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interviste
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"Il cinema è amore.
È impensabile farlo con il denaro..."
Parla Silvano Agosti, regista indipendente
che presenta il suo film su Basaglia
«Mi
piace questo spazio vuoto», dice Silvano Agosti mentre cammina
sul linoleum azzurro di una grande sala.
Perché proprio l’aborto? «Perché è il momento di massima solitudine di ogni donna». E lei come lo sa? «Me lo dice il mio inconscio. E cioè la parte femminile del mio inconscio». Comincia così
una lunga chiaccherata con il regista 62enne autore
di «Il giardino delle delizie» (1967), «N.P. Il segreto»
(1971), «La macchina cinema» (1976), «Nel più
alto dei cieli» (1977), «Quartiere» (1987), «D’amore
si vive» (1984), «Uova di garofano» (1991), «L’uomo
proiettile» (1955). Ha prodotto il Pianeta azzurro di Franco Piavoli
ed è reduce dal fluviale «Trent’anni di oblio», sul
Sessantotto e sugli anni seguenti trasmesso da Raitre.
«Era una vecchia e sporca casa e vi trovai una puttana francese che mi sorrise e che mi disse che sì, ogni tanto, Charlot passava ancora di lì. Mi stupii che non fosse stato tutto trasformato in un museo o in qualcosa del genere». Adesso è un tempo buono per la poesia di Charlot? «L’Occidente ha come progetto quello di mercificare tutto. E si sente affogare e come ogni naufrago tenta di aggrapparsi a quello stesso dato economico su cui si è strutturato. L’ossessione è proprio quella di voler dominare tutto, di associare tutto al denaro, anche i sentimenti, le speranze, i sogni. Allora tutto è sotto controllo e si cerca di controllare l’incontrollabile. Ma questo è un sintomo di disperazione, esprime forte fragilità. È un sintomo dell’agonia dell’Occidente dal punto di vista della gestione del sociale». E il cinema a cosa serve? «Il cinema è amore, soprattutto. È impensabile fare cinema con il denaro. Non disconosco l’utilità del denaro, dell’uso del denaro, come dell’uso delle fogne. Ma parlare tutto il giorno delle fogne mi sembra anche volgare». Nel tuo ultimo film "La seconda ombra" ti occupi dell’impresa di Franco Basaglia di chiudere i manicomi. Com’è l’Occidente, ora? «Per fortuna l’Occidente non è il mondo. Il mondo è più vasto e va avanti. Basaglia appartiene a quel filone umano, come Lao Tse, Martin Luther King e Gandhi, che ospita dentro di sé l’essere umano. Diceva, voglio dimenticarmi di essere uno psichiatra. Ho un ricordo di lui molto particolare: c’erano sei piedi che spuntavano dal basso di una scrivania. Stava facendo una riunione coi suoi collaboratori, e tutti se ne stavano distesi per terra. Era estate e Basaglia ha detto: "Xe fresco". Basaglia era davvero un bravissimo uomo, cresciuto miracolosamente nella pratica del gioco. E il gioco è un antidoto alla sterilità dei burocrati.» Ma lui è riuscito a fare molto... «Gli
apparati hanno cercato di cancellarlo subito e gli hanno concesso solo
ciò che non potevano toglierli. È giusto che il lupo si difenda
con la logica del lupo. Nel piccolo, come hanno fatto con me: ora non possono
più mandarmi i carabinieri e togliermi un film, come hanno fatto
a Parma nel ’83 quando vollero sequestrare "D’amore si vive". Ma dove semino
io i poliziotti non riescono ad arrivare. Semino nel quotidiano, ricordo
agli esseri umani la preziosità della vita.»
Cosa va salvato? «Oggi di straordinario c’è l’autogestione dell’individualità. Quando vedo la nonna del mio portiere, analfabeta, che usa il telecomando, o come l’altro giorno un barbone che usa il cellulare...sono delle immagini strepitose. Non c’è mai stata una avanzata così veloce ed inesorabile dell’individuo. Si sta sbriciolando il concetto finto di collettivo, la massa non serve più. Sono esistiti comportamenti di massa. Il trionfo della nuova cultura è il patrimonio della diversità, intesa come qualcosa di irripetibilmente umano.» Ma l’uomo non rischia così di isolarsi? «La solitudine è straordinaria. La disperazione nasce dal disamore verso se stessi. Manca una cultura operante dell’amore. Dove per amore si intende disponibilità totale e costante verso ciò che esiste. Uno dei poemi più straordinari che siano stati scritti è «ama il tuo nemico». Una folgorazione. Il poeta si chiamava Gesù Cristo e ha così dato la chiave di apertura di tutti i conflitti. Molti stanno male perché odiano se stessi: ecco "ama il tuo nemico", anche se è te stesso. Come ti vedi? «In me non c’è niente di ex, sono protagonista di una scelta perenne. Ma io ho avuto una grande fortuna: non sono andato a scuola sino ai 10 anni e nessuno mi ha strappato la mia infanzia, correvo sulle colline, libero, a piedi nudi. Anche se per certi versi è stata dura: ho visto anche fascisti e nazisti giocare a pallone con la testa di un partigiano. L’infanzia è un momento straordinario, in cui ho perso il credito nei confronti degli adulti. L’età magica è a quattro anni, quando si vuole conoscere tutto, toccare tutto, giocare con tutto. Non credo agli adulti che non si chiedono più i perchè. L’unico adulto che ho visto sorridere è stato Charlie Chaplin.» - Oltre al viaggio per vedere la sua casa, qual è stato un altro momento importante della tua vita? «A 18 anni, mentre camminavo a Monaco, ho visto l’ombra di uno che mi stava spezzando una bottiglia sulla testa. Ho schivato il colpo e l’ho guardato in silenzio. Poi gli ho chiesto: hai bisogno di qualcosa? E mi sono reso conto che per lui quello era l’unico modo per entrare in contatto con un altro essere umano. La violenza è figlia della disperazione. L’essere umano in stato di libertà è incapace di violenza. In stato di bisogno e di cattività invece no. Su 6 miliardi di uomini forse 20 milioni saranno violenti, lo zero virgola qualcosa. Ma si racconta sempre di loro. L’essere umano se ha mangiato, se può creare, dare, è felice di vivere il proprio destino. A scuola si studia la storia del potere, non quella degli uomini. Nessuno ha mai raccontato la storia umana, perchè quella sì è veramente meravigliosa. Porto la croce di essere un uomo felice.» - Ma come spieghi l’esistenza di uomini come Hitler? «Era un imbianchino disoccupato che cercava di sbarcare il lunario. Poi è diventato una creatura degli Americani che così speravano di costruire un fantoccio da opporre all’egemonia russa: la cosa gli è sfuggita dalle mani. Il potere è una malattia, e più è legato alla mediocrità più diventa pericoloso». Cosa ti ha spinto a diventare regista? Ride. «Ad un certo punto della mia vita mi sono rinchiuso a casa, una stanza, e per un anno ho letto tutti i classici. Ma avevo anche fame e quando ho saputo che lì vicino c’era una scuola dove si mangiava gratis mi ci sono iscritto. Ho cominciato così la scuola di regia. Ma l’amore per cinema ce l’avevo ancora da piccolo: avevo sette anni e mio padre, che era maestro di scuola, ogni tanto portava a casa quella macchinetta per fare i film, per farci stare un po’ buoni, e noi che eravamo sei figli restavamo incantati». È vero che Morricone ha composto gratis molte tue colonne sonore? «Come si può offrire soldi ad un amico? Sì, ha composto diverse musiche per i miei film ed io in cambio gli ho offerto un gelato di cioccolato e limone, ed ho anche protestato perchè mi sembrava una schifezza». Non promuovi i tuoi film. E così molta gente non riesce a vederli... «Non mi interessa riempire le sale. Io voglio che il chicco che getto nel campo arrivi là dove può crescere. Se nella sala ci sono 100 persone soddisfatte del mio film, per me sono 100 milioni. Perché sono l’umanità. E poi, cosa vuol dire la fissazione della quantità? È tipica dei dittatori. Se un film vale, prima o poi si fa una strada. O vuol dire che è solo in anticipo sui tempi.» Hai un cinema tuo, ormai quasi una metafora... «Ogni anno l’Azzurro Scipioni (azzurro perchè è il colore della vita, Scipioni perchè è in via Scipioni, a Roma) proietta 800 film all’anno, e nessuno di questi è un film americano industriale perchè chi viene al mio cinema sa quello che cerca. Vengono proposti i grandi film della storia del cinema, perchè per chi non ha mai visto un capolavoro, anche quello diventa una prima visione. Poi ci sono delle pellicole che, pur nella loro semplicità, contengono il mistero dell’immagine, come l’Atalante di Jean Vigo...e io credo che l’immagine sia molto superiore alla parola. Ho sempre diffidato di chi parla troppo». In effetti, i "matti" del film "La seconda ombra" parlano poco e si perdono nei loro immensi sguardi... «Avevo
bisogno di questo film. Dopo le molte pellicole dedicate a temi sociali
avevo deciso di fare un film estremamente intimista tratto dal mio libro
"La ragion pura" - titolo ispirato a Kant - in cui affrontavo l’inconscio
femminile. Poi ho avuto come una folgorazione ed ho iniziato a lavorare
a "La seconda ombra" , che mi ha permesso di fare come una pausa, un intermezzo.
Ora ritorno a "La ragion pura": è la storia di un uomo e di una
donna che vivono insieme da quindici anni. Mentre lei è imprigionata
nel ruolo di moglie, uno dei più terribili che ci siano, lui vuole
ritrovare la passione. E alla fine ci riesce.» Come vedi la donna?
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o | Silvano
Agosti è uno dei pochi registi veramente indipendenti sulla scena
artistica italiana. Il suo ultimo lavoro, «La seconda ombra»,
è dedicato alla fiaba di un uomo, Basaglia, che ha voluto ridare
dignità ai suoi simili, liberandoli dalle sbarre dei manicomi.
Il film è stato anche lo spunto per una vasta conversazione con Agosti sulla preziosità laica dell’essere umano, sulla crisi dell’Occidente, sul potere terrorizzante dei media, uno sguardo svagato e profondo proposto da uomo che ama la vita, è felice, e non è mai sceso a compromessi. Se
«La seconda ombra» - che racconta la lotta dello psichiatra
Franco Basaglia dal 1961 al 1970 per chiudere i manicomi - ha in un certo
senso deluso gli epistemiologi e chi si aspettava un fedele documentario
sui fatti, le immagini hanno invece restituito al personaggio, interpretato
dal bravo Remo Girone, tutto il suo entusiasmo bambino, la sua voglia di
giocare con le regole e di restituire alle donne e agli uomini abbrutiti
da decine di anni di torture, la gioia di appartenere a questo mondo. L’inizio
della pellicola ricalca in parte il «Brubaker» di Redford,
con il direttore travestito da poveraccio che vede le quotidiane e terribili
violenze delle persone prigioniere, in questo caso dell’Ospedale psichiatrico
di Gorizia del 1961. Vede, registra e si commuove, per decidere poi di
intervenire e, sostendo che «la malattia mentale ha la stessa dignità
di tutte le altre malattie», e che il «malato entra in manicomio
e dopo poco è già una povera cosa», portare avanti
la propria piccola essenziale rivoluzione. Quasi subito però il
film abbandona l’AZIONE dell’escamotage, per entrare in una dimensione
molto più lenta e immaginifica, densa di particolari scintillanti
e di quieti accartocciamenti, cercando di accompagnare lo spettatore nella
quotidianità di persone che hanno molto sofferto ma che comunque
rivelano una forza disarmante. Non ci sono dunque scene ad effetto, nè
giochi emotivi, ma spaziose inquadrature e corridoi illuminati dalla luce
del giorno, feste paesane e elementi della di quotidiana eccezionalità,
come il nascere, il morire, lo sposarsi. Non c’è gente che urla
piange, ride o si dispera, ma profondi e paterni sorrisi di Basaglia, sguardi
sereni e interrogativi dei pazienti, gentili parole delle infermiere. Anche
una frase terribile come «Quando, con la scusa di curarmi, medici
ed infermieri mi torturavano, allora io mi rifugiavo nella mia seconda
ombra, così nessuno poteva più farmi del male», è
detta da un paziente senza alcun rancore.
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