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Qualche domanda e poche risposte
su Veneto e dintorni globali
Pensavo di scrivere questa breve riflessione-invito al dibattito qualche settimana fa, in una giornata di relax, sotto la collina verde dove sono cresciuto, a Belluno. Avevo riflettuto a lungo su queste righe da buttare giù prima o poi; le avevo quasi tutte in mente un giorno, mentre mi si schiudeva la Valbelluna, solare e aperta, delimitata dalle creste ormai anche dolomitiche a settentrione e dalle ondulazioni di una Babele collinare a Sud. La mano era andata al tasto dei canali memorizzati dell'autoradio, ripetendo un gesto ormai automatico, in cerca di una radio e di qualche notizia "antagonista". Tra Feltre e Belluno mi ritornava in mente come mi dividevo nel rapporto con questa valle e con la mia città. Ora vissute come gabbia da cui fuggire; ora come radici e memoria; ora come immaginario di una tensione ideale, la resistenza, i giovani partigiani appesi agli alberi del Bosco delle castagne con il loro comandante Mario Pasi impiccato quand'era già morente, massacrato in carcere. Poi, il teatro di Paolini mi sfrecciava davanti come in un film sparato a folle velocità. Poi Tina Merlin, la denuncia, il coraggio, la responsabilità individuale, il senso civile. Ma anche una sensazione di immobilismo, talora di inibizione delle dinamiche del cambiamento. Una staticità casa e famiglia e forse chiesa. Una società lenta e in attesa. Tutto e il contrario di tutto. Mi fermo qui con quest’introduzione forse inutile, anche perché mia moglie mi ha appena detto che sono patetico e ottocentesco nello stile. Temo abbia ragione. Non ho scritto, quel giorno. Ho incontrato un po' di amici, poi me ne sono andato. Belluno è stata premiata come una delle poche città amiche dei bambini, leggo sul giornale. Bene. Mi ero guardato attorno dicendomi che ci vuol poco, in Italia. In ogni modo, meglio essere tra i primi che tra gli ultimi, anche se la vetta non brilla. Sono appena atterrato a Bruxelles. Da Verona. In areo parlavano d'affari. Più che altro. Veneti e affaristi. Li ascoltavo, li osservavo per capire. Sono cinghie di trasmissione del motore della locomotiva. Il Veneto laboratorio dell'economico e del suo dominio? Forse. Ma non solo. Vorrei scavare, c'è dell'altro. C'è quello che vedo. E quello che sento, cerco e voglio comprendere meglio. L'altra sera alla televisione c'era il sindaco di Treviso, Gentilini. Diceva più o meno che quel bravo ragazzo di Haider è un suo discepolo. E poi altre frasi di ardua accessibilità. Quasi una testimonianza della arida vena intellettuale, di un'aggressività dai toni paterni, più che di una reale elaborazione teorica dell'intolleranza (etnica e economica) e della sopraffazione. Tanto che a sbalordirti tragicamente non sono le cose che dice; è la consapevolezza che una maggioranza lo ha voluto come suo sindaco. Che cosa c'è dietro? Che cosa c'è dietro una certa xenofobia (rivolta al diverso, non solo all'immigrato ma anche allo sfigato che non produce reddito come si deve) e quel primato dell'economico e della competizione che poi prende a modello il mondo tedesco delle locomotive e finisce per assecondare o addirittura esaltare l'Haider di turno? Ma Venezia non era un porto di mare e non conviveva con le razze del mondo, sia pure per interesse e delimitandone gli spazi anche fisici? Che ne è di quell'immaginario dell'orizzonte aperto al nuovo, al diverso all'altro? Che cosa rimane di quel porto di mare se un intellettuale come Gentilini diventa sindaco? Se alla complessità dell'analisi e quindi della prassi politica/sociale si sostituiscono le scorciatoie fanatiche del noi/loro, le contrapposizioni che finiscono col mettere i poveri contro i più poveri? Certo, pochi chilometri più in là c'è un Cacciari sindaco. Ma non voglio occuparmi qui dell'altro volto del Veneto, salvo sottolineare che lo avverto e non ne sottovaluto il peso importante: il mondo dell'umanesimo, il volontariato, un certo solidarismo diffuso e includente (sì, tutte le diversittà), un crescente antagonismo al sistema dell'ingiustizia e dello sfruttamento (centro sociali del nord-est, attività ormai storica del movimento ecologista, la diffusione delle botteghe del terzo mondo, dei gruppi di impegno e di lotta sui temi dell'oppressione locale e globale, l'attività d movimenti come Beati i costruttori di pace e di un sacco di altre realtà radicalmente contro la violenza e per la giustizia degli ultimi), perfino i punti di contatto fra un percorso di liberazione sociale e qualche aspetto di certo riformismo federalista. Non voglio nemmeno dimenticare le caratteristiche di buona parte dell'imprenditoria veneta, il suo essere tendenzialmente piccola e diffusa nel territorio, parte di un sistema policentrico che è associabile a simboli meno legati alla visione gerarchica, scorci immaginari di organizzazione orizzontale delle relazioni. Non tralascio nemmeno che questa imprenditoria è in molti casi assai più civile di alcuni settori politici nei riguardi, per esempio, di un fenomeno come l'immigrazione, che assicura ovviamente forza lavoro. Non dimentico la prospettiva municipalistica e democratica associata a un mondo produttivo se non proprio del piccolo è bello, nemmeno elefantiaco come sembra destinata a essere ogni esperienza economica nel mercato globale dell'espansione infinita e del pesce grande che divora quello piccolo. Non nego che c'è, almeno nell'immaginario, una breccia di questo tipo; una prospettiva possibile; di un altra convivenza qui e ora rispetto a una fuga nell'altrove. No, voglio parlare un attimo di quelli che Gentilini vogliono e votano. Afferro il fenomeno a fatica, anche perché i miei contatti sono indiretti, osservo la grande pianura dei veneti dalle mie postazioni montanare, che le sono insieme vicine e lontane: in Valsugana e nel cuore della Belluno dove c'è un sindaco riformista come Maurizio Fistarol che - pur con tutti i suoi difetti piccoli e grandi - è parte dell'altro Veneto, di quello che non si nasconde né dietro il conservatorismo miope né dietro le tragiche fughe isteriche del radicalismo veneto-centrico. Se ripensare una democrazia si può, questo comincia da qui. Dalla municipalità, che oggi ha a disposizione strumenti inimmaginabili 30 anni fa (di consultazione e partecipazione collettiva, per esempio una rete civica come strumento per conoscere, riflettere ma anche decidere tutti insieme). Sono salti di qualità possibili nel microambiente delle città come Belluno che - saranno i partigiani ancora penzolanti al Bosco delle Castagne o in piazza dei Martiri, sarà che fa troppo freddo per le "invasioni" colorate - resiste sembra meglio all'arrembaggio dei cow-boy e degli sceriffi ma l'aria che tira si percepisce anche lì. E spesso non è bella aria. Ma torniamo al caso Gentilini. E dico "caso" per intendere un quadro di riferimento culturale dove la parola d'ordine è conservare la nostra "integrità"; dove la morale soverchia l'etica, cioè il noi veneti (o senza andare lontano il noi trentini o il noi giuliani o altro, il noi italiani o europei...) è gerarchicamente superiore al noi esseri umani; dove la responsabilità individuale non deve fare i conti con la coscienza prima di passare alla cassa e alla partita doppia, ma viceversa. Allora, il simbolismo policentrico veneto zoppica; altro che relazioni orizzontali; qui la rozza scala di valori e ben chiara e nettamente verticale. Un po' come in un villaggio del vecchio West. Ma il Veneto non è il Texas, anche se qualcuno sui giornali erroneamente ha definito Gentilini Tex Willer (il primo è moralista, a modo suo; il secondo etico, a modo suo). Moralista? Ma chi vuole questo moralismo dell'esclusione? Economica, culturale, etnica, sociale. I ragazzotti che si sballano in discoteca e ogni tanto si schiantano alle 6 del mattino? Il piccolo imprenditore che dà da lavorare a qualche maghrebino e con una mano gli porge lo stipendio, con l'altra vota il suo sceriffo? L'operaio che gli sono entrati in casa? Il buon professore che però non si è più sicuri per strada? La signora che non capisce come il parroco non si renda conto che abbiamo paura, che anche i nostri problemi esistono e sono seri? Inizia ad affiorare una sensazione di soffocamento. Di vicolo cieco. Manca l'aria. Non so da che parte cominciare. Dall'emigrante veneto anni Cinquanta? Da quelle criminalizzazioni da lui subite all'estero? Forse. E forse no. Ma comunque sia, non arriverò al "sentire" del ragazzino tirato su a pane e moralismo dell'ognuno a casa sua. Di fondo c'è una diffidenza verso un altro che è minaccia alle tue conquiste che ti hanno portato fuori dalla miseria, fuori dalla fame e dall'imbarazzo dell'ultimo della classe. Ora sei il primo o quasi, sei la locomotiva, parlano di te un po' come anni fa parlavano dei tedeschi formidabili uomini economici. Guai a chi attenta a questo primato! Ma gli immigrati ti servono. Sì, in fabbrica, però vorresti veder scomparire gli effetti collaterali senza renderti conto che non è cosa che si fa nel volgere di una notte, con una legge o col cemento armato ai patri confini... La domanda che mi assilla è come riuscire a parlare a queste ansie; a queste paure convinte. Come guardare negli occhi l'elettore di un Gentilini veneto o di un Boso trentino o di tutti i loro più o meno omologhi sparsi per l’Italia e per l’Europa, e arrivare alle radici profonde di un pensiero talmente primitivo da farti immaginare che radici non abbia? Eppure colpisce la platea. Parole vuote? Slogan? Simboli? Emozioni? Sarà. Ma c'è dell'altro. C'è un'inquietudine alla quale bisogna imparare a parlare. Non starò qui a dilungarmi sulla pedagogia e sulla scuola (sulle potenzialità della prima, quando sa ispirarsi all'etica delle responsabilità del singolo e del gruppo, quando è libertaria e può aprire orizzonti di solidarismo umano; sui disastri della seconda, quando in classe si riproducono i meccanismo dell'autoritarismo e dell'esclusione delle diversità, anche di quelle fra insegnante e alunni). Di scuola e educazione potremmo parlare a lungo, è, certo, la prospettiva. Ma ora
parliamo di noi, qui e adesso. Sono sacrosante le campagne, sacrosanti
gli appelli, le lotte, i sit-in, le marce e le camere d'aria centrosociali
davanti ai manganelli (com'è successo in via Corelli a Milano o
a Ponte Galeria a Roma e in molti altri posti dove - come dice Sofri -
puoi sentirti almeno per un attimo uguale agli ultimi e conservare il peso
di quella identificazione). Tutto dovuto. Però, resta un'azione
fra noi e fra noi e le istituzione. E forse c'è anche altro da tentare.
E qui il percorso si fa più tortuoso, il sentiero s'inerpica e poi
si disperde in cento tracce che non sai più. Il problema è
entrare in contatto con gli altri, quelli che stanno dall'altra parte,
quelli che tirano una bestemmia se il governo chiude per ragioni umanitarie
un "centro di permanenza temporanea" che poi i tg chiamano vergognosamente
"centro di prima accoglienza gestito dal volontariato" (e vedi dei Marcantoni
che sembrano della Folgore, con divisa e baschetto, ma sono della Croce
rossa) e che in realtà spesso sono un tragico insieme di gabbie
da circo equestre.
Il cambiamento, quello vero, esige anche questa forma di impegno, probabilmente più faticosa dell'altra, che è altrettando doverosa. L'incontro. Va cercato, spinto, stimolato l'incontro umano, l'incrocio di sguardi, di occhi, di vite e di paure e sofferenze. Il Veneto di Marco Paolini, rappresentazione in miniatura delle più vaste contraddizioni sociali – solidarismo e esclusione, curiosità e fobia, incontro e fuga - è anche la misura di una insopprimibile esigenza di incontrare e di far incontrare. Si impone la necessità di un lavoro sui linguaggi. La riflessione sulle forme di un’azione che sappia catturare l’attenzione di chi non vuole; deviare le traiettorie dell’egoismo quando queste – e succede – sfiorano quelle delle solidarietà nell’animo popolare; decomporre e riassemblare i percorsi immaginari dell’aspirazione al benessere all’autonomia dei singoli e dei gruppi: tradurre – rendere percepibile e qui Marco Paolini è un grande traduttore… - la parola di altri sentieri possibili per altre idee di buona convivenza possibile. A volte, in qualche caso, il passo può essere più breve e le potenzialità di contaminazione più elevate di quanto si creda. Forse, anche quando l'emotività - per ragioni comprensibili - porta invece a reagire con chiusura e aggressività. Una prassi dell’inclusione e del dialogo richiede anche questo sforzo di interrogarsi sul come poter parlare a chi – per distrazione, emergenza, manipolazione, malafede perfino necessità – percorre le traiettorie dell’intolleranza da buon padre/madre/figlio di famiglia. Qui non si può che cominciare dalla forza simbolica della parola e della memoria, nei semplici momenti della quotidianità o negli incontri organizzati, dalla piazza al porta a porta. Con la fatica implicita di ogni ricerca oltre il confine del proprio linguaggio e del proprio sentire. Una fatica necessaria per allargare e rinforzare le fondamenta della casa di tutti che ci piace immaginare nel nostro futuro. Risposte finite non ho. Solo la consapevolezza dell’urgenza di una riflessione su questo tema centrale ma spesso sottovalutato. Spero che altri possano/vogliano dire la loro. |
o | Un invito al dibattito sul tema del linguaggio "antagonista" |
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