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Roma cos'è?
Un racconto dentro la capitale e lungo
il suo fiume...
di ROBERTO CARVELLI Persino prendere
un treno di primo mattino nel verso contrario a quello dell’arrivo a Roma
- esperienza che mi ricorda un anno intero – è provare un
brivido, consumare un rapporto innaturale salendo uno tra pochi su un treno
prima stracolmo di persone e ora semideserto e maleodorante.
Ecco Roma com’è
se ci si arriva da fuori, mani al volante o seduti in scompartimento. La
differenza è solo nel luogo in cui ci si trova proiettati: sagome
umane sperse nelle sagome d’auto o corpi in movimento nel pieno Centro
della città. La differenza è nelle armi: chi entra con la
macchina entra con un Cavallo di Troia con cui spera di forzare le mura
di adesso, il GRA con tutte le vie consolari che tagliano a spicchi i quartieri,
e quelle di allora, fortificazioni di laterizi rossi (ecco Roma com’era).
Spera che i vigili siano distratti o abbiano dimenticato un varco nella
chiusura al traffico, nella difesa della guerra delle auto al Centro. Spera
di poter esibire fantomatici permessi, tessere, certificati per fendere
le domande delle divise bianche che ostruiscono il transito.
Poi c’è
il Tevere, fiume disprezzato, imputato di sporco e di altre nequizie. Troppo
esposto per essere amato e quindi tradito dalle lamentele dei coniugi con
occhi solo per i difetti. Tutti i romani sono coniugi lamentosi del fiume
Tevere che invece è “biondo” come lo dicevano i latini e di mille
altre sfumature tra il verde oliva e il giallo, il verde più scuro
e il grigio in ragione di una varietà che sanno solo gli amanti
di lungo corso, capaci di tenere vivi i sensi dell’amato con le maschere
della passione. Ora che per esempio è domenica e piove a dirotto
(è la prima grande pioggia della stagione d’autunno e segue cinque
giorni di temperature di 30°, cosa rara a metà ottobre anche
a Roma) sarei curioso di vedere il colore che ha preso, il suo nuovo prodigio
per un nuovo stupore. E invidio le tante finestre che lo guardano dagli
argini delle strade che lo fiancheggiano, i lungotevere. E rimpiango
i pochi giorni trascorsi in ospedale – per fortuna senza dolori e preoccupazioni
– al Fatebenefratelli che mi affacciavo e lo vedevo dalle due parti dell’Isola
Tiberina, una specie di nave di terra incagliata al centro del fiume, nel
cuore di Roma con l’ospedale, una chiesa ex-tempio romano e poco altro.
Se si scende lungo i fianchi di questa nave e si va a prua o a poppa le
onde del fiume gridano contro la pietra e per parlarti devi gridare più
forte o stai zitto per la scoperta di un fragore così insolito e
tale da coprire macchine e clacson. Fragore prodotto da un elemento naturalmente
così silente.
E invece chi
viene per una notte, per poche notti apprezza e ama tutti questi regali,
ama le rughe della città, i sui rovinosi segni del tempo ma anche
tutte le sue forme intatte, i segni di una bellezza che conosce chi
come me ama da fresco trentenne le donne cinquantenni, i loro corpi con
il ricordo di mille altri amori trasformati in Classici, libri senza tempo
e colmi di insegnamenti sempre nuovi e sempre quelli. Corpi fatti da giorni
da prendere al volo come ci dice Orazio come tante prime (o ultime?) volte
che ciechi non sappiamo vedere e chiamiamo monotonia.
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o | Questo
racconto sarà pubblicato anche su Op.a.
rivista che esce in Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina I
racconti
(18 ottobre 2000) Le
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