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Zingaro, chi sei?
Un popolo in diaspora, perseguitato e violentato, che ha forti tradizioni letterarie e artistiche
Oggi molti sono sedentari, studiano o lavorano. Ma i più poveri sono costretti ai campi
 

di WOLFTRAUD DE CONCINI

    E' certamente un popolo strano quello che non ha un verbo per tradurre il termine «avere», che designa il ieri e il domani con la stessa parola, un popolo senza patria e senza guerre. E' un popolo, quello degli zingari, che suscita, dovunque si presenti, fortissime reazioni: di benigna curiosità o di categorico rifiuto.

  Zingaro barone - o zingaro di strada? Non c'è al mondo un altro popolo attorno al quale opinioni e giudizi si dividano come attorno agli zingari. Mitizzati e invidiati dagli uni, vengono disprezzati e perseguitati dagli altri, per cui è sempre difficile distinguere la verità dall'invenzione, la realtà dalla romanticizzazione o dallo spregio. Per tanta divergenza di opinioni c'è, probabilmente, una spiegazione: il non conoscere gli zingari, il non sapere niente della loro origine, della loro storia, della loro vita.
Chi sei? da dove vieni? sono domande che gli zingari stessi si sono poste raramente. Esistono. Esistono oggi. Il passato e il futuro sono la stessa cosa: sono taissa, sono «ieri» e «domani» espressi con la stessa parola. Interessa solo il giorno presente. Vivono oggi, mangiano oggi, si divertono oggi, piangono oggi. Lo ieri è ormai passato e dimenticato, il domani si vedrà. E' una mentalità fatalista dovuta sicuramente alle origini orientali degli zingari.

Le similitudini linguistiche con il sanscrito

   Per secoli erano state formulate le teorie più fantasiose sull'origine degli zingari, quando nell'Ottocento alcuni linguisti cominciarono ad osservare notevoli similitudini tra la lingua zingara e il sanscrito. Basti citare qualche esempio: la parola zingara kalo «nero» deriva dal sanscrito kala, rat «sangue» da rakta, rup «argento» da rupya, bal «capelli» da vala. E si potrebbero trovare molte altre similitudini, anche con dialetti dell'odierna India nord-occidentale e del Pakistan.

   Partendo dalla linguistica, si è potuto concludere che la terra d'origine degli zingari sia l'India. Si presume che attorno all'anno 1000, ma forse anche prima, abbiano cominciato il loro lungo viaggio verso occidente, per motivi finora mai chiariti. Prestiti linguistici, raccolti «per strada» e tuttora presente nel romanes, cioè nella lingua degli zingari, ci permettono di seguire la loro rotta di viaggio: attraverso l'Afghanistan, l'Iran, l'Armenia, la Turchia e la Grecia giunsero ai Balcani, per apparire in Italia ai primi anni del Quattrocento.
   Non passarono inosservati: la pelle scura, i vestiti sgargianti di foggia orientale li rendevano «diversi» fin dalla prima comparsa in Europa. Per essere accolti si dichiaravano pellegrini, per guadagnarsi da vivere facevano gli indovini, lavoravano il rame e l'argento, addestravano orsi per farli ballare in strada, si esibivano come musicisti ambulanti. E viaggiavano, viaggiavano sempre: per scelta e «vocazione» - oppure perché non fu mai permesso loro di fermarsi, perché furono sempre cacciati? 

Una storia di persecuzioni

   La storia degli zingari, infatti, è una storia di scontri continui con la società non-zingara, maggioritaria, che ha opposto e oppone a loro, gli eterni «altri», divieti, proibizioni e rifiuti. A cominciare dal XVI secolo gli zingari furono, assieme agli ebrei, espulsi e perseguitati dai grandi stati nazionali che si stavano formando, perché considerati, nella loro «diversità», elementi di disturbo nella unificazione e nel senso di unità dei popoli. In certe epoche gli zingari potevano essere uccisi impunemente, in Romania furono schiavizzati per 400 anni (fino ad oltre la metà del secolo scorso). Ma nessuna persecuzione fu così sistematica come quella nazista quando nei campi di concentramento tedeschi morirono mezzo milione e forse più di zingari: a Dachau e a Ravensbrück, dove donne e bambine zingare furono sterilizzate, a Auschwitz-Birkenau, dove fu tenuto un libro che riporta, annotati con incredibile acribia, i nomi di 20.946 zingari, a Natzweiler-Struthof, nell'Alsazia francese, dove furono sottoposti a vari e mortali esperimenti medici, a Buchenwald da dove furono ceduti alle grandi società farmaceutiche per 170 marchi per «capo»: un olocausto troppo spesso dimenticato. 
Secondo le stime, in Europa vivono oggi dai nove ai dieci milioni di zingari (sono sette-otto milioni nei paesi dell'Europa orientale), in Italia 110.000-120.000, di cui la maggioranza è di cittadinanza italiana. Quelli presenti da secoli nel nostro paese si dividono in due gruppi principali: i Sinti e i Rom, distinti tra di loro per dialetto, usanze, caratteristiche somatiche, occupazione. 

I rom artigiani e commercianti, i sinti artisti di strada

   Mentre i Rom (che di prevalenza si trovano al centro e al sud dell'Italia) sono abilissimi artigiani del rame e commercianti, una volta di cavalli, ora di macchine, i Sinti erano da sempre dediti allo spettacolo di strada, ai circhi (sono di origine sinta le grandi famiglie di circensi come gli Orfei e i Togni), alla musica.
Le tracce del cammino millenario si trovano anche nella musica zingara che ha una forte, evidente matrice orientale - ma che «zingara» non è. I musicanti zingari hanno da sempre dimostrato grande abilità nella reinterpretazione della musica dei luoghi in cui si trovavano, assorbendone gli elementi più tipici. Il risultato è una musica dall'identità inconfondibile, attraverso la quale gli zingari riescono ad esprimere meglio di altri tutta la scala dei sentimenti, dalla profonda tristezza alla più sfrenata allegria.
La musica ha fatto sì che gli zingari, nel corso dei secoli, si siano trovati in situazioni paradosse: mentre i musicisti, virtuosi nati e bravissimi interpreti (basti pensare all'immagine, stereotipizzata, del focoso violinista tzigano!), erano richiesti alle corti europee, il popolo zingaro veniva maltrattato e bandito dai paesi. I musicisti zingari invece dovevano divertire, distrarre: nelle feste popolari come ai matrimoni, nei balli di corte, nei reclutamenti di piazza come nelle marce verso i forni crematori dei campi di annientamento nazisti.

La tradizione letteraria

   E' facile trovare nella letteratura colta figure di zingari: la «Gitanilla» di Cervantes e la «Carmen» di Prosper Mérimée sono solo due degli esempi più famosi del passato. Nel nostro secolo è Federico Garcia Lorca che, con il «Romancero gitano» e il «Poema del cante jondo», dà voce e corpo agli zingari. Fino a poco tempo fa era invece raro, se non impossibile, incontrare tra i Sinti e i Rom autori di testi letterari. Da quando però gli zingari - o meglio: una ristrettissima élite tra di loro - hanno cominciato a confrontarsi con il mondo dei gage (come sono chiamati da loro i non-zingari), hanno imparato ad usare anche le loro forme di espressione artistica e poetica. 

   Scrivono romanzi e poesie: delle volte in romanes, più spesso però nella lingua del paese che li ospita.
   Nonostante i tanti tentativi di repressione nei loro confronti, gli zingari sono rimasti fedeli al romanes, che è parlato, seppure con molte varianti dialettali, da quasi tutti gli oltre dodici milioni di zingari nel mondo - come sono rimasti fedeli anche a certe tradizioni e valori culturali di derivazione orientale. Solo qualche esempio: quando una famiglia zingara si sposta, porta con sé - per piccola o grande che sia la roulotte - varie bacinelle per usi ben distinti: per lavare il corpo, per lavare i piatti, per lavare la biancheria. Nel passato, i vestiti degli adulti venivano lavati separatamente da quelli dei bambini (e questi preferibilmenti nell'acqua limpida di una sorgente) per evitare contaminazioni: sono precetti di purezza che gli etnologi riconducono all'origine indiana. E quando muore uno zingaro, presso molti gruppi si usa ancora oggi (come vuole anche la tradizione indù) bruciare tutti i suoi beni personali, dai vestiti alla roulotte. Come non esiste un verbo per tradurre il termine «avere» (bisogna comporlo con un «a me è, a te è...), così non esiste eredità. Ogni zingaro deve costruirsi il suo patrimonio da solo, come gli zingari hanno sempre dovuto cominciare daccapo, ogni giorno, dovunque arrivassero dopo viaggi lunghi e faticosi. 

Un popolo in diaspora

Gli zingari sono, come gli ebrei, un popolo in diaspora, senza precisa dislocazione geografica: un popolo senza patria, l'unico popolo del mondo senza patria - e quindi anche l'unico popolo al mondo che non abbia mai combattuto una guerra. Ma come avrebbe potuto svilupparsi il concetto di patria in un popolo continuamente espulso e cacciato? 
   Nemmeno a Saintes-Maries-de-la-Mer, che gli zingari hanno fatto conoscere al mondo con il loro colorato, intenso pellegrinaggio annuale in onore della «loro» Santa Sara, i gitans erano sempre i benvenuti. Fino verso la metà degli anni Trenta (del nostro secolo, non del medioevo!) erano banditi dalla chiesa: potevano assistere alla messa solo dalla piccola cripta, rigorosamente divisi, con cancelli chiusi a chiave, dalla comunità degli «altri» fedeli. E anche oggi, finita la festa del 24 e 25 maggio, devono andarsene al più presto possibile. 

In Europa molti diventano sedentari e hanno una casa

   Parecchie cose sono cambiate negli ultimi tempi. Tra gli zingari europei vi sono oggi stimati professionisti, valenti artisti, scrittori e musicisti - e ultimamente anche un santo: il gitano Zeffirino Giménez Malla, detto El Pelé, fucilato nel 1936 in Spagna, è stato beatificato nel 1997 da Papa Giovanni Paolo II. Anche in Italia vi sono molti che, senza negare il loro essere zingari, si sono sedentarizzati, studiano e lavorano. Vivono in modo totalmente diverso da quello, tanto enfatizzato da certa televisione e stampa, dei grandi campi zingari, degradati, disumani e umilianti, alle periferie delle città - campi dove si sono insediati soprattutto gli «ultimi arrivati» e quindi i più poveri: quelli scappati, nel corso degli ultimi decenni, da paesi dell'Europa orientale.

Ma lo zingaro resta un outsider

   Anche oggi, comunque, lo zingaro è ancora un outsider. E' accettato e diverte quando si presenta, con la sua ammiccante furbizia e la sua secolare saggezza, nei film, come nel «Tempo dei gitani» e nel «Gatto bianco, gatto nero» di Emir Kusturica, oppure quando si esibisce, come i Gipsy Kings o i Tekameli, sui grandi palcoscenici. Ma nella realtà quotidiana rimane tuttora, e solo raramente per propria scelta, fuori dalla società che lo circonda: rimane «alle porte della città», come dice Olimpio Cari, zingaro, in una sua poesia. 
    Alle porte della città / aspetto un sorriso. / Tu hai ballato nel bagliore del fuoco, / con la musica del mio violino, / ma non hai visto la mia tristezza. / Alle porte della città / aspetto una mano. / Sei venuto nella mia tenda, / ti sei riscaldato al fuoco, / ma non hai calmato la mia fame. / Alle porte della città / aspetto una parola. / Hai scritto lunghi libri, / hai posto mille domande, / ma non hai aperto la mia anima. / Alle porte della città / aspettano con me / molti zingari.


o

Per gentile concessione della rivista PleinAir, che l'ha pubblicato nel numero di novembre 1999, proponiamo un articolo  sulle origini, il percorso
e la situazione attuale
degli zingari.
 

(13 aprile 2000)


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Zingari
aprile 2000

 

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