quei loro simili, che guidavano le ruspe per
il guadagno degli uomini con la giacca, non erano poi così simili
(essi aravano la terra — la loro terra o la terra di qualcun altro — per
raccoglierne i frutti e dunque potersene cibare [loro o qualcun altro]:
sopravvivere — i ruspisti divoravano la terra [e dove finiva poi?] per
fare guadagnare gli uomini con la giacca e la cravatta, che nel frattempo
stavano guardando, con il loro braccio teso e l'indice puntato, verso un
altro orizzonte ancora) ma avversari al servizio di un nemico astuto e
inafferrabile che non si fa nemmeno vedere sul campo di battaglia. Che
dopo aver esaminato il territorio una volta con gli ufficiali se ne va;
e lì ci manda i soldati.
«Sarà
una splendida sorpresa».
«Certo che lo sarà.
Deve rimanere un giorno indimenticabile».
«Lo ricorderà,
lo ricorderà. Già adesso mi ha detto Anna che è tutto
contento, che non vedeva l'ora. Ma dopo stasera sarà ancora più
contento, vedrai».
«Uhuu, qui sta venendo
una cosina con i fiocchi, senti che profumino».
«Quando aprirà
la porta e lo sentirà sarà tutto contento... Ti sei ricordata
la crema di cioccolato?».
«Diamine, che sbadata.
Se non me l'avessi detto... Che guaio avrei combinato. Ih, Ih, Ih».
«Già, Ih, Ih,
Ih. Come mai Anna non ha messo qui il crocifisso che le abbiamo regalato,
qui nella cucina, in modo che lo si possa vedere ogni giorno?»
«Non lo so comunque...
Sì, è vero: lì in quel piccolo atrio non c'è
luce. Eppoi uno nell'atrio non ci sta per molto tempo, passa e via. Non
è che lo può notare più di tanto».
«Sai cosa facciamo?»
«Cosa?»
«Spostiamolo, facciamo
a Anna e a Giacomo un'altra sorpresa».
«Non so però
se a Alberto farà piacere. Sai che quell'uomo è un irascibile».
«Un nevrotico».
«Un nevrotico miscredente».
«Già. Beh,
comunque questo non è un buon motivo per farlo continuare a vivere
nelle sue assurde atee convinzioni. Io direi che noi glielo possiamo spostare
ugualmente. Tanto cosa vuoi che dica?»
«Eppoi è il
giorno della comunione di Giacomo, cosa potrebbe dire proprio mentre il
ragazzo è stato comunicato per la prima volta? Ma cosa è
saltato in mente a nostra sorella di sposare quell'uomo. Ah, se fosse viva
nostra madre... Non gliel'avrebbe certo fatto fare questo errore...»
«Vai a prendere il
martello e un chiodo, mentre io cerco un posto dove potremmo appenderlo».
«Vai prendere tu il
martello e i chiodi, che sai dove sono. Vedo io dove attaccarlo».
«No, l'ho detto io.
E poi lo sai anche tu dove sono i chiodi e il martello».
«Sì ma io sto
preparando la torta. Sai che figura se arrivano e la torta si è
bruciata per colpa tua che non hai voluto andare a prendere il martello?»
«Intanto se non ci
fossi stata io ad avvertirti a quest'ora tu avresti fatto una torta orribile
e disgustosa. Senza neanche la crema di cioccolato. A Giacomo non sarebbe
certo piaciuta. Mentre vai a prendere gli attrezzi io controllerò
la torta. Tra l'altro ho avuto io l'idea di spostare il crocifisso da quell'atrio
buio. Decido io dove sia meglio metterlo».
«Cosa vorresti dire?
Allora se non fosse stato per me che ho avuto l'idea di chiedere ad Anna
le chiavi dell'appartamento mentre loro andavano a far visita ai parenti
di Alberto, non facevamo nessuna sorpresa a Giacomo. Non facevamo nessuna
torta e non potevamo certo spostare il crocifisso».
«Se la metti su questo
piano io ti mollo e me ne vado a casa. Tanto più che l'ho già
detto io dove metterlo il crocifisso: in cucina».
«Vuoi andare a casa?
Prego accomodati. Per la torta non ci sono problemi. E comunque in cucina
il crocifisso non lo possiamo certo mettere».
«Figurarsi!»
«Certo che no. Alberto
darebbe in escandescenze».
«Questi sono fatti
suoi. L'abbiamo già detto: cosa vuoi che dica nel giorno della comunione
di Giacomo?»
«Basta che lo tolga
giù. Avrebbe già fatto il danno».
«Neanche per sogno.
Il crocifisso va messo in cucina».
«No. Nella cameretta
di Giacomo. Così lui lo vede ogni notte prima di coricarsi».
«Ma non lo vede nessun
altro. E siamo daccapo».
«Lo vede anche Anna
quando va a rifargli il letto».
«In cucina ci entrano
anche gli ospiti».
«Ma Alberto?»
«Va a prendere il
martello».
«Vai tu».
«Io vado a prendere
il martello. Tu vai a prendere i chiodi».
«Mi sembri una bambina
dell'asilo che fa le ripicche»
«Se fossi andata subito,
senza tante storie, non ci sarebbe alcuna ripicca. E comunque io porto
solo il martello, così impari».
«Gesù non sarà
misericordioso con te. Sei una vipera velenosa».
«Gesù sa capire
chi ha ragione e chi torto nelle diatribe: non avrà misericordia
di te, che per la tua pigrizia non gli hai permesso di mostrare la sua
immagine sofferente. Di fare da esempio. Fosse per te la sua morte non
avrebbe insegnato nulla a nessuno».
«Gesù... La
torta!».
Sotto il sole che
rende rovente il metallo della ruspa, gli operai sudavano; ancora di più
perché sapevano di essere guardati e controllati come longa manus
del nemico. L'avamposto di un esercito invitto e invincibile. Ma sapevano
anche che non ci potevano fare nulla: dovevano solo fare il proprio lavoro
— bello o brutto, più brutto che bello — per sopravvivere. E se
poi gli uomini con la giacca e la cravatta avrebbero guadagnato senza nemmeno
sporcarsi le mani, senza rovinare con il sudore il colletto della camicia,
a loro (ai ruspisti) non doveva interessare. Prima o poi tutti avrebbero
capito che non erano loro (i ruspisti) a cancellare quel prato di sterpaglie
giallastre, stinte, maleodoranti — che però erano le loro (di quelli
che andavano a bere vino alla taverna e dei loro figli — o figli dei loro
amici — monelli) sterpaglie — ma che a cambiare i connotati del paesaggio
era il padrone, l'edilizia, il guadagno, l'economia, il progresso, la demografia.
Concetti. Eppure vivi: quasi dei. Anzi: dei. Con infinite schiere di templari
al loro (dei concetti, degli dei) servizio.
Finita la buca — latrina
vera e propria, ricettacolo di quella rabbia che faceva travasare anche
la bile oltre alle copiose minzioni e il vomito di ubriacature furiose,
consumate ad insultare il padrone, il guadagno (degli altri), il rumore
— le ruspe se ne andarono e arrivarono altre truppe. Quelle della gru.
Quelle dei muratori. Ancora più sporchi di quelli che guidavano
la ruspa. E lavoravano ancora più duro. Bestemmiavano come loro
(i contadini) quando l'aratro non voleva andare avanti, con il vomere incagliato
in qualche pietra: lì a spingere con tutte le forze e maledire il
giorno in cui avevano venduto il bue (oramai non serve più, avevano
pensato). I muratori uguale. Portavano sacchi pesantissimi di cemento e
sabbia sulle spalle. Stanchi già alla mattina presto. Assetati di
vino e di storie di donne. Quelle che raccontavano loro (i contadini —
vecchi?) dopo il lavoro alla taverna, ma più spinte, più
chiare, più lunghe: perché dovevano servire tutto il giorno
durante il lavoro e poi anche alla sera, in qualche bar chissà dove,
nel quale sarebbero andati poi a ripeterle ad altri. E la sete non passava
mai. Il sudore richiamava il vino che faceva sudare di più e sentire
di meno la fatica e avere più voglia di sempre nuove storie, di
donne, di bordelli. Un nuovo esercito arrivava e adesso ormai per chi stava
alla taverna di sera si trattava di orinare sulle pareti ancora grezze
di una casa che si stava annunciando grandissima — ma chi ci verrà
ad abitare, un re? — Il futuro stava per dischiudersi; stava per diventare
presente. E per i vecchi era già passato.
La madre di
Maria stava pulendo il pavimento. Aveva un lungo grembiule azzurro. Somigliava
al camice dei medici, ma era consunto e troppo aperto sul davanti per essere
quello di un medico. Sulla testa, sopra i bigodini – trucco per incresparle
e ravvivarle un po’ i capelli ormai rinsecchiti –, una retina fissava il
disegno della parte più alta della sua figura, le delineava il perimetro.
Era leggermente ricurva
in avanti per fare pressione sul manico dello scopettone che governava
lo strofinaccio a terra. Indossava dei guanti di gomma gialli, per proteggersi
le mani dalla varechina messa nell’acqua dove sciacquava di tanto in tanto
lo straccio. «Così si pulisce meglio, e si disinfetta»,
si era detta mentre versava il composto chimico nella bacinella.
Sopra il polso destro teneva
il guanto ripiegato verso la mano e quell’avambraccio le rimaneva libero
dalla plastica: era coperto solo dalla tela del grembiule, con la quale
poteva detergere il sudore che le si formava a grosse gocce sulla fronte.
Faceva caldo, anche se era
già sera. Il marito era uscito per andare alla taverna, subito dopo
cena. E lei ne approfittò: «La casa è vuota e così
posso pulire in pace», aveva pensato.
Quando suonò il campanello
poggiò lo spazzolone e andò al citofono.
Era Maria.
La donna aprì la
porta e si affacciò sull’uscio, per vederla salire quella breve
rampa di scale.
«Aah benvenuta! Non
dovevi star via solo tre giorni. E invece ti presenti a casa ora?»,
le disse.
«Sono stata via un
po’ di più. Ma in fin dei conti sono soltanto cinque giorni, mamma»,
rispose Maria, tenendo lo sguardo sui gradini che stava percorrendo. La
posizione leggermente ricurva in avanti le permetteva di non vedere la
madre che si manteneva in piedi grazie all’aiuto dello stipite al quale
era appoggiata con la spalla e, nello stesso tempo, di controbilanciare
il peso dello zaino che teneva sulle spalle.
«Solo cinque giorni!?
Ma se io alla tua età fossi stata al mare cinque giorni, anziché
tre come avevo detto, tua nonna mi avrebbe mandato a dormire senza cena
per una settimana. E poi guardati: sei più pallida e magra di quando
sei partita. Altro che riposo».
«Ho preso brutto tempo»,
si giustificò Maria entrando in casa. Camminava nel breve corridoio
cercando la sua camera. Era seguita dalla madre, che continuava a parlare.
«Stai attenta a dove
metti i piedi che ho appena pulito, non vedi? Mentre la signorina era al
mare io ho lavorato, cosa credi? Eppoi brutto tempo... A chi vuoi raccontarla?
La so io la verità: sei stata in discoteca tutte le sere e di giorno
stavi a dormire. Se alla tua età fossi andata io cinque giorni al
mare sarei tornata olivastra, non bianca come un cadavere».
«Mamma, sono stanca».
«La principessa è
stata al mare e ora è stanca. E io cosa dovrei dire, allora? Sempre
qui a lavorare mentre gli altri sono in giro a divertirsi, eh? Va a dormire
va la, così non mi sporchi il pavimento. A proposito: ha telefonato
quel ragazzo, il figlio dell’avvocato Russo. Come si chiama... Marco. Ha
chiamato un paio di volte. Mi ha chiesto come stavi. Dì: non sapeva
che andavi al mare con le tue amiche? Ma non vi parlate neanche?»
Maria non rispose.
Entrò in camera.
Squillò il telefono.
La madre mollò subito
lo scopettone e si precipitò all’apparecchio appoggiato su una mensola
nell’atrietto.
«Pronto?»
«...»
«Certo che è
arrivata, la regina. Ma adesso è stanca. Torna dalle vacanze con
due giorni di ritardo, senza avvertire nessuno e poi arriva stanca, la
signorina — disse forte, di modo che Maria potesse sentire dalla sua stanza
—. Ora te la passo. Mariaaa, è per te. È Marco».
La ragazza disse che avrebbe
usato l’apparecchio in camera, lei poteva abbassare la cornetta.
«Come stai, Maria?
Andato tutto bene?»
«Si, bene. Ma non
ho voglia di parlarne».
«Dai, non fare così,
non ricominciamo. È stata la scelta migliore, no? Ma tua madre cosa
dice? Mi parla di mare, cosa vuol dire, non sa nulla?».
«E tu cosa le hai
detto», ebbe un sussulto Maria.
«No... Ho telefonato
l’altro ieri, ho chiesto se eri già tornata. Lei mi ha risposto
che non ti eri ancora fatta viva, che probabilmente ti stavi divertendo
troppo. Allora ho lasciato perdere: non capivo se mi stesse prendendo in
giro, se ce l’avesse con me o se non sapesse nulla. Ho preferito lasciar
perdere», disse Marco.
«Ah, bene».
«Ma vuoi dirmi come
è andata? Non hai sentito male, vero? Era come ti avevo detto, no?
Però ti confesso che ero un po’ preoccupato, avrei voluto sapere...».
«Lasciamo perdere,
ti prego».
«Perché insisti
con questo atteggiamento, Maria? Cos’altro potevamo fare? Te l’ho già
spiegato: era l’unica scelta possibile».
«D’accordo, basta.
Ora vorrei dormire».
«Come? Non vuoi nemmeno
raccontarmi come ti hanno trattata, se hai fatto amicizie...»
«Amicizie? Ma fai
il piacere... Lasciami in pace, ti prego. Sono piuttosto stanca».
«Come, ho diritto
di sapere...»
«Lascia stare i diritti.
Te l’ho già detto: sono stanca».
«Ma allora mi racconti
domani, eh? Dì: domani mi dici tutto, vero? Comunque stai bene,
vero?»
«Si, domani».
Essi (i
vecchi) cominciavano pure ad essere stanchi di faticare come le bestie
— ché le bestie le avevano vendute — nei campi. Qualcuno di quelli
che andava alla taverna aveva parlato con l'uomo con la giacca ed il colletto
pulito. Che gli aveva proposto di vendere un po' (o anche tutto, se avesse
voluto) di quel terreno che ormai lo faceva soltanto sacramentare; che
non riusciva a dar da vivere a lui e a tutti i suoi figli — nati dalla
passione o dall'istinto animale che anni fa gli aveva fatto amare ogni
notte la moglie e che ora riconosceva solo come balorda follia perché
la moglie non riusciva più a desiderarla e i figli non erano braccia
per i campi, come sperava, ma bocche da sfamare —; una terra che stava
diventando più una maledizione che una vocazione o una fonte di
vita. Ormai si vedeva sperduto in quel campo che gli era ogni luna che
passa più avaro e ogni luna che passa più ostile; lo lavorava
per abitudine non per guadagno, ancorato com'era all'ossessione — moderno
Ahab nei mari del sud a caccia della Balena Bianca — di sottomettere la
natura per domare il destino. Eppure se ci pensava, vedeva che quella lingua
di podere non era più la risorsa alla quale attingere con fatica,
ma con soddisfazione: la terra per lui era la maledizione del giorno che
segue la notte. Era la natura che non si fa imbrigliare da un uomo: lui
crede, s'illude di aver vittoria facile — per la irrisoria semplicità
con cui la tatua, la marchia e la delimita con crepundi, la irrora di semi
che poi offrono frutti (proprio quelli che voleva) — ma in realtà
ne è quotidianamente sconfitto, incatenato in una prigione che lo
tiene in scacco notte e giorno, giorno e notte. Di giorno la terra gli
segna le mani — rugandole —, le braccia e le gambe — spossandole —, la
schiena — logorandola —; di notte è un tarlo che fruga nelle pieghe
della testa (ce la farò, domani?), la mette a soqquadro e divora
il cervello; è il mezzo e il fine della sua vita; è Moby
Dick che si lascia fiocinare dalla ciurma del Pequod, ma la trascina verso
gli abissi di un coinvolgimento divenuto parossistico e incontrollabile.
E allora tanto valeva
vendere. Il signore con la giacca, poi, poteva anche dare da lavorare ai
figli: anch'essi sarebbero andati a costruire le case nuove e così
guadagnarsi — guadagnare, ormai cominciavano a dirla spesso anche loro
quella orrenda parola — da vivere, fare una loro famiglia. Su una nuova
terra o una nuova sterpaglia — rifugio per altri topi e vermi, riserva
di caccia per altri monelli, pisciatoio per altri vecchi ubriaconi. O loro
o qualcun altro, che differenza fa? Le case sarebbero comunque state costruite,
la colpa non era certo loro o dei loro figli se i campi venivano tolti
a qualcuno per farci su una casa: faceva parte del progresso. Non era successo
così anche per la terra, tanti e tanti anni fa? Quando le distese
non avevano padrone e il filo spinato non era ancora comparso per ribadire:
Mio. Prima quella terra era di tutti e il frutto dava da vivere alle persone
e agli animali. Il braccio dell'uomo più forte e più svelto
cominciò subito a lavorare e non era mai stanco. Martello, chiodi
e poche travi: all'inizio sembrava una cosa innocente. All'inizio era innocente.
Solo lavoro, buona volontà, sudore. Lo steccato veniva su. E quando
fu finito la terra non era più di tutti. Di qua potevi camminare,
di là no. L'innocenza era finita: la terra aveva un padrone. Il
braccio non era più solo un braccio che tiene il martello e pianta
i chiodi; il braccio, quel braccio così lesto, aveva creato il padrone.
Ora che l'aveva
stesa sul letto e spogliata, a Paolo veniva da ridere. Le vedeva le gambe
grasse, il culo grasso, la pancia grassa che colava dappertutto e andava
a coprirle i radi peli sul ventre. Non riusciva a dimenticare la battuta
di Franco. «Altro che piercing - gli aveva detto guardandola in piscina,
nel pomeriggio, dopo che avevano già bevuto diversi Martini - che
si faccia una cura dimagrante». E giù a ridere. Lei non aveva
sentito.
Paolo invece era stato attirato
da quella cicciona. Quando era ubriaco andava pazzo per le grasse. Mentre
Franco era al bagno, lui l'aveva avvicnata e invitata a cena. «Perche'
no?», gli rispose lei.
Appena si incontrarono,
poche ore dopo, non andarono nemmeno a cena. Paolo la portò subito
a casa e già sulle scale del condominio stava desiderando di farci
del sesso. Era ubriaco: ai Martini bevuti nel pomeriggio e resi violenti
dal sole della spiaggia, ne aveva aggiunti altri due o tre, prima di incontrarla.
Appena in casa iniziò
a baciarla e lei rispose ai suoi baci. Senza parlare la sospinse di là,
in camera. Frenetico, le aprì la camicia. Poi le abbassò
i pantaloni. Lei lo aiutò: si tolse le scarpe. Dagli slip che non
le riuscivano a coprire nulla, sbucava il musetto di un gatto tatuato tra
la coscia e il pelo pubico, giusto sotto al piercing che aveva all'ombelico.
A Paolo venne in mente Franco «Fatti una cura dimagrante, altro che
piercing!». Rise.
«Cos'hai da ridere?»,
gli disse lei.
«Niente» fece
lui, cercando di toglierle le mutande.
«No!», lo fermò.
«Come no?».
«No e basta! Non voglio
far l'amore con te. Sei uno di quelli che poi, domani, mi incontra per
strada e magari neanche mi saluta».
«Eccome che ti saluto».
E con le mani spingeva gli slip.
«Non scherzare. Hai
capito quello che voglio dire! Sono appena uscita da una storia importante.
Non voglio concedermi al primo che passa».
«Al primo che passa?
Ti ho portato a casa mia. Altro che primo che passa».
«Ma domani?»
«Domani ti saluto
di certo, se ti incontro».
«Questo l'ho capito.
Ma intendo: mi richiamerai?»
Lui continuava a lavorarla
tra le gambe e sul sedere. Lei si sedette sul letto, fermandogli la mano.
«Allora? Domani mi
richiami?»
«Cazzo, siamo qui,
adesso. Nel mio letto. Perché mi devi chiedere cosa farò
domani. Pensa a ora, no?»
«Insomma non mi richiamerai?»
«Ma sì, magari
ti richiamerò. Non lo posso sapere adesso, Cristo». La stese
di nuovo e la baciò.
Lei tacque, si fece baciare.
Egli si chinò e le baciò i capezzoli. Poi scese ancora. Col
viso arrivò all'ombelico, al piercing e non potè non mettersi
a ridere. La mordicchiò ridendo.
«Insomma perché
ridi? Mi stai prendendo in giro, vero? Tu domani non mi chiamerai»
fece girandogli il viso di lato, via dal ventre.
«Insomma, ora hai
stufato. Te l'ho detto: magari ti chiamo. Se ho tempo ti chiamo. Non lo
posso sapere adesso, cazzo!».
Lei allora scattò
in piedi. Si mise una mano attorno al seno che le cadeva grossissimo e
flaccido sulla pancia. «Tu mi prendi in giro. Ti viene anche da ridere.
Sei un maledetto». Scoppiò in un pianto isterico.
«Ma no, dai Cristo...»
Lei si rivestì, singhiozzando.
«Sei un maledetto! Un bastardo, maledetto!» ripeté.
«Basta! Che porca
troia vuoi che ti prometta? Di sposarti? Eh? Ma siamo matti? Vaffanculo,
va!»
Racattò la sua borsa
e uscì di corsa, tra le lacrime.
Paolo rimase solo un attimo
steso sul letto, nudo. Poi si alzò. Andò in cucina e si versò
un altro Martini. Bevve. Prese il telefono e compose il numero di Franco.
«Pronto...»
udì.
«Vai a farti fottere,
tu e le tue battute del cazzo» disse. E riattaccò.
Quando fu
finito, il condominio era una montagna così grande da non vederne
la vetta. Ma non era abitato da un re. Furono subito in molti, ad occuparlo.
Tante persone — famiglie e solitari — che abitavano sotto uno stesso grande
e alto tetto, divisi solo da sottili pareti, come stanze di fratelli. Arrivarono
appena la costruzione fu finita. «Ma saranno tutti parenti?»,
si chiedevano in paese. Alcuni pensarono che allora la casa non era il
frutto del dio guadagno — figlia della brama dell'uomo con la giacca che
poco tempo prima era giunto con altre due persone (o un altro solo?) a
guardare il campo di sterpaglie —; allora, forse, quella casa rappresentava
il bisogno. Meglio: la soluzione del bisogno. E vennero dalla città
anche vecchi. Diversi, molto diversi da quelli — ma erano poi vecchi? —
che fino ad allora avevano frequentato la taverna, dopo aver sudato ancora,
fino all'ultimo giorno di quella loro vita — avara e ingrata —, per lavorare
la terra: i vecchi che vennero ad abitare il condominio non avevano nulla
da fare, mantenuti dagli altri dopo che avevano lavorato anni per altri.
Oggi potevano godersi l'ozio — né falliti, né malati —: ricompensati.
Ecco forestieri – fra
loro né parenti e neanche amici – ad abitare il condominio. Ricettacolo
anonimo e empio, capace di dir sì a chiunque possa pagare subito.
Anche ai negri. Anche agli zingari. Anche alle puttane. A tutti. E la bandiera
del padrone — l'uomo con la giacca e la cravatta — non garriva al vento:
nessuna divisa, niente riconoscimenti — invisibile come durante la costruzione.
Il padrone marcava la sua presenza solo intascando l'assegno del mese.
Non c'erano più, lì alla taverna, solo i villani che si conoscevano
per nome, e che conoscevano il padre tuo e il padre di tuo padre. Quei
pochi rimasti lo dicevano: «Non si può più camminare
tranquilli, in mezzo a questi forestieri». Arrivati in fretta, non
avevano passato. Non lavoravano la terra. E magari non credevano in Dio.
Ecco la colpa: il condominio era impuro. Una torre enorme, conficcata a
forza nella loro terra, quella terra che avevano concimato. Ma che — maledetta,
dopo anni e anni di sacrifici loro e dei loro padri — ora non offriva più
il frutto sperato, né quello conosciuto. Altri uomini, diversi,
pericolosi, stranieri — questo era il frutto che quel nuovo albero misterioso
e duro, che non offre la resina né il creosoto, portava con sé.
Altri uomini venuti su dal nulla, spuntati da un concetto: il guadagno
dell'uomo con la giacca (ora sì, era chiaro: il nemico). Arrivati
per guadagnare o per rubare a loro — ai vecchi (ma erano poi così
vecchi?) — la terra, altre terre. Bere il loro vino. Occupare i loro posti
alla taverna. Quello steccato, che la mano forte e rapida aveva costruito
nella notte dei tempi, quando la terra era di tutti e di nessuno, si stava
spostando. E anche la mano che aveva costruito il recinto apparteneva ad
un uomo che stava per essere a sua volta spinto al di là della staccionata.
In quella zona — ormai così piccola — che non aveva padrone, ma
dalla quale proprio voleva fuggire, proteggersi quando decise di costruire
il recinto: un riparo dai pericoli sconosciuti. Dai forestieri. Adesso
quei forestieri cacciavano lui fuori dal suo steccato, fuori alla sua proprietà,
fuori dalle sue abitudini.
Questo era, prima, quel
condominio. Ma è impossibile dire se nacque per dare ricovero a
chi lo chiedeva, o per la brama di chi — l'uomo con la giacca e la cravatta
— così avrebbe potuto guadagnare ancora un po' di più, figlio
di un concetto. Oggi lui è; sopravvive a tutto e tutti. Presente.
Da quando gli
era morta la moglie, era diventato un altro. Anche suo figlio se n'era
accorto. Dopo migliaia di liti se ne andò via lasciandolo solo.
Lo ricordava bene, quell'addio così movimentato. «La pensione
ti ha fatto male», gli aveva detto. E mentre usciva, lasciando la
porta aperta di modo che il padre potesse sentirlo parlare anche mentre
scendeva le scale, aveva pure aggiunto che il governo faceva male a permettere
che i vecchi andassero in pensione: «Stanno a casa tutto il giorno,
guardano dalla finestra e non sanno che cazzo fare. E se si incontrano
con qualcuno è per parlare male degli altri. Farli lavorare tutti,
finché crepano. Tenerli occupati».
Lo aveva salutato così,
suo figlio.
Ogni tanto ripensava a quelle
frasi, soprattutto quando si ritrovava a guardare il pianerottolo dallo
spioncino della porta. Osservava chi andava su e giù dalle scale.
E gli piaceva l'idea di non essere visto.
Tra gli inquilini del condominio,
quello che sopportava meno era il capellone che abitava sopra di lui. Un
giovanotto che non aveva orari. Spesso si chiedeva cosa facesse per guadagnarsi
da vivere. Non riusciva a darsi una risposta. Lui era abituato alle canoniche
otto ore di fabbrica, quelle che aveva macinato per una vita: otto-sedici.
Qualche suo coetaneo si era mantenuto lavorando la campagna. Lì
gli orari potevano anche essere diversi, questo lo capiva. Ma quel capellone
non lo aveva mai visto con le scarpe inzaccherate o con gli abiti sporchi
di verderame. Trasandato e sporco, quello sì. Ma non di verderame.
Quando arrivava il suo amico,
un ragazzo alto con dei baffi come manubri, facevano poi del gran baccano.
Suonavano o ascoltavano musica. Ogni tanto, quando drizzava bene le orecchie,
era proprio convinto che cantassero loro stessi. I carabinieri li aveva
già chiamati diverse volte. Ma quelli arrivavano e prima gli dicevano
che il rumore non era così forte. Poi — se insisteva — salivano
di sopra e invitavano i ragazzi a fare più piano. Nient'altro. «Ai
miei tempi li avrebbero arrestati», borbottava allora ai militi,
mentre questi si allontanavano.
Aveva chiesto anche diverse
riunioni condominiali, ma non era riuscito a convincere molti altri inquilini
che quel tipo al piano di sopra faceva troppo rumore. Gli avevano detto
che avrebbe potuto tranquillamente sopportare. «È una vita
intera che sopporto», disse lui.
Quella sera oltre al ragazzo
con i baffoni ne era salito un altro. Gli sembrava che parlasse una lingua
diversa dalla sua. Non era tedesco, di cui vagamente conosceva i suoni
dai tempi della guerra, ma gli somigliava. Forse inglese. E dopo un po'
iniziò la musica. La solita solfa. Ma stavolta non aveva intenzione
di sopportare a lungo. Chiamare i carabinieri non era il caso: erano anche
loro giovani, sarebbe finita come sempre: «Fate più piano»,
tutto lì. No, stavolta decise di fare di testa sua. Era proprio
stufo. Stufo di tutto.
La musica si fermò
per un attimo. Sentì ridere. Poi qualche parola. Infine rumore sulle
scale. Guardò dallo spioncino e vide che il terzo ragazzo se ne
stava andando. «Meglio così — pensò —. Per tutti».
In un lampo la musica riprese.
«Ora basta»,
disse forte. Salì con il fucile carico: tre colpi. Uno a testa:
due per i ragazzi e per lui: per il silenzio e il buio.
Bussò e appena gli
aprirono fu l'inferno. Dopo aver sparato le prime due pallottole contro
i musicisti, vide sangue dappertutto nel vestibolo-soggiorno. Stava per
rivolgere il fucile contro se stesso, ma fu avvolto da un silenzio incredibile.
«Non ho mai sentito questo bel silenzio», si disse. Poggiò
a terra l'arma. Si sedette sul divano insanguinato, vicino ai due corpi
esanimi.
Poi spense
la luce. Per il buio.
|
o |
MAURILIO
BAROZZI (Rovereto, 1967) vive a Mori,
in
Trentino
Eppure
leggere e scrivere non mi era mai piaciuto, prima. Prima di quando? Impossibile
da dire. Prima di iniziare l’università (al liceo ero un asino)?
Prima di averla finita? Prima di aver capito il senso della frase? Prima
di iniziare a viaggiare? Prima di fare il manovale, il no-leggiatore di
windsurf, il raccoglitore di frutta stagionale, il facchino dei traslochi?
Ma forse ha iniziato a piacermi dopo. Dopo aver allestito e gestito mostre
fotografiche (come per il festival di teatro danza “Oriente Occidente”),
dopo che gli amici mi chiedevano di raccontare loro qual-che viaggio, dopo
che mi hanno proposto di scriverlo... Non sapevo come avrei potuto fare.
Allora ho guardato come facevano gli altri. Quelli bravi. Scrittori e giornalisti.
Ho cominciato a leggere di viaggi, dai più distruttivi (Kerouac),
ai più ironici (Twain), ai più perduti (He-mingway) ai più
surreali (Cervantes), ai più intimi (Kafka, Quasimodo, Montale),
ai più letterari (Faulkner, Joyce), ai più simbolici (Melville).
Diobono, visti così - non come a scuola - mi piacevano. Quasi di
più i loro viaggi (letti) dei miei (fatti). Ho provato a scrivere,
e talvolta mi è riuscito anche qualche cosa di buono; qualcuno me
l’ha detto... Ora mi mantengo così: carta e penna.
L’università,
quella sì, quella l’ho finita - mamma ci teneva -: sociolo-gia a
Trento. L’ultimo giorno dei ventiquattro anni ho discusso una tesi sullo
«Stato nazionale in Europa tra nuovi conflitti e spinte all’integrazione».
Poi il professor Scartezzini (Relazioni internazionali) mi ha proposto
di fare qualche lavoretto di ricerca per lui. Mi sono avvi-cinato alla
geopolitica collaborando con la rivista LiMes (per la quale ho scritto
saggi sulla regione Trentino Alto Adige). Nel frattempo iniziai a prestare
la mia opera all’«Adige», quotidiano trentino, per il quale
tut-tora lavoro come redattore.
Ho
fatto parte dello staff che ha fondato la rivista «Altreconomia»
e sono stato per alcuni anni responsabile della formazione per i corsi
di Economia globale dell’Unip («Università internazionale
delle istituzioni dei popoli per la pace», direttore Giuliano Pontara)
di Rovereto. Ho collaborato con diversi giornali italiani (corrispondente
per l’agenzia di stampa Agr) e riviste (da «Liberal» a «Cicloturismo»,
ad esempio). Ho scritto corrispondenze da Bruxelles e da Lussemburgo (Parlamento
eu-ropeo); reportages dalla Spagna, dalla Turchia (emergenza curdi), oltre
alcuni studi e libri sulla politica locale.
Ho
ideato e realizzato assieme a Lanfranco Barozzi spettacoli che fondono
assieme letteratura, teatro, musica. Il più noto si chiama «Bar-tleby
nel ‘900» che vagabonda per teatri, pub, e auditorium.
Il
sommario
dei
racconti
(20
marzo 2001)
Le
news
e
i commenti
nel
notiziario
di
Nonluoghi
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